sabato 26 novembre 2016

Agnus Dei e la Manifestazione di Roma contro la violenza maschile sulle donne

Ho visto il film Agnus Dei nella  giornata mondiale  contro la violenza sulle donne, del tutto casualmente, erano mesi che non andavo al cinema a causa di impegni personali, mentre io normalmente vado al cinema una volta alla settimana.
Sono superstiziosa e, senza enfatizzare la coincidenza, non posso fare a meno di annotarla.
Il film è commovente e potente, ma in questo momento mi interessa scrivere di quello che mi ha messo in moto, piuttosto che dell'evento artistico.
La storia è accaduta realmente, nel 1945, in una zona della Polonia appena liberata dai tedeschi e controllata dalle truppe sovietiche, è tratta dagli appunti medici di una dottora francese, volontaria della Croce Rossa in un centro di recupero dei soldati francesi feriti, una giovane di 27 anni che, purtroppo, l'anno dopo sarebbe morta accidentalmente in un altro centro medico, sempre in Polonia.
La dottora viene chiamata in un convento di monache benedettine per assistere al parto di alcune di loro, violentate dai russi dopo la liberazione dai tedeschi.
Sul fatto che le truppe di liberazione, in questo caso russe, abbiano violentato donne ebree liberate, tedesche nemiche, suore, e via dicendo ci sono racconti e testimonianza, in realtà poco diffuse, per ragioni di convenienza politica. D'altronde anche gli stupri e gli abusi degli altri liberatori d'Italia non sono tanto raccontati, tranne qualche caso, La Ciociara docet, sempre per convenienze politiche; meglio soffermarsi su quanto avviene altrove, di cui purtroppo abbiamo ricca testimonianza dalla fine del secolo scorso a oggi.
Nel film però accanto alla violenza primaria, lo stupro collettivo da parte dei "maschi guerrieri" nei confronti di qualunque preda incontrino, infatti anche la dottora, intercettata da sola da un manipolo di soldati, russi evita uno stupro solo per l'intervento di un ufficiale, che evidentemente teme problemi, essendo lei una francese, cioè alleata.
Ma le intima di non farsi più sorprendere, evidentemente a viaggiare da sola, visto che appartiene alla  categoria dei vincitori.
Accanto a questa violenza primaria: degli uomini sulle donne durante le guerre, ci sono altre violenze, tutte rappresentate.
C'è la vergogna e lo stigma sociale che colpirebbe delle suore, supposte vergini, che per il voto di castità dovrebbero essere né toccate né guardate, che sarebbero condannate dalla società all'isolamento, alla miseria o peggio: colpa e vergogna loro se sono state stuprate.
C'è la violenza della religione: molte sono convinte di cadere nel peccato se solo la dottora le tocca o le osserva, perché infrangerebbero volontariamente il suddetto voto di castità, la madre superiora per evitare "lo scandalo e l'umiliazione", per "proteggerle" porta i bambini e le bambine nate di nascosto neòl bosco e le abbandona lì, davanti a una croce, con l'alibi che la Provvidenza ci avrebbe pensato lei!
Crimini su innocenti, donne e neonate/i, come recita il bel titolo francese Les innocentes.
In questo orrore e sofferenza infinite, la dottora, atea e comunista in relazione con una delle suore, migliora, almeno parzialmente la situazione.
Commovente anche il rapporto tra queste donne, dalle scelte di vita, dalle idee, dalle soggettività così diverse, eppure così lucide  su quello che occorre fare per contrastare la tragedia.
Ognuna rinuncia a qualcuna delle proprie convinzioni e alle resistenze interiori, lo si vede dalle inquadrature dei visi, pensosi mentre pendono le decisioni, per collaborare con l'una con l'altra.
Torno alla coincidenza di cui ho parlato all'inizio e alla costruzione della Manifestazione di Roma contro la violenza maschile sulle donne, a tutte le polemiche che l'hanno accompagnata, a tutti i ritiri dalla Manifestazione di donne singole e in gruppi in nome di principi inderogabili, a tutte le giustificazioni, tutte valide, prese una per una.
Ma la lezione dell'episodio narrato nel film non può essere ignorata.



sabato 19 novembre 2016

Femminismi degli anni Settanta, rotture e permanenze

In tempi di stucchevoli domande se il femminismo è vivo o morto, se è stato o no complice di un’accelerazione del neocapitalismo (secondo l’affermazione di una studiosa che ha avuto grande eco sui mezzi di comunicazione nostrani, Nancy Fraser)  proponendo un’emancipazione di donne che utilizzano a proprio vantaggio ogni possibilità offerta dal mercato e dalle tecnologie, occorre ricordare che cosa è stato il femminismo nato in Italia agli inizi degli anni Settanta.
I primi nuclei di donne che si trovarono a parlare di quella che allora  era chiamata la questione femminile affermarono da subito la loro distanza dalla prospettiva emancipazionista, condotta da anni da parte dell’associazionismo femminile, e dalle Commissioni dei partiti, in particolare Cif e Udi.
La differenza tra emancipazionismo e femminismo consiste nella volontà di quest’ultimo di scardinare un ordine culturale e sociale fondato sulla divisione patriarcale di ruoli e funzioni, invece che limitarsi a richiedere diritti per correggere gli aspetti strutturali di discriminazione e subordinazione delle donne rispetto agli uomini, mentre la prospettiva emancipazionista si propone di migliorare l’assetto del sistema rendendolo più giusto e equalitario.
Alcuni temi che ricorrono frequentemente nel dibattito attuale, specie tra donne giovani  rimandano a questioni ampiamente dibattute all’interno del  movimento delle donne degli anni Settanta, segno che molte questioni non sono state ancora risolte.
In termini di permanenza abbiamo il tema della maternità, declinato allora nella prospettiva di maternità cosciente perché In una situazione nella quale in Italia era proibita la contraccezione, se non quella ammessa dalla chiesa, definita metodo naturale, il ricorso all’aborto era una questione di classe, chi aveva soldi lo effettuava in sicurezza, le altre rischiavano patologie e la vita. 
La questione dell’aborto, sovente riassunta nei mezzi di comunicazione con la semplicistica espressione diritto di aborto, era inserita nella prospettiva della scelta autonome delle donne di avere o non avere figli, l’espressione diritto d’aborto era rifiutata da una parte consistente del movimento femminista allora come oggi, perché maschera la dimensione di violenza e sofferenza fisica e psichica che procura un aborto ad ogni donna che decida di farvi ricorso.
Oggi si è ancora in presenza di tentativi ripetuti di cancellare la legge e, nel caso non riescano, a renderla inapplicabile per mezzo dell’obiezione di coscienza, ma il tema della maternità è coniugato con quello della precarietà del lavoro.
Un’altra permanenza riguarda il tema della sessualità, la tanto sbandierata rivoluzione sessuale si è dimostrata nella realtà una modernizzazione dei costumi, che ha cancellato il ritardo storico di cui soffriva l’Italia in questo campo; non si sono risolti i problemi, anzi si sono complicati con il fiorire di istanze neoliberiste che inducono alcune donne a mettere a profitto lo scambio sessuo- economico, che fonda la relazione patriarcale tra donne e uomini, stravolgendo il significato dell’espressione l’utero è mio e lo gestisco io. Espressione che allora intendeva affermare la volontà delle donne di sottrarsi al controllo di uomini (mariti, padri, fratelli) medici e preti del loro corpo e delle loro funzioni sessuali e riproduttive.Un’altra permanenza riguarda il tema che allora si chiamava doppio lavoro (lavoro domestico di manutenzione di ambienti, persone, cose) e il lavoro fuori casa, e che oggi si chiama  cura.
Il tema fu subito presente alla riflessione femminista, ma venne trascurato dalla parte del femminismo più presente nei media e da molte femministe stesse.
Negli anni Settanta alcuni collettivi femministi, in particolare veneti, milanesi e emiliani, riuniti nel gruppo Lotta femminista, misero a punto analisi molto sofisticate della funzione delle donne nel privato e nel sociale,  funzione fondata sullo sfruttamento del ruolo femminile naturalizzato e base principale dell'accumulazione capitalistica. L'analisi del lavoro domestico, affettivo, relazionale, di sostegno psicologico, sessuale e sentimentale, erogato dalle donne in nome dell'amore, ebbe anche una buona diffusione in libri e documenti che circolarono anche in fabbriche e scuole, ma la pratica a cui diede luogo non raggiunse i risultati sperati. Ad esempio l'iniziativa dello sciopero del lavoro domestico non ebbe successo, non solo per il sentimento di abnegazione interiorizzato dalle donne, ma perché le prime a essere colpite da questa forma di lotta sarebbero state proprio le donne, che nelle case ci vivono, mangiano, ci cucinano, che riordinano, i luoghi nei quali vivono insieme alle altre e agli altri.  
La ricchezza e la complessità delle analisi fu semplificata e troppo presto liquidata nel movimento stesso, inoltre l’espressione salario al lavoro domestico, adottata dalla parte veneto-emiliana di Lotta Femminista, non quella milanese,  fu strumentalmente fraintesa non solo dagli oppositori e dalle oppositrici al femminismo, ma anche da molte donne del movimento;  fu considerata sinonimo di pensione alle casalinghe  e in quanto tale combattuta come strumento non solo inadeguato economicamente ma destinato a fissare e confermare il ruolo femminile all’interno della società.. 
Il femminismo italiano  che ebbe maggiore risonanza si dedicò all’indagine delle complicità delle donne con l'ordine del discorso dominante, alla ricerca delle immagini di genere interiorizzate, delle implicazioni, consce e inconsce con il sistema che si voleva combattere. 
L'errore fu la contrapposizione dei due momenti, che, ugualmente importanti, avrebbero dovuto procedere parallelamente, e non escludersi a vicenda. 
Ricademmo in questo modo nella contrapposizione dualistica che mettevamo in discussione in altri campi.
Il discorso del lavoro invisibile delle donne si diffuse in altre aree dell'Europa e degli USA.
Oggi penso che per l'Italia il discorso fosse troppo anticipatore, non a caso torna prepotentemente alla ribalta in questa temperie politica, sociale e culturale.  
Rispetto poi alle domande che cosa è cambiato negli ultimi trent’anni e cos’è oggi fare politica,
c’è da osservare che sono cambiate certe condizioni, ci sono più donne nei posti che contano, nel lavoro, nella politica, si fanno discorsi sulla femminilizzazione del lavoro, sul valore aggiunto dell’avere donne nelle organizzazioni, ma se questa massiccia presenza delle donne non esita in un reale cambiamento delle relazioni donne uomini, nella sostanza, non nella superficie, anche in questo caso si tratta di modernizzazione semplicemente.
Frequentando donne giovani oggi colpisce il fatto che molti aspetti di quelle discussioni, dibattiti, riflessioni sono ignorati, eppure i Centri e le Case delle donne, nati numerosi negli anni ’80 in molte città,  hanno fatto un egregio lavoro d'archivio, non solo per preservare, ma per rendere leggibili i documenti del primo femminismo. Donne dei Centri, delle Librerie e delle Biblioteche delle donne e documentaliste hanno lavorato per raccogliere e organizzare testi, volantini, ciclostilati dispersi nelle case, hanno inventato nuovi sistemi di classificazione e linguaggi di indicizzazione. C'è stato a Milano un Convegno internazionale sul tema, finanziato dalla CEE, e gli Atti sono stati pubblicati; è pubblicato Linguaggiodonna. Il primo Thesaurus di genere in Italiano, costruito sui documenti del Centro di studi storici di Milano. Sono stati pubblicati anche libri che ricostruiscono la storia, penso a Bologna, Milano, Torino, Genova, e altre città.
E' nata la Rete Lilith, che ha costruito una banca dati di tutto il patrimonio di idee e esperienze espresso dal femminsimo in Italia. Tutto lavoro ignorato completamente dai mezzi di diffusione di massa e trascurato da buona parte del femminismo, almeno quello di donne tese a accreditarsi presso le istituzioni che contano, a ricevere riconoscimenti pubblici. Oggi si vedono i risultati: ignoranza assoluta da parte di molte/molti, mistificazioni e tentativi di piegare il femminismo alle proprie idee.







martedì 15 novembre 2016

Inizi del femminismo a MIlano

Riprendo un discorso già fatto un anno fa sugli inizi del femminismo a Milano.

Dopo una prima fase di riunioni nelle case tra sindacaliste, donne dell'UDI, studenti (-esse) che avevano letto i documenti portati dagli USA da Serena Castaldi, incontri con Daniela Pellegrini e Lia Cigarini, allora entrambe nel Demau, che si riuniva dal 1966, con un taglio antropologico, con le ragazze de Il Cerchio spezzato, trasferitesi a Milano da Trento (Elena Medi, Luisa Abba, Silvia Motta, Gabriella Ferri) e incontri con donne di Torino, Padova, Ferrara, Modena, si decise nel 1971 di fare un Convegno, per pubblicizzare temi e discutere tutte insieme.

Dal momento che con le altre avevo tanto lavorato all'organizzazione dell'evento fui molto contenta del "successo" quanto a affluenza di donne, ma nello stesso tempo mi resi conto che stavano entrando in crisi la visione  "comune" della "condizione delle donne"  e per me il mio modo di partecipare al movimento fino ad allora., avevo cominciato stilando un volantino dal titolo "Basta con il doppio lavoro", distribuito alle donne della Siemens e  della Farmitalia, fabbriche a prevalente mano d'opera femminile, allora situate a poche centinaia di metri l'una dall'altra sulla circonvallazione esterna di Milano.

Certo si respirava l'entusiasmo all' idea di lavorare tutte insieme a un progetto, ancora molto nebuloso, ma di radicale modificazione della vita individuale e collettiva di donne e uomini, ma risultarono evidenti le diversità tra noi, forse fino ad allora mitigate dal calore ambientale delle riunioni casalinghe.

Vi parteciparono circa 70 donne, di Milano, Padova, Ferrara, Pisa, Trento, Firenze, Bologna e Torino.

Quasi tutte le intervenute al Convegno con relazioni e comunicazioni, e in particolare le partecipanti delle altre città, tranne le donne di Totino e Milano, avrebbero costituito di lì a poco Lotta Femminista.
 Le donne di Torino facevano parte del gruppo Collettivo Rivoluzionario, avevano cominciato a riunirsi separatamente dai compagni, il loro primo documento era stato stilato nel settembre del 1970, in seguito alcune di loro avrebbero dato vita al Gruppo femminista di Via Petrarca.
Le donne di Milano si avrebbero dato vita a collettivi differenti tra loro, una parte di lì a qualche tempo avrebbe dato cita a un Gruppo di Lotta femminista, diviso in due sottogruppi quando faceva autocoscienza.

La caratteristica infatti di Lotta Femminista di Milano era quella di praticare "l'intervento esterno" su situazioni di donne particolari e contemporaneamente fare autocoscienza. Cosa largamente disapprovata da Lotta Femminista Nazionale.

Anche se al tempo del Convegno non era stato ancora teorizzato il separatismo, il Convegno era riservato alle sole donne.

Il tema fondamentale in discussione era il doppio lavoro, domestico e per il mercato, e le condizioni delle lavoratrici e delle casalinghe, le modalità di intervento ricalcavano, come ho già scritto, quelle tipiche delle assemblee dei movimenti: tavolo di presidenza, relazioni strutturate, interventi delle presenti.

L'invito provocatorio di Serena di Castaldi, del gruppo Anabasi, a scendere in giardino, abbandonando una situazione di convegno tradizionale per parlare di sé in modo informale, anche se fu poco poco seguito, introduceva già quella che sarebbe stata la divisione, deleteria, tra due dimensioni del femminismo milanese a lungo considerate inconciliabili, quella prevalentemente autocoscienziale, che si sarebbe in seguito  orientata all'analisi del profondo, e quello orientato anche all'intervento nel sociale, intervento interno e intervento esterno, si diceva allora.

L'errore fu, ma lo dico col senno di poi, la divaricazione tra due momenti che avrebbero dovuto procedere strettamente connessi, vale a dire da un lato l'analisi dell' interiorizzazione dell'ordine costituito attraverso l'esame delle immagini di genere, delle complicità di noi donne con il patriarcato, dei vantaggi e delle nicchie di potere che questo garantisce, dall'altro l'analisi dei processi economici e sociali messi in atto dal sistema capitalistico, una volta assunta e utilizzata la gerarchizzazione dei ruoli imposta dal patriarcato, in particolare l'artificiosa separazione tra produzione e riproduzione.

Diverse furono di conseguenza le pratiche politiche: puntare sulla trasformazione delle relazioni tra donne, per prima cosa, e quindi tra donne e uomini per cambiare lo stato delle cose nel primo caso; intervenire nelle situazioni di maggiore sfruttamento del lavoro e della vita delle donne con l'intenzione di alimentare conflitti e costruire alleanze, nell'altro.

I due filoni procedettero separatamente, producendo entrambi un consistente patrimonio teorico che negli anni '80 fu raccolto e organizzato negli Archivi, Centri, Librerie e Case delle donne.

Se la riflessione di chi privilegiava l'intervento esterno mancava dello sguardo dentro le soggettività, in merito agli schemi di relazioni, alle fantasie, alle paure, ai desideri, alle aspettative, indispensabile motore di un reale cambiamento di paradigma, il lavoro di riflessione, derivante dal movimento dell'autocoscienza e della pratica dell'inconscio, che in Italia sarebbe stato poi considerato il "vero femminismo", avrebbe prodotto mutamenti rilevanti nelle vite e nelle coscienze delle donne del movimento, ma sarebbe risultato alla lunga circoscritto appunto alle donne del movimento, o a questo contigue, con minore penetrazione nelle donne più esterne, anche per ragioni anagrafiche, una volta concluso il fermento sociale degli anni Settanta.

Comunque al Convegno del 1971 prese corpo l’idea di trovare unasede comune ai vari collettivi, al di fuori delle case private.

Ho già scritto delle riunioni del Collettivo Milanese che si tenevano a casa mia dall'autunno del 1970 al giugno 1971, non si poteva parlare ancora di autocoscienza, quanto piuttosto di presa di coscienza della subalternità-materiale e culturale- agli uomini, che accomunava tutte le donne, indipendentemente dalla loro posizione sociale, anche se poi si tendeva a distinguere tra chi sembrava "privilegiata" comunque, la moglie di Agnelli, per disponibilità economica maggiore rispetto alle operaie, impiegate, contadine.

Le parole ricorrenti nella riflessione erano oppressione, in tutti gli aspetti collettivi e individuali, pubblici e privati e sorellanza.


Gli obiettivi erano di carattere prevalentemente economico, si analizzava la posizione delle donne sia all'interno delle società capitalistiche che di quelle socialiste.


Studiavamo documenti, statistiche sull'occupazione femminile, sulla segregazione orizzontale e verticale nei luoghi di lavoro, sul doppio lavoro a casa e fuori, sulla presenza o meno di servizi sociali, non solo in Italia ma anche in altre realtà europee e extraeuropee.


Il primo effetto degli scambi e delle visite reciproche fu senz'altro l'allontanamento degli uomini dal gruppo; in realtà erano solo due e più ascoltatori che interventisti, ma la loro presenza divenne subito imbarazzante.

Dopo il convegno niente per me fu come prima, il confronto con le elaborazioni e le pratiche degli altri gruppi mi fece avvertita del rischio di cadere in un atteggiamento paternalistico, in quanto "politica" nei confronti delle altre; la maternità, intrecciata con il lavoro, mi toglieva energie psicofisiche, dal momento che mio marito e io potevamo contare solo sulle nostre forze, senza aiuti parental, per questo concorso di cose rallentai l'impegno femminista e restai un po' alla finestra.