sabato 18 novembre 2017

Contesto relazionale 5. Far trovar buona la vita

Adoperarsi per alleviare sofferenze, aiutare le persone a superare difficoltà, badare a disabilità temporanee o permanenti, sopire conflitti, in una parola "far trovare buona la vita" (Sibilla Aleramo) dovrebbe essere lo scopo prioritario e reciproco di uomini e donne, l'ha cantato il poeta arrivato alla fine della propria breve vita.
In un sol colpo si eliminerebbero i mali, almeno quelli che affliggono l'umanità per colpa dell'uomo (inteso qui come pseudo-universale): dalla subordinazione delle donne, allo sfruttamento del lavoro,  dal consumo massiccio delle risorse del pianeta alle violenza alle quali sono sottoposti gli animali.
Il fatto è che il compito di consolare, riparare, mantenere, prendersi cura di persone, animali e cose è assegnato solo alle donne, come aspetto intrinseco della loro femminilità, mentre l'uomo può scegliere di condividerlo o disinteressarsene, la sua maschilità non verrà messa in crisi, anzi è data per scontata e quindi accettata e legittimata una dose di barbarie intrinseca alla propria natura di maschio che aspetta di essere frenata e ingentilita dalle donne che lo circondano.
In compenso all'uomo, inteso come parte maschile dell'insieme umano (e già il fatto di dovere segnalare la valenza contestuale del termine dovrebbe mettere in allarme) è assegnato come tratto identitario naturale l'occuparsi di quanto concerne le attività di carattere pubblico, economico, politico necessarie alla vita delle collettività.
La perfetta complementarietà, contraddetta poi nei fatti dalla priorità delle attività pubbliche e economiche rispetto alle attività volte a migliorare la qualità delle vite di tutte e tutti.
Questa suddivisione di funzioni ha prodotto la storia che conosciamo con la gerarchizzazione degli addetti e delle addette ai vari compiti, ha plasmato nei millenni soggettività di uomini e donne.
Innanzitutto ha comportato lo scambio sessuo-economico che è alla base delle relazioni umane: le donne, considerate negli aspetti e funzioni  di riproduzione fisica affettiva e sociale e di seduzione e soddisfacimento sessuale, sono diventate proprietà degli uomini che le avrebbero ripagate con il mantenimento economico, con la protezione dai pericoli esterni all'ambito domestico, dai nemici, dalle aggressioni pubbliche e private.....
Come è andata e come va è sotto gli occhi di tutte e tutti. 
Nel corso delle trasformazioni dei costumi, in seguito all'accesso di massa delle donne al lavoro per il mercato e contestualmente ad un disastroso  sviluppo produttivo distruttivo di ambiente e risorse, si sono moltiplicati  appelli che sottolineano l'indispensabilità delle donne e delle loro capacità, competenze e attitudini a salvare il mondo.
Nell'economia, nel management delle aziende, nella politica, nel sociale la risorsa per ristabilire equilibri, raddrizzare  situazioni pericolanti, ripristinare una perduta civiltà di rapporti tra persone e cose sta nel ricorso all'opera donne.
I giornali economici sono pieni di statistiche e ricerche volte a dimostrare che dare qualche responsabilità direttiva  a donne migliorano la qualità del lavoro e anche i profitti.
Il femminismo della seconda metà del Novecento ha svelato la trappola della compassione per le donne, vale a dire l'illusione che la potenzialità naturale sia in grado di civilizzare i barbari costumi maschili così nel pubblico come nel privato, illusione che ha alimentato il senso di onnipotenza affettiva e sessuale che è andato a compensare la reale irrilevanza sociale, e ultima cosa, ma non meno importante, ha messo impietosamente in luce la debolezza degli uomini, intesi come una categoria dell'insieme umano,  l'incapacità di sostenere se stessi e la vita di chi dipende da loro, nel pubblico come nel privato.
Di fronte a questa realtà il femminismo ha messo in guardia, le donne, e continua a farlo, dal cadere nella  trappola assumendo su di sé il compito appunto di sostenere gli uomini e il loro operato, continuando a occultarne la debolezza reale.
Occultamento d'altronde funzionale a mantenere la percezione di indispensabilità che dà senso a vite, altrimenti prive di valore sociale.
E' banale ma doloroso constatare che quanto più si progredisce nella conoscenza di meccanismi che si riproducono automaticamente, tanto più si intensifica la dose di violenza esercitata dagli uomini sulle donne.
Come si fa a rifiutarsi di  spendere forze, energie e intelligenze per migliorare la vita degli altri e la propria, pur sapendo che in tal modo si sostiene e si conferma il dettato patriarcale del quale si giovano gli uomini, che in tal modo evitano di prendere coscienza della propria inadeguatezza a rendere buona vita per tutte e tutti?
E se si continua nell'opera di prendersi cura di persone, animali, ambiente e cose, pur andando incontro a tutte le conseguenze generate dal sistema in cui viviamo e che sono state analizzate in modo approfondito dal femminismo, come si fa a rinunciare alle briciole compensative che vengono offerte?
Non sono neppure d'accordo con le varie ipotesi di sostituire  matria a patria, ad esempio, perché la madre e i valori di cui è portatrice questa figura, nel nostro ordine patriarcale, sono definiti in relazione al padre e alla paternità, e viceversa; la donna e i suoi valori sono definiti a in relazione all'uomo, e viceversa, in relazioni ora di complementarietà, ora di contrapposizione.
Ma sono figure simmetriche.
Occorre destrutturare tutte le figure patriarcali, non sostituire l'una all'altra, occorre uscire dai dualismi se non si vuole rischiare di approdare all'emancipazionismo, che non rovescia l'ordine patriarcale, ma lo modernizza.
L'unica via praticabile mi sembra quella di approfondire le consapevolezze maturate nel corso degli ultimi decenni, non solo da parte delle donne, ma anche degli uomini, perché tutti quanti ci si impegni prioritariamente a far trovare buona la vita.
Un contesto si cambia con il contributo  di tutti i soggetti che lo abitano, se si è destinati a convivere, altrimenti non resta che emigrare su un altro pianeta.






mercoledì 8 novembre 2017

Contesto relazionale 4, donne e uomini nella lingua

Commenta Virginia Woolf, nel corso di una conversazione radiofonica alla BBC del 1937: 
“ [... ] le parole, se usate con accortezza, sembrano capaci di vivere per sempre. […] Una frase delle più semplici risveglia l'immaginazione, la memoria, l'occhio e l'orecchio.
[…]Questo potere di evocazione è una fra le più misteriose proprietà delle parole.[…] Le parole sono piene di echi, di ricordi, di associazioni.[…] Sono tanti secoli che vanno girando sulle labbra della gente, nelle case, nelle strade, nei campi. E una delle maggiori difficoltà dello scrivere, oggi, è proprio che le parole hanno accumulato tanti significati, tanti ricordi, hanno contratto tanti matrimoni famosi.[…] Sono le parole le più selvagge, le più libere, le più irresponsabili, le meno insegnabili di tutte le cose. Naturalmente si possono acchiappare, scegliere e mettere nei dizionari in ordine alfabetico.Ma le parole non vivono nei dizionari: vivono nella mente.[…]E come vivono nella mente? In modo strano e diversificato, proprio come vivono gli esseri umani, andando qua e là, innamorandosi, e accoppiandosi. E’ vero che sono meno legate alle convenzioni, ai cerimoniali di quanto non lo siamo noi. Parole regali si accoppiano con le borghesi. Parole inglesi sposano parolefrancesi, tedesche, indiane, di colore, se viene loro l'uzzolo”.


La lingua costituisce i binari su cui viaggia il nostro pensiero, rispecchia l’ordine culturale e sociale delle/dei parlanti,  vale a dire la concezione del mondo di una popolazione.
La funzione modellante della lingua fa sì che le rappresentazioni sociali in essa sedimentate si traducano, a livello del senso comune, in forme ritenute obiettive di conoscenza.


Le lingue storico-naturali sono i luoghi in cui si costituiscono le soggettività delle donne e degli uomini, perché sono, come abbiamo visto, i depositi collettivi di valori, di giudizi  di idee, di atteggiamenti e  modelli di comportamento, di aspettative e sentimenti sui quali ci formiamo a partire dal nostro ingresso nel mondo e ai quali dovrebbero conformarsi le donne e gli uomini reali, secondo i canoni delle relative educazioni di genere.
Le lingue sono anche i luoghi della codificazione dei ruoli sessuali nelle diverse culture e società, ruoli vissuti come naturali e quindi spesso ritenuti immutabili, proprio perché appresi dalla e nella lingua materna.

Allo stesso modo, gli stereotipi sedimentati nelle lingue in relazione anche ad altre componenti discriminatorie oltre al sesso quali l’appartenenza a certe etnie,  il colore della pelle, la pratica di determinate religioni, l'esercizio di determinati mestieri o professioni, l'orientamento sessuale agiscono nel profondo delle/dei parlanti, trasformati in vere e proprie rappresentazioni culturali e sociali, fatte proprie, a volte a livello inconsapevole, dai/dalle parlanti/pensanti.


Norme e raccomandazioni servono poco a modificare modi di pensare e conseguenti comportamenti collettivi e individuali, e richiedono tempi lunghi.

La lingua italiana nella sua struttura di senso e funzionamento presenta un alto grado di androcentrismo, perché prevede un solo soggetto di pensiero e di discorso, apparentemente privo di determinazioni materiali e sensibili, quindi astratto e asessuato, e in quanto tale universale, adatto cioè a rappresentare sia gli uomini che le donne, in realtà strutturato secondo modalità ascritte, nella nostra cultura, al maschile


La natura androcentrica della lingua si manifesta nell’ uso del maschile come neutro universale per rappresentare entrambi i sessi; il che rende invisibili le donne reali e concrete, occultando sia la loro presenza che la loro assenza dai processi della vita sociale, politica e culturale, del passato e del presente, come rilevò Alma Sabatini già negli anni 80.

L'asimmetria  linguistica tra maschile e femminile influenza  l’economia psichica delle/dei bambine /bambini nel processo di individuazione di sé e di costruzione della propria soggettività, e comporta una  autosvalutazione da parte delle bambine, a cui corrisponde peraltro un’ altrettanto negativa sopravvalutazione di sé da parte dei bambini.
Una prova piccola, ma significativa, del fatto che l’asimmetria linguistica provoca una profonda asimmetria di valore si ha quando si provi a utilizzare un femminile generico per rappresentare anche i maschi: è infatti accettato -come naturale- da una ragazza all’esame di stato un modulo scolastico che la definisce il candidato, ma non è accettato da nessuno studente un modulo che lo definisca la candidata, non solo risulta impensabile, perché inconsueto, ma anche offensivo.
Le bambine e le donne, quindi, nella propria vita dovranno spesso fare i conti non solo con gli eventuali vincoli sociali opposti alla propria piena realizzazione e autodeterminazione, ma anche e soprattutto con le proprie schiavitù interiori, indotte dalla fragilità dei sentimenti di autostima e di stima per le donne in generale, interiorizzata attraverso le rappresentazioni depositate nella lingua.

Questa svalorizzazione costituisce il primo gradino verso la strutturazione psichica della dipendenza dagli uomini.

Anche nelle lingue in cui appare superata la distinzione in generi grammaticali, ad esempio l’Inglese, si assiste a fenomeni di  automatica attribuzione di ruolo femminile ai termini nurse, secretary, prostitute, virgin, e  di ruolo maschile a surgeon, pilot, taxi driver.

Ripropongo, a titolo esemplificativo, alcune osservazioni tratte dagli studi di Alma Sabatini sulle principali dissimmetrie dell’Italiano. 
Per quanto riguarda il campo grammaticale le dissimmetrie relative ai lavori e alle professioni, che sono ancora prevalentemente declinate al maschile, anche se negli ultimi tempi hanno fatto registrare una notevole presenza femminile: mentre per i mestieri esiste la regolare distinzione cameriere/cameriera, parrucchiere/parrucchiera, contadino/contadina, maestro/maestra, suonano male e non vengono usati i termini: ingegnera, dottora, ministra, per indicare le donne che esercitano tali professioni, termini che sarebbero autorizzati dalla morfologia dell’Italiano.
Per quanto riguarda poi il campo semantico, accenno soltanto al diverso significato che assumono alcuni sostantivi e aggettivi se riferiti a uomini o a donne: serio/seria, buono/buona, segretario/segretaria, maestro/maestra, pubblico/pubblica, onesto/onesta.

Salta all’occhio, in questo caso, il richiamo costante all'ordine simbolico patriarcale che ha confinato le donne nell’ambito della natura, del corpo, della sessualità, della riproduzione biologica e sociale, del privato affettivo-familiare come ambito proprio e prioritario, escludendone contemporaneamente gli uomini, confinati a loro volta nella mascolinità.

Di qui, allora, la necessità, che credo ineliminabile nel tempo breve, del raddoppio cacofonico e apparentemente ridondante delle desinenze femminile e maschile di sostantivi e aggettivi, e del raddoppio degli articoli che precedono i sostantivi invariabili (le/gli studenti, le/gli insegnanti, le/gli presidenti...), per dare concreta visibilità ai due soggetti.
Altrettanto importante la scelta, ove possibile, di preferire termini che indichino i soggetti reali e sessuati, rispetto a quelli astratti e neutralizzanti: bambine e bambini, invece che infanzia, uomini e donne invece che umanità o persone.


Anche se non è possibile modificare nell’immediato, e con semplici atti volontaristici, le strutture e i meccanismi di funzionamento di un sistema così complesso come la lingua, l’adozione di dispositivi che segnalino le dissimmetrie tra maschile e femminile aiuta a contrastare il fenomeno dell’ inerzia linguistica e quindi mentale di donne e uomini e abitua le/i parlanti alla continua consapevolezza che i soggetti del discorso sono due. 
Sono convinta che quest’attenzione contribuisce concretamente a rimuovere le forme di discriminazione delle donne che risiedono prima di tutto nell’ordine del discorso comune..




venerdì 3 novembre 2017

Contesto relazionale 3. Guerra e conflitto

Non è possibile, neanche auspicabile, rinunciare al conflitto, anima della democrazia, sopirlo, addormentarlo è l'obiettivo dei vari populismi che invitano ad accantonare divisioni e contrasti in vista di un noi compatto per perseguire qualche ideale politico e sociale, ma dovrebbe essere possibile rinuncia alla guerra, eppure la guerra è ormai esperienza quotidiana, diretta o indiretta di tutti noi, abitanti di questi sciagurati tempi.

Nelle zone in cui la guerra guerreggiata non c'è, perché la si esporta altrove (guadagnandoci con la vendita di armi), si sono interiorizzate immagini belliche come le uniche pratiche per raddrizzare torti, porre fine a ingiustizie, rafforzare identità pericolanti, ricompattare fratellanze in crisi, lusingare narcisismi, riconfermare nei rispettivi ruoli tradizionali e patriarcali uomini e donne.
Nulla infatti più della guerra rimette a posto il disordine sociale creatosi rispetto ai compiti e alle funzioni di genere, nulla quindi, in ultima istanza, risulta più rassicurante dinanzi ai veloci cambiamenti di mentalità, atteggiamenti, comportamenti e costumi.

Forse è proprio questo il potere ipnotico della guerra su uomini e donne, non si spiega altrimenti la facilità con la quale moltitudini di persone si lasciano manipolare dai propri governanti e condurre a guerre sanguinose, pur conoscendone i rischi e gli orrori.

Gli uomini -guerrieri- rischiano la vita per la difesa di valori, persone, beni, ideali civili e/o religiosi, riconquistando una centralità e un'autorità che sentono messa in crisi dai tentativi di sottrarsi alla permanente subordinazione sociale e culturale da parte delle donne.

Le donne, in attesa del ritorno dei loro eroi da curare nel fisico e nello spirito, si attivano a ripulire ambienti, liberare luoghi fisici e mentale dalle macerie, ricostruire reti di solidarietà e relazione, e in questi momenti trovano riparo dalle fatiche di conquistare un'autonomia di pensiero e azione e dal senso di impotenza che spesso grava sulle spalle di chi intraprende questo percorso.

Il destino femminile, interiorizzato nell'educazione di genere, ritorna a essere risorsa sociale, collettiva e individuale, fattore di esaltazione e riconoscimento sociali, altrimenti negati.

Purtroppo concorrono all'incantamento nei confronti della guerra anche le narrazioni costanti del nostro passato collettivo e individuale, che pongono l'accento soprattutto su eventi bellici, pur mostrandone gli orrori, ma presentandoli come ineliminabili, quasi fossero tratti di specie, oscurando il fatto che molti conflitti furono risolti attraverso mediazioni, dialoghi, scambio di pensieri e parole tra uomini, e anche donne.

Innamoramento per la guerra, dicevo, che tacita ogni conflitto sociale e politico.