mercoledì 20 maggio 2015

Memorie di una femminista non pentita (XVI) Perché non i fiori. Un' autocoscienza figurata

Nel momento in cui abbiamo scelto di fare autocoscienza nel nostro sottogruppo di Lotta femminista -eravamo in dodici, di diversa età, estrazione sociale e  impegno professionale- separatismo significava la possibilità di analizzare liberamente temi intimi quali la sessualità, il rapporto con il nostro corpo, le relazioni con uomini e donne, cose delle quali mai saremmo riuscite a parlare in presenza di uomini. 
Ma non c'erano solo le ragioni di riservatezza, avevamo incontrato nella nostra esperienza politica precedente il maschilismo di sinistra, nelle sue varie articolazioni, dalle più benevole e protettive alle più intolleranti, se da un lato non sarebbe stato più possibile sottoporsi al "controllo politico" che molti avrebbero esercitato nelle riunioni, dall'altro eravamo consapevoli del fatto che la presenza di uomini, anche in minoranza e muti, avrebbe fatto scattare automaticamente in noi il bisogno di approvazione.
E' stato difficile fare accettare questo aspetto a molti compagni di gruppi extraparlamentari, e infatti si sono verificati, non a Milano, episodi di violenza di compagni in contesti di riunioni di donne.
Qualche tempo dopo, nelle riunioni di autocoscienza ci siamo rese conto che quel famoso occhio giudicante nei nostri confronti, con lo stesso corredo di criteri di valutazione, lo "sguardo maschile" sul mondo e sulle relazioni, l’avevamo interiorizzato nelle nostre esperienze di vita, di lavoro e di politica, e lo esercitavamo inconsapevolmente tra di noi nella riproposizione dei ruoli, chi era più "politica" e "razionale"  continuava a utilizzare schemi e parole consuete, tendeva a prendere la parola con frequenza, mostrando a volte insofferenza verso chi non concordava, chi era meno abituata a parlare in pubblico, stava in silenzio, ma un silenzio pesante  e colpevolizzante. 
Di fronte a questo ostacolo ci siamo proposte di aggirarlo affiancando allo strumento della parola il disegno.
Nelle riunioni di autocoscienza parlavamo contemporaneamente disegnando. 
Il frutto della riflessione è contenuto in un libro, pubblicato nel 1975, nel quale noi autrici risultiamo tutte nominate rigorosamente solo con il nome di battesimo, dal titolo Perché non i fiori,  Milano, La salamandra.
In quell'occasione ci siamo chiamate Gruppo per l'espressione della donna.
Il titolo del libro e del gruppo non sono casuali, una donna dell'altro sottogruppo di Lotta femminista in risposta alla mia illustrazione del nostro lavoro mi aveva invitato in modo un po' sprezzante a andare in giro per la città a dipingere "fiorellini sui muri", per sottolineare l'irrilevanza della nostra iniziativa, in seguito a questo colloquio proposi il titolo Perché non i fiori.
L'introduzione chiarisce le nostre intenzioni, ricorrere a uno strumento meno logorato del linguaggio, capace di far emergere quanto rimane di non detto nei discorsi, spesso dominati da preoccupazioni di natura logico-razionale, alla ricerca di una modalità nuova di comunicazione tra donne.
Due di noi avevano a che fare con professioni artistiche, una era pittrice-scultrice, l'altra fotografa, poi insegnanti, impiegate, una industriale-manager, un'attrice. 
Il libro è diviso in otto capitoli, all'inizio di ogni capitolo abbiamo riportato delle brevi riflessioni come chiavi di lettura, poi i disegni, non firmati, che illustrano quanto ci eravamo scambiate nelle riunioni.
Infanzia è il primo capitolo, seguito da lavoro, sessualità, verginità, matrimonio, bellezza, età, femminismo, che è il capitolo conclusivo e segna un approdo, dopo un percorso costituito da storie individuali, segnate da tratti comuni di disagio, ribellioni, resistenze.
Nella prefazione si presenta il lavoro come un  modo nuovo di fare politica tra donne.
Intanto questo lavoro di autocoscienza provocava conseguenze nella relazione con mio marito, che per la sua storia parentale e per le sue scelte non corrispondeva al modello di maschio del quale parlavano le mie compagne nelle riunioni di autocoscienza, se questo da un lato mi facilitava la vita, perché condividevamo completamente anche il lavoro di cura, dall'altro mi poneva il problema di temere una sudditanza psicologica nei suoi confronti che mi impedisse di cogliere fino in fondo la mia mancanza di autonomia da lui. 
Dibattendomi in questo dilemma, mi stavo avviando verso un bagno di ideologia, che avrebbe provocato alcune conseguenze di lì a poco nel mio nucleo familiare.