sabato 31 dicembre 2011

Pensierino di fine anno e augurio a chi mi legge

Impossibile sottrarmi a qualche considerazione finale, quest'anno è trascorso abbastanza bene, due nascite, ma anche una morte dolorosa.
Quando ero molto giovane vivevo con angoscia la fine dell'anno, come mi capita ancora oggi per ogni evento irreversibile; poi da adulta non ci ho più pensato, perché ero con i miei bambini, e le emozioni erano solo positive, le aspettative anche, perché Paolo e io condividevamo le loro e il loro entusiasmo per la vita.
Ora che siamo nella "età alta", e i nostri figli non festeggiano più con noi la fine dell'anno,  mi sorprendo a pensare che se per noi è il 2012, per altre/i è il 1000 e rotti, per altre/altri ancora è il 4000 e rotti, e via dicendo.
Eppure siamo tutte e tutti abitatori e abitatrici di questo mondo.
Questa varietà di accadimenti  mi consola molto, perché contrasta con l'idea di ineluttabilità e di rigidità degli eventi e delle situazioni.
Auguri a tutti/e coloro che incrociano questo blog.
Buon 2012.

venerdì 30 dicembre 2011

"Passionale", uno stereotipo linguistico

Nei casi di cronaca nera, femminicidi, omicidi, aggressioni, soprattutto di donne a opera di uomini -amanti, mariti, fidanzati- abbandonati, ogni giornale o notiziario parla di motivi -o anche di delitto- passionali.
E' come una regola giornalistica, l'ho anche sentita nei casi di delitti  nei confronti di gay, ma si sa che per molti/e un gay non è un vero uomo, virilmente parlando, è ricondotto piuttosto a una "posizione" propria del femminile nel rapporto sentimentale, insomma né carne né pesce.
La formuletta "passionale" rimette le cose a posto, si sa che al cuore non si comanda, che per amore si possono fare pazzie, il femminicidio è una pazzia esagerata, anche se pur sempre una follia; spesso si scomoda anche la nozione di raptus, anche se poi risulta che il soggetto in questione ha programmato meticolosamente l'aggressione (l'ultimo assassino aveva in auto 4 coltelli, nel caso uno solo non bastasse).
Il che da un lato derubrica il delinquente a una vittima del troppo amore, un impulsivo, (un bravo ragazzo, un brav'uomo) spinto dalla passione appunto, dall'altro getta un qualche velo di complicità sulla donna, che l'ha fatto soffrire così tanto da ridurlo a uno stato di follia.
E si sa quanta indulgenza nasce nei confronti di chi soffre!
Lo stereotipo qui agisce nel senso di fare velo alla realtà, riducendo i due soggetti a due ruoli consolidati, la donna sempre un po' volubile e infedele, da controllare singolarmente e socialmente, sempre in pericolo di essere preda -se non si attiene a certe regole- di violenze, fino all'assassinio; l'uomo, a sua volta, un feroce animale, nel profondo, ammansito dall'amore femminile, pronto a tornare allo stato belluino da tenero amante e protettore quale era.
Lo stereotipo linguistico sottende questa concezione, fortemente messa in crisi da donne e uomini nella seconda metà del secolo scorso, ma che alberga ancora in troppe donne e soprattuttoin troppi uomini, e ogni volta che viene adottato conferma nell'idea che le cose nel mondo vanno così naturalmente
Non va certo  bene questa ruolizzazione alle donne, ma credo che non vada bene neppure a molti uomini.

giovedì 29 dicembre 2011

Violenza della passione, o solo violenza?


Il concetto di passione, nella realtà della vita quotidiana, quando chiama in causa -passivamente- le donne è molto usato nella cronaca nera dei femminicidi e delle aggressioni da parte di uomini "appassionati", così da indurre un ridimensionamento del crimine, compiuto in nome di un sentimento che non perdona.
La passione però è anche quella che ha spinto alla rovina non poche delle figure letterarie che ci più ci commuovono.
Sempre  nella dimensione letteraria, però, l'abbinamento donne-passione richiama lo stereotipo delle scrittrici che si occupano prevalentemente di sentimenti e di rapporti d'amore nelle loro storie, realtà quest'ultima alternativamente incoraggiata dai critici (Croce prima di tutti) o biasimata e considerata minore nell'ambito dell'istituzione letteraria.
Ma il binomio  rimanda ad alcune scritture che proprio per essersi occupate di questi temi in modo del tutto divergente dal sentire comune, possono essere definite scritture antipatiche. 
Antipatiche perché disattendono le aspettative create dall'accoppiata "scrittrici e sentimenti". Sono grandi scrittrici quelle a cui penso: Magda Szabò, Agotha Kristof e Elfriede Jelinek, allora la connessione tra le passioni e i sentimenti, che queste autrici narrano nei loro romanzi, e la scrittura aspra e per nulla compiacente che adottano nel racconto, arriva in qualche caso a provocare un senso di fastidio. Un fastidio per nulla in contrasto, però, con il fascino della loro voce, che afferra dall'inizio alla fine della lettura, lasciando un po' stremate/i e quasi orfane/i di personaggi e emozioni.
Sarà che tutte e tre le autrici, Jelinek, la più giovane è ancora vivente, hanno vissuto una vita carica di sofferenze per ragioni personali e politiche, sarà che sono nate nell'area e nella cultura austroungarica e, in antitesi con il mito dell'Austria felix e democratica (mentre l'adesione al nazismo fu molto sentita, anche se per ragioni politiche si preferì nel dopoguerra sorvolare e sottolineare l'aggressione da parte della Germania), hanno conosciuto fin dall'infanzia situazioni sociali e familiari fortemente reazionarie e repressive delle libertà.
Non ricordo più quale scrittore o scrittrice ha affermato che l'Austria è il paese in cui si picchiano di più i bambini per educarli. Sarà per questi e altri motivi che i loro romanzi rovesciano complemento l'immagine "romantica" del binomio donne-passione, mettendo a nudo la realtà di ipocrisie e violenza sottesa ai rapporti cosiddetti d'amore, sociali e prima di tutto familiari: tra genitori, spesso madri e figli, mariti e mogli, amici e conoscenti.
Certi uomini combattono per mantenere vivi i diritti patriarcali, certe donne, scrittrici ma non solo, svelano la violenza a fondamento di certe strutture, violenza che si cela dietro  il paravento delle passioni e dell'amore.

mercoledì 28 dicembre 2011

Femminismi

Ho pubblicato su alcuni siti internet, che frequento quotidianamente, la mia riflessione sulla vignetta sessista di Vauro e ho osservato che alcuni/e, una minoranza però combattiva, salvano la vignetta richiamando la ben nota "cattiveria" di Vauro nei confronti di nemici di classe, per loro non c'è sessismo, c'è satira  urticante più che mai.
Come se la cattiveria legittimasse gli stereotipi sessisti.
Una volta di più mi sono confermata nell'idea che se non si prendono in considerazione le immagini di genere che abbiamo interiorizzato non si esce dalla dimensione del patriarcato, tutt'al più ci si emancipa, ma non si rovesciano il sistema culturale e l'ordine del discorso.

lunedì 26 dicembre 2011

Pensierino di Natale

Anche quest'anno è passato il Natale, e ancora una volta mi sono trovata a pensare: la cosa più bella del Natale è che viene, e poi se ne va.
Non condivido  le querimonie sul "consumismo"  e "conformismo" natalizi puntualmente levantisi da alcuni/e, è una festa della tradizione, che fa passare in secondo piano il suo contenuto religioso, anche perché non è il primo relativo al  periodo, e neppure sarà l'ultimo.
Da duemila anni per l'Occidente è quello cristiano il suo significato religioso -malgrado la forzatura di spostare la nascita del dio a dicembre, per coprire feste più antiche-  ma chissà quale sarà il significato tra altri duemila anni..
E' vero che esistono ricorrenze private che festeggiamo, ma l'interesse di Natale, Pasqua, Capodanno e Ferragosto credo consista prima di tutto nel fatto che sono appunto feste collettive, e riguardano una collettività più ampia di quella nazionale, e  non dividono tra fautori e avversari,  tuttalpiù  chi non vi si riconosce le ignora, ma non le combatte; contemporaneamente si tratta di feste che mettono in primo piano il piccolo nucleo, la famiglia, questa è la prerogativa del Natale.
Per questa caratteristica è forse la festa più sentita, prima come figli, poi anche come genitori, risultato: doppia emozione.
Si può storcere il naso, ricordare natali più o meno felici, più o meno ricchi di doni -fatti e/o ricevuti- ma non si resta indifferenti.
Spesso è anche l'unica occasione per fare un regalo a persone che si conoscono da quarant'anni, delle quali si ignora la data di nascita.
Ma probabilmente c'è anche un altro aspetto, più sottile e nascosto, che ci rende sensibili a queste  ricorrenze, esse sono  legate al mutare delle stagioni, all'avvicendarsi dei ritmi di produzione dei frutti della terra, nostra prima fonte di alimentazione, o della interruzione del processo.
Dove va a collocarsi il residuo legame di noi animali con la natura! dalla quale cerchiamo di emanciparci in ogni  modo, un richiamo della nostra memoria di specie?
Natale cade nel momento più buio del nostro emisfero -intendo in senso fisico soltanto, in questa sede - il cristianesimo è nato nella nostra metà della terra;  quindi i regali possono essere percepiti come compensazioni, anche psicologiche, della mancanza di luce e della apparente morte  della natura.
Ogni volta mi sorprendo a aspettare con emozione l'arrivo del Natale, mi preoccupo di fare  grandi spese di generi alimentari  nei giorni immediatamente precedenti la festa, come se poi i negozi non dovessero più riaprire, mi viene una voglia irrefrenabile di cucinare piatti nuovi e diversi dal solito.
Indipendentemente poi da come trascorro il 25 dicembre, finora fortunatamente bene e in allegria, mi ritrovo a dire il giorno dopo: meno male che è passato.
Contraddizioni del cuore.



venerdì 23 dicembre 2011

Dove va a annidarsi la mentalità patriarcale

Due giorni fa ho commentato sulla mia bacheca di face book  la brutta vignetta di Vauro sul Manifesto, vi si vede il personaggio-Vauro che sculaccia la ministra Fornero -raffigurata a sedere nudo, ma con reggicalze- tenendola sulle ginocchia e ripetendo   l'articolo 18 non si tocca.
Secondo me in questo caso non si può parlare di satira, perché la  vignetta presenta stereotipi relativi alla relazione tra donne e uomini largamente diffusi, contravvenendo al compito di critica di comportamenti sociali, culturali, politici, compito appunto proprio della satira.
Provo a indicare due immagini dal forte valore simbolico: quella di una donna sculacciata che, al di là di possibili altre evocazioni che non mi sembrano nelle intenzioni dell'autore, riduce la persona -in realtà più che adulta- appunto a bambina.
Una bambina che va ripresa, sgridata, sculacciata -in un sistema educativo che preveda questa "attività pedagogica" da parte dei genitori -perché non si comporta bene, è immatura? è avventata?comunque  è "paternamente" sculacciata, quasi con affetto e tenerezza, anche se lei appare urlante e stralunata. 
Un avversario di classe si combatte, si prende in giro, anche ferocemente, come è nello stile di Vauro, ma non lo si rimpicciolisce al rango di bambino.
Possiamo vedere Marchionne sculacciato a sedere nudo?
Una donna  avversaria di classe resta sempre una minore, nell'agone politico e sociale.
Ancora: Fornero è nonna e ministra, non ho ancora sentito su di lei notizie di avventure galanti, sessuo-sentimentali, presenti o passate, che possano autorizzare illazioni sulla sua vita privata, perché allora dotarla di  un indumento principe di un certo immaginario maschile come calze e reggicalze? 
Non mi interessa certo sapere se normalmente preferisce reggicalze o collant, sono veramente fatti suoi, parlo della valenza simbolica che io leggo come riduzione della complessità di una donna, bella o brutta, intelligente o cretina, simpatica o antipatica, capace o incapace, alla sfera prioritaria del corpo, della sessualità, della seduzione, indipendentemente dalla funzione sociale e  lavorativa,  e dagli incarichi pubblici ricoperti.
Strizzatina d'occhio a certi uomini, e monito a tutte le donne: attente siete prima di tutto sesso.
Cosa c'è di più stereotipato e omologato di questo atteggiamento?.
Ultima considerazione: quanti e quante leggono il Manifesto, cartaceo o on-line? Credo molte e molti, che si sia levata una voce a rilevare la cosa?
Certo se fosse stato un autore di destra sarebbero partite lamentele di uomini e donne e interrogazioni parlamentari.
Ripeto: con questa mentalità non si va da nessuna parte.

mercoledì 21 dicembre 2011

Politica e etica

Politica e etica

Ho letto la recensione a un libro di Stefano Rodotà appena pubblicato da Laterza, intitolato, provocatoriamente penso, Elogio del moralismo.

Il titolo mi ha ricordato la battuta di Roberta De Monticelli, che  la settimana scorsa nel salotto Caracci, istituzione culturale di Milano, osservando di essere stata definita da Giuliano Ferrara sul Foglio "una moralista pacchiana" ha detto convinta: "Moralista sì, pacchiana no".

Si stava conversando con lei dei suoi due testi, ispirati al grave stato di cose presenti in Italia negli ultimi vent'anni, libri intitolati rispettivamente  La questione morale e La questione civile.

Due persone che stimo usano un termine connotato  normalmente al negativo, la parola moralismo.

E'  risultato per me importante che nel corso della chiacchierata De Monticelli osservasse che del doppio discorso filosofico che tematizzò il patto sociale nel Settecento-Ottocento, si sia progressivamente imposto all'opinione e alla coscienza pubblica
quello utilitaristico alla Hobbes,  in cui si afferma che ci si mette insieme perché così si ha vantaggio (si rinuncia a un certo grado di libertà per vantaggi maggiori),  che poi è il filone a cui si ispira appunto l'economia di mercato.

Mentre l'altro discorso, risalente a Kant , che dice che non c'è solo questo aspetto, ma c'è anche l'amore per il bello, il giusto, il buono, è stato un po' marginalizzato e sottaciuto.

Quello stesso  Kant che raccomanda di  operare in modo che l'altro non sia solo mezzo, ma anche fine (forse sotto sotto era un comunista).

L'etica, come modalità di rapporti tra le persone, gli animali e le cose in una società organizzata,  è sì storicamente determinata, in movimento con il mutare dei tempi e dei costumi, ma  non può prescindere da concetti orientanti quali: bene, bellezza, giusto...

Valori che, dice De Monticelli, non sono ontologicamente o metafisicamente fondati, ma sono qualità, positive o negative delle cose.

Questo è il fondamento di un'etica laica, che esiste, senza bisogno che una parola divina ci insegni la "sua etica", garantita per via soprannaturale, per emanciparci dalla presunta  animalità e ferocia insita nei rapporti umani.

E qui secondo me cascano gli "asini" che sostengono di gradire la morale cattolico-cristiana, ad esempio nella educazione dei/delle figli/e, come modello di educazione, appunto come se non ce ne fossero altri.

La questione è inscindibile dalla conoscenza  e dal processo di  ampliamento della conoscenza individuale e collettiva che finora ha avuto corso nella nostra storia di umani/e, per noi conoscenza  ha significato coscienza.

Il sistema politico-economico, soprattutto negli ultimi vent'anni,  ha ostacolato il reale processo di allargamento della conoscenza,  obiettivo perseguito da molti/e di noi  a partire dagli anni Sessanta, dissimulando l'opera di freno con  lo sviluppo dei   mezzi di comunicazione e di informazione di massa, quali agenti di educazione e istruzione, puntando proprio  sull' affermazione dell'utilitarismo come dimensione etica naturale, del consumismo come conseguente comportamento sociale.

Far coincidere il concetto di libertà con la libertà di consumare beni, oggetti, persone è l'esito finale, utile a chi pensa prima di tutto al profitto delle proprie aziende.

E' dura cosa invertire il processo educativo, si fa la figura di pauperisti, moralisti vecchio stampo, retrogradi che vogliono tornare al Medio Evo, perché l'utilitarismo è l'unico ambito filosofico -più o meno- conosciuto, e è considerato l'unica dimora filosofica dell'umanità laica, da questo traggono alimento  le religioni, ben contente di dimostrare che sono l'unica alternativa all'arido utilitarismo, e in nome di questa salvaguardia dell' umano pretendono di parlare a tutte e tutti.
Ma l'altra questione chiamata in causa da un'etica laica -non garantita da un dio- è quella della responsabilità, collettiva, ma soprattutto individuale. Questo è secondo me un grande ostacolo per un sistema culturale e economico che punta a avere a disposizione servi fedeli - e ben ricompensati- piuttosto che persone autonome, e quindi potenzialmente conflittuali.
Responsabilità nei confronti di se stessi e degli altri, nell'abitare questa casa comune che è il nostro mondo.

Ragazzi senegalesi

Nei riguardi degli  stereotipi linguistici -dettati da pigrizia mentale-  dovrebbero tutti soffermarsi. 
Prendiamo ad esempio l'omicidio razzista di Firenze, la vulgata dei media è che sono stati uccisi due "ragazzi" senegalesi, così scrivono tutti i giornali e dicono tutti i telegiornali, ma quel che è più grave, secondo me, è che anche i comunicati di condanna ad opera di sinceri antirazzisti continuano con la stessa espressione.
Eppure Diop Mor aveva 54 anni, una famiglia che manteneva in Senegal, con una figlia adolescente, della quale è girata l'immagine e è stata lodata l'avvenenza, Samb Modou aveva quaranta anni.
Ragazzi? 
Chiameremmo così degli italiani, francesi, tedeschi....?
Il che sottintende una loro "minorità", perché immigrati, poveri, neri......?
E, ultimo fatto, ma non meno importante, il meccanismo segnala la cecità  nei confronti delle persone, che hanno nomi e cognomi: Samb Modou, 40 anni, e Diop Mor, 54, nomi che sono anche brevi e facilmente memorabili, ma rimangono nel ricordo due ragazzi senegalesi.
Il linguaggio è un mio pallino, ma indica la mentalità delle persone,  la disattenzione nei confronti dei soggetti reali, in carne e ossa.
questo comportamento per me squalifica l'azione.
Io diffido.

martedì 20 dicembre 2011

Afonia

Il mio parrucchiere, alla notizia comunicatagli della mia improvvisa afonia, ha commentato: Che bellezza!
Il mio vicino di casa, incontrato sulle scale e  accortosi della afonia, ha commentato: Che fortuna per Paolo!
Sono diversi per età, formazione, professione, stato coniugale...
Ma sono entrambi uomini.

lunedì 19 dicembre 2011

Ancora sulla lingua

Trovo questo breve articolo, sintetico e chiaro, sull'uso del maschile per indicare donne che ricoprono ruoli dirigenziali. E' scritto da una giornalista, e questo mi sembra importante; dissento però dall'opinione espressa in merito ai neologismi: professora, poeta, studente, l'uso -col tempo-  li legittima.

Le parole delle donne, 
di Giulia Zoli
Internazionale, 18 dicembre 2011 15.16
Per la maggior parte dei giornali italiani Elsa Fornero è un ministro. Per noi di Internazionale (numero 927, pagine 19 e 20) è una ministra. Come darci torto? Lo sanno tutti che i nomi in -o formano il femminile in -a. Se ministra suona strano, è per una questione di abitudine: in Italia i ministri sono quasi sempre maschi.

Scegliendo il femminile riconosciamo alle donne un ruolo sociale a cui la lingua si sta ancora adeguando. Inoltre, per evitare discriminazioni, evitiamo il suffisso -essa e usiamo la forma unica al maschile e al femminile: la presidente, non la presidentessa. Senza mai dimenticare, però, che imporre parole artificiali è impossibile.

Scrivendo la professora, la studente e la poeta, non faremmo un buon servizio a nessuno. Preferiamo procedere senza forzature: rispettando le professoresse, le studentesse e le poetesse, che si sono affermate nella società e nella lingua, e incoraggiando le presidenti e le presidi, che si stanno affermando insieme alle avvocate, alle ministre e alle sindache. Ma neanche così riusciamo ad accontentare tutte le donne.

Molte preferiscono farsi chiamare ministro e avvocato. È un modo per sentirsi riconosciute per quello che fanno, a prescindere dal sesso"

venerdì 16 dicembre 2011

Shoà

Ho letto e sentito parlare spesso dell'unicità della shoà, e ho anche sentito rispondere che non sono certo  un fatto isolato la ferocia delle esecuzioni e le torture di massa, nella storia e nel presente. Eppure mi sembra evidente che l'unicità non si misura solo sulla quantità, che peraltro è enorme, o sull'insostenibilità del pensare ai mezzi e alle forme utilizzate per colpire; neppure sul fatto che si sia scatenata anche su vecchi/e e bambini/e, più fragili -almeno così si pensa- degli/delle adulti/e, ma sul fatto che si sia scatenata su una popolazione perché era quella popolazione, sulla base dell'appartenenza a un popolo. Non c'è stato bisogno  neppure di inventare le  bugie giustificatorie che hanno avviato ai lagher  migliaia di persone e le loro famiglie in Unione Sovietica, o altrove.
E' questo che mi ritorna continuamente in testa, senza che possa darmene una ragione, trovare almeno un senso,  per capire, non certo giustificare, e archiviare in qualche modo la questione tra gli orrori umani.
Ma questa operazione mi risulta impossibile..
Così, quando penso  alla Palestina, quando vedo documentari, come recentemente mi è capitato con Hebron, da un lato rimango stordita dal riaffiorare del ricordo della shoà e di che cosa questo significa anche per il più fanatico/a dei/delle coloni/e, dall'altro resto ugualmente stordita dalla ferocia dei loro comportamenti nei confronti delle/dei palestinesi, che comunque non sono responsabili della shoà, ma sono vittime delle conseguenze.

Sogni

1
Nuota nell’acqua trasparente e calda, quasi immobile, sul fondo del mare un giardino con fiori dal colore acceso; un portone di vecchio legno poggiato sulla superficie al largo, esteso quanto l’orizzonte, le impedisce la vista, sa che oltre ci sono le persone che vorrebbe raggiungere, soprattutto lui, che sente chiacchierare al di là della porta.
Teme che il mare aperto sia mosso, e rinuncia.

2
In un corridoio di una casa, la madre, morta da quasi quarant'anni, è in piedi, addossata al muro, lei le fruga con le dita in vagina, non vede nulla, funziona solo il tatto.
Ha un fare sbrigativo e risoluto, non si  preoccupo della reazione della madre,  che resta muta senza opporsi. 
Subisce?
Al risveglio: disagio, senso di forzatura, nessun erotismo, si domanda “sorpresa”: ma era proprio mia madre? 
Le sembra che nel sogno non  fosse poi così chiaro.

3
 In un corridoio di una casa, forse, quella dei propri genitori,  parla con il padre.