mercoledì 2 settembre 2020

Il Covid19 e la metafora della guerra

Dal momento che usiamo le metafore per dare senso alle nostre esperienze, agite o patite, è il caso di soffermarsi sulla metafora della guerra, adottata da molte e molti per descrivere  il nostro rapporto con il virus che ci  angustia da sei mesi.

Ho finora letto e ascoltato con fastidio tutte le dichiarazioni in merito, pronunciate o scritte da persone comuni e da rappresentanti istituzionali, fino a quando il paragone mi è diventato insopportabile. 

A che cosa serve, infatti, presentarci la lotta al virus come una guerra -dove o si vince o si muore- se non a ingenerare in noi quel senso di ineluttabilità, di impotenza, quasi rassegnazione al peggio e nello stesso tempo a indurci a mobilitare energie psicofisiche per limitare il più possibile i danni che coglieranno tutte/i noi ? Chi può opporsi - a scapito della vita propria e altrui- ai provvedimenti che i e le responsabili politiche /ci utilizzano per preservarci dalla rovina? Chi può osare "mettere i bastoni tra le ruote" in un processo di faticosa ricostruzione dopo  una catastrofe come una guerra? 

Poi a poco a poco nei discorsi gli ambiti di emergenza si sono  moltiplicati, dal settore medico-sanitario a quello politico-sociale, proprio come avviene in guerra, e si si sono avanzate proposte "dolorose" ma "inevitabili" per far fronte al presente e al futuro. 

Lentamente, in mezzo a affanni personali e preoccupazioni più o meno motivate, viene il dubbio che questa metafora sottintenda direzioni e obiettivi ben chiari nella mente di chi ci guida e /o di chi intenda farlo.

Nulla più della guerra rimette a posto, ad esempio, il disordine sociale rispetto ai compiti e alle funzioni di di classe e di genere;  nulla chiama in causa la questione delle relazioni tra gli uomini e le donne come le guerre, guerreggiate, minacciate, mascherate, ignorate, nulla quindi, in ultima istanza, risulta più rassicurante per arginare indesiderati cambiamenti di mentalità, atteggiamenti, comportamenti e costumi.

Gli uomini -guerrieri- rischiano la vita per la difesa di valori, persone, beni, ideali civili e/o religiosi, riconquistando una centralità e un'autorità che sentono messa in crisi dai tentativi delle donne di sottrarsi alla permanente subordinazione sociale e culturale.

Le donne, in sostegno dei loro eroi, da curare nel fisico e nello spirito, trovano una pausa dalle quotidiane fatiche di conquistare un'autonomia di pensiero e azione, nonché dal senso di impotenza e dalla delusione che spesso gravano sulle spalle di chi intraprende un percorso esterno agli schemi di genere socialmente accettati.

Il destino femminile di cura e accudimento, interiorizzato nell'educazione di genere, ritorna a essere risorsa sociale, collettiva e individuale, fattore di esaltazioni e riconoscimenti altrimenti negati. 

Concorrono all'incantamento nei confronti della guerra anche le narrazioni costanti del nostro passato collettivo e individuale, che pongono l'accento soprattutto su eventi bellici, pur mostrandone gli orrori, ma presentandoli come ineliminabili, quasi fossero tratti di specie, oscurando il fatto che molti conflitti furono risolti attraverso mediazioni, dialoghi, scambio di pensieri e parole tra uomini, e anche tra donne.

la Storia insegnata, ricordata, trasmessa è prevalentemente storia di guerre, resistenze, lotte di oppressione e liberazione a cominciare dal fondamento della cultura occidentale, l’Iliade, osserva una scrittrice: " "La letteratura dell’Occidente comincia con la glorificazione di una guerra di rapina" (1),

Le moderne tecnologie hanno sovvertito molte delle immagini interiorizzate rispetto alle guerre conosciute fino a cinquant’anni fa,  hanno fatto  saltare la separazione tra chi combatteva, gli uomini, e chi subiva. donne, vecchi bambini, coinvolgendo tutti e tutte;  cinquant'anni di teorie e pratiche antagoniste a un sistema politico-sociale sempre più cinico e crudele verso persone e animali hanno modificato le  coscienze di uomini e donne, diffuso consapevolezze sulla storicità delle guerre, sulle responsabilità di chi le scatena sotterraneamente o apertamente, per fini individuali o collettivi di asservimento di popolazioni, di rapina di risorse, di dominio del vivente in ogni sua forma, eppure certe motivazioni di fondo non sono cambiate del tutto, i ruoli si sono solo modernizzati, non cambiati alle radici.

La guerra, reale o richiamata, continua  a produrre i suoi effetti sulle menti di donne e uomini.

Allora oggi ci si chiede: le donne che in maggioranza si sono dedicate, durante il lockdown,  a accudire figli e mariti, forse in futuro lasceranno il lavoro?

Le persone che hanno lavorato in remoto, senza più distinzioni di orario tra vita e lavoro, dovranno in qualche modo continuare a farlo, perché c'è stata la guerra e bisogna ricostruire?

Provvedimenti nel campo del lavoro, del welfare, che  da anni si tentava di far passare, scontrandosi con le dalle lotte e le resistenze di lavoratori e lavoratrici  saranno considerati inevitabili, perché si è qppena usciti da una guerra, peraltro non ancora conclusa?

Colgo certe avvisaglie, in discorsi ufficiali, poco tranquillizzanti.







[1] Christa Wolf, Premesse a Cassandra. Quattro lezioni su come nasce un racconto, Roma, edizioni e/o, 1984, p. 22.