mercoledì 8 novembre 2017

Contesto relazionale 4, donne e uomini nella lingua

Commenta Virginia Woolf, nel corso di una conversazione radiofonica alla BBC del 1937: 
“ [... ] le parole, se usate con accortezza, sembrano capaci di vivere per sempre. […] Una frase delle più semplici risveglia l'immaginazione, la memoria, l'occhio e l'orecchio.
[…]Questo potere di evocazione è una fra le più misteriose proprietà delle parole.[…] Le parole sono piene di echi, di ricordi, di associazioni.[…] Sono tanti secoli che vanno girando sulle labbra della gente, nelle case, nelle strade, nei campi. E una delle maggiori difficoltà dello scrivere, oggi, è proprio che le parole hanno accumulato tanti significati, tanti ricordi, hanno contratto tanti matrimoni famosi.[…] Sono le parole le più selvagge, le più libere, le più irresponsabili, le meno insegnabili di tutte le cose. Naturalmente si possono acchiappare, scegliere e mettere nei dizionari in ordine alfabetico.Ma le parole non vivono nei dizionari: vivono nella mente.[…]E come vivono nella mente? In modo strano e diversificato, proprio come vivono gli esseri umani, andando qua e là, innamorandosi, e accoppiandosi. E’ vero che sono meno legate alle convenzioni, ai cerimoniali di quanto non lo siamo noi. Parole regali si accoppiano con le borghesi. Parole inglesi sposano parolefrancesi, tedesche, indiane, di colore, se viene loro l'uzzolo”.


La lingua costituisce i binari su cui viaggia il nostro pensiero, rispecchia l’ordine culturale e sociale delle/dei parlanti,  vale a dire la concezione del mondo di una popolazione.
La funzione modellante della lingua fa sì che le rappresentazioni sociali in essa sedimentate si traducano, a livello del senso comune, in forme ritenute obiettive di conoscenza.


Le lingue storico-naturali sono i luoghi in cui si costituiscono le soggettività delle donne e degli uomini, perché sono, come abbiamo visto, i depositi collettivi di valori, di giudizi  di idee, di atteggiamenti e  modelli di comportamento, di aspettative e sentimenti sui quali ci formiamo a partire dal nostro ingresso nel mondo e ai quali dovrebbero conformarsi le donne e gli uomini reali, secondo i canoni delle relative educazioni di genere.
Le lingue sono anche i luoghi della codificazione dei ruoli sessuali nelle diverse culture e società, ruoli vissuti come naturali e quindi spesso ritenuti immutabili, proprio perché appresi dalla e nella lingua materna.

Allo stesso modo, gli stereotipi sedimentati nelle lingue in relazione anche ad altre componenti discriminatorie oltre al sesso quali l’appartenenza a certe etnie,  il colore della pelle, la pratica di determinate religioni, l'esercizio di determinati mestieri o professioni, l'orientamento sessuale agiscono nel profondo delle/dei parlanti, trasformati in vere e proprie rappresentazioni culturali e sociali, fatte proprie, a volte a livello inconsapevole, dai/dalle parlanti/pensanti.


Norme e raccomandazioni servono poco a modificare modi di pensare e conseguenti comportamenti collettivi e individuali, e richiedono tempi lunghi.

La lingua italiana nella sua struttura di senso e funzionamento presenta un alto grado di androcentrismo, perché prevede un solo soggetto di pensiero e di discorso, apparentemente privo di determinazioni materiali e sensibili, quindi astratto e asessuato, e in quanto tale universale, adatto cioè a rappresentare sia gli uomini che le donne, in realtà strutturato secondo modalità ascritte, nella nostra cultura, al maschile


La natura androcentrica della lingua si manifesta nell’ uso del maschile come neutro universale per rappresentare entrambi i sessi; il che rende invisibili le donne reali e concrete, occultando sia la loro presenza che la loro assenza dai processi della vita sociale, politica e culturale, del passato e del presente, come rilevò Alma Sabatini già negli anni 80.

L'asimmetria  linguistica tra maschile e femminile influenza  l’economia psichica delle/dei bambine /bambini nel processo di individuazione di sé e di costruzione della propria soggettività, e comporta una  autosvalutazione da parte delle bambine, a cui corrisponde peraltro un’ altrettanto negativa sopravvalutazione di sé da parte dei bambini.
Una prova piccola, ma significativa, del fatto che l’asimmetria linguistica provoca una profonda asimmetria di valore si ha quando si provi a utilizzare un femminile generico per rappresentare anche i maschi: è infatti accettato -come naturale- da una ragazza all’esame di stato un modulo scolastico che la definisce il candidato, ma non è accettato da nessuno studente un modulo che lo definisca la candidata, non solo risulta impensabile, perché inconsueto, ma anche offensivo.
Le bambine e le donne, quindi, nella propria vita dovranno spesso fare i conti non solo con gli eventuali vincoli sociali opposti alla propria piena realizzazione e autodeterminazione, ma anche e soprattutto con le proprie schiavitù interiori, indotte dalla fragilità dei sentimenti di autostima e di stima per le donne in generale, interiorizzata attraverso le rappresentazioni depositate nella lingua.

Questa svalorizzazione costituisce il primo gradino verso la strutturazione psichica della dipendenza dagli uomini.

Anche nelle lingue in cui appare superata la distinzione in generi grammaticali, ad esempio l’Inglese, si assiste a fenomeni di  automatica attribuzione di ruolo femminile ai termini nurse, secretary, prostitute, virgin, e  di ruolo maschile a surgeon, pilot, taxi driver.

Ripropongo, a titolo esemplificativo, alcune osservazioni tratte dagli studi di Alma Sabatini sulle principali dissimmetrie dell’Italiano. 
Per quanto riguarda il campo grammaticale le dissimmetrie relative ai lavori e alle professioni, che sono ancora prevalentemente declinate al maschile, anche se negli ultimi tempi hanno fatto registrare una notevole presenza femminile: mentre per i mestieri esiste la regolare distinzione cameriere/cameriera, parrucchiere/parrucchiera, contadino/contadina, maestro/maestra, suonano male e non vengono usati i termini: ingegnera, dottora, ministra, per indicare le donne che esercitano tali professioni, termini che sarebbero autorizzati dalla morfologia dell’Italiano.
Per quanto riguarda poi il campo semantico, accenno soltanto al diverso significato che assumono alcuni sostantivi e aggettivi se riferiti a uomini o a donne: serio/seria, buono/buona, segretario/segretaria, maestro/maestra, pubblico/pubblica, onesto/onesta.

Salta all’occhio, in questo caso, il richiamo costante all'ordine simbolico patriarcale che ha confinato le donne nell’ambito della natura, del corpo, della sessualità, della riproduzione biologica e sociale, del privato affettivo-familiare come ambito proprio e prioritario, escludendone contemporaneamente gli uomini, confinati a loro volta nella mascolinità.

Di qui, allora, la necessità, che credo ineliminabile nel tempo breve, del raddoppio cacofonico e apparentemente ridondante delle desinenze femminile e maschile di sostantivi e aggettivi, e del raddoppio degli articoli che precedono i sostantivi invariabili (le/gli studenti, le/gli insegnanti, le/gli presidenti...), per dare concreta visibilità ai due soggetti.
Altrettanto importante la scelta, ove possibile, di preferire termini che indichino i soggetti reali e sessuati, rispetto a quelli astratti e neutralizzanti: bambine e bambini, invece che infanzia, uomini e donne invece che umanità o persone.


Anche se non è possibile modificare nell’immediato, e con semplici atti volontaristici, le strutture e i meccanismi di funzionamento di un sistema così complesso come la lingua, l’adozione di dispositivi che segnalino le dissimmetrie tra maschile e femminile aiuta a contrastare il fenomeno dell’ inerzia linguistica e quindi mentale di donne e uomini e abitua le/i parlanti alla continua consapevolezza che i soggetti del discorso sono due. 
Sono convinta che quest’attenzione contribuisce concretamente a rimuovere le forme di discriminazione delle donne che risiedono prima di tutto nell’ordine del discorso comune..




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