giovedì 30 aprile 2015

Memorie di una femminista non pentita (XV)

Mi accorgo di avere saltato la puntata numero 15, che pubblico ora.
Il fatto che proceda di volta in volta mi comporta ripetizioni, ma si sa che 'repetita iuvant', anche se rallentano un po' a lettura.
Paolo e io avevamo fantasticato di avere tre o quattro figli, ma quando ti arriva il bambino in carne e ossa, non solo immaginato, non sei mai abbastanza preparata.
In mancanza di una rete parentale di appoggio, e di risorse economiche adeguate per procurarsi aiuti, i primi problemi che ti si presentano sono legati legati all'esigenza di conciliare lavoro di cura e lavoro fuori casa, da parte di entrambi. 
Da un certo punto di vista siamo stati genitori privilegiati per il nostro lavoro di insegnanti, una parte del quale potevamo svolgere a casa, ma nei primi anni Settanta le nostre cattedre erano fuori Milano, anche abbastanza distanti, alcune difficili da raggiungere con i mezzi, e gli orari di inizio lezioni imponevano di uscire di casa in ore antelucane.
Ci siamo organizzati differenziando tra noi le uscite e le entrate nelle scuole rispettive e alternando i giorni liberi.
Abbiamo anche potuto contare inizialmente su una rete solidale di compagne e compagni single, che a turno venivano a tenerci il bambino in certe mattine, e su studenti che si prestavano al babysitteraggio a costi contenuti.
Per qualche mese il lavoro e  la maternità assorbirono il mio tempo e i miei pensieri. 
Il Collettivo politico milanese si esaurì allora, le compagne si distribuirono nei numerosi gruppi che stavano nascendo.
Alla fine del 1972 inizi '73 fui invitata da  Maddalena Gasparini a partecipare a un nuovo Gruppo che si stava costituendo, Lotta Femminista milanese; questo collettivo ben presto  si differenziò dagli altri gruppi di Padova, Ferrara e Venezia per la pratica dell'autocoscienza, che affiancava agli interventi nei mercati, negli ospedali, nelle fabbriche, nelle scuole, e nei luoghi di lotta delle donne, si costituirono così due sottogruppi più piccoli di autocoscienza.
Come ho già ricordato questa scelta provocò screzi e critiche da parte delle compagne veneto-emiliane, che non vedevano di buon occhio questo sprofondare nell'analisi personale del vissuto, a discapito delle analisi e teorizzazioni economico-sociali.
Altrettante diffidenze e critiche ci erano rivolte da parte delle altre variegate componenti del femminismo milanese, che ci accusavano di restare impigliate in un'ottica economicista, di impostazione marxiana, e che soprattutto rifiutavano il discorso del salario al lavoro domestico, temendo che si risolvesse nella istituzionalizzazione del ruolo di casalinghe per le donne
Comunque la pratica dell'autocoscienza è stata fondamentale per tutte noi, e non solo nel momento in cui ha avuto luogo, perché ci ha fatto acquisire un metodo di indagine su noi stesse, sui rapporti con le altre donne, con gli uomini, sulle rappresentazioni del mondo interiorizzate, che ci è stato impossibile ignorare nella nostra vita successiva, anche se a momenti ne abbiamo sentito la "pesantezza", tanto che a volte ci siamo dette quando mai abbiamo incontrato il femminismo, che ci ha complicato la vita.
Ho notato nel corso del tempo le differenze di comportamento nelle relazioni con il mondo tra le "femministe" che non hanno mai praticato autocoscienza, rispetto a noi, che l'abbiamo praticata almeno per quattro o cinque anni,  parlo ovviamente delle mie coetanee. 
Chi non ha fatto i conti con le immagini di genere interiorizzate, malgrado le migliori intenzioni, incorre sovente nel rischio di esercitare più o meno consapevolmente comportamenti ascrivibili al modo "maschile", specie quando si trova a ricoprire posti di potere e responsabilità, grandi e piccole, nella cultura, nel sociale, nella politica.
In quegli anni insegnavo in un Istituto professionale fuori Milano, gestito con criteri autoritari dal Preside; insieme a un paio di colleghi e a una collega di inglese diedi vita a una sezione sindacale CGIL, l'unica struttura ala quale sia stata mai iscritta, peraltro per un periodo breve, il che comportava riunioni periodiche, pomeridiane e serali, per stilare documenti, organizzare momenti di lotta. 
Ricordo che in due o tre aderimmo al primo sciopero degli scrutini proclamato, noi eravamo tutt* a tempo indeterminato, mentre c'erano ancora supplenti annuali, e fummo tutt* sostituiti dal Preside, che lesse i voti dai nostri registri.
Parlo degli anni che preparavano la riforma scolastica che introdusse gli organi collegiali nella scuola, non appena fu introdotta la riforma alle riunioni sindacali si aggiunsero anche le riunioni dei Consigli di classe e del Consiglio di Istituto, del quale fui subito nominata segretaria, e per forza, ero insegnante di lettere tra una marea di ingegneri, avvocati, chimici.
Malgrado l'aggravio di lavoro, non compensato da aumenti di stipendio e i difetti di una burocratizzazione imposta dall'alto, quella riforma introdusse un  momento di democratizzazione in un'organizzazione scolastica fino ad allora imbalsamata e autoritaria. 
Io potevo comunque seguire le riunioni del mio gruppo di donne e anche quelle generali del sabato pomeriggio in via Cherubini, malgrado gli impegni contemporanei di lavoro e di sindacato, perché, dopo il periodo di allattamento,  potevo lasciare mio figlio a mio marito anche per ore. 
A volte, misurando oggi le energie impiegate allora tra lavoro, cura e lavoro politico, mi pare impossibile che ne avessi così tante.
Per ricordare il tipo di percezione che si aveva dell'autocoscienza all'esterno dei collettivi femministi negli anni Settanta, nonché le reazioni che questa pratica suscitava nelle  in donne non addette ai lavori, riporto l'esperienza di un gruppo di donne di quartiere della periferia milanese, Gruppo donne di via Albenga: 
"Noi abbiamo fin dalI’inizio rifiutato di chiamarci “collettivo”[...] perché succedeva che entrava una dalla porta e diceva 'E qui 
che si riuniscono le donne? Ma per carità, non farete mica autocoscienza? Non sarete mica uno di quei terribili collettivi femministi, perché se no non vengo, mio marito non mi lascia'. E noi dicevamo: 'No, siamo un gruppo di donne del quartiere". 
E cominciavano così le riunioni di autocoscienza anche loro.

venerdì 17 aprile 2015

Memorie di una femminista non pentita (XIV) Gli inizi, II puntata




Riprendo dal Convegno all'Umanitaria del giugno 1971 perché fu fondamentale, sia per la costruzione del movimento a Milano, sia per il cambiamento che provocò in me.

Dal momento che con le altre avevo tanto lavorato all'organizzazione dell'evento fui molto contenta del "successo" quanto a affluenza di donne, ma nello stesso tempo mi resi conto che stava entrando in crisi in crisi il mio modo di partecipare al movimento fino ad allora.

Certo si respirava l'entusiasmo all' idea di lavorare tutte insieme a un progetto, ancora molto nebuloso, ma di radicale modificazione della vita individuale e collettiva di donne e uomini, ma risultarono evidenti le diversità tra noi, forse fino ad allora mitigate dal calore ambientale delle riunioni casalinghe.

Vi parteciparono circa 70 donne, di Milano, Padova, Ferrara, Pisa, Trento, Firenze, Bologna e Torino.

Con l'eccezione di Torino e di Milano, quasi tutte le partecipanti delle altre città avrebbero costituito di lì a poco Lotta Femminista; le donne di Torino facevano parte del gruppo Collettivo Rivoluzionario, avevano cominciato a riunirsi separatamente dai compagni, il loro primo documento era stato stilato nel settembre del 1970, in seguito alcune di loro avrebbero dato vita al Gruppo femminista di Via Petrarca.

Anche se non era stato ancora teorizzato il separatismo, il Convegno era riservato alle sole donne.

Il tema fondamentale in discussione era il doppio lavoro, domestico e per il mercato, e le condizioni delle lavoratrici e delle casalinghe, le modalità di intervento ricalcavano, come ho già scritto, quelle tipiche delle assemblee dei movimenti: tavolo di presidenza, relazioni strutturate, interventi delle presenti.

L'invito provocatorio di Serena di Castaldi, del gruppo Anabasi, a scendere in giardino, abbandonando una situazione di convegno tradizionale, con relazioni e interventi successivi, per parlare di sé in modo informale, anche se poco seguito, introduceva già quella che sarebbe stata la divisione, deleteria, tra due dimensioni del femminismo milanese a lungo considerate inconciliabili, quella prevalentemente autocoscienziale, che si sarebbe in parte orientata all'analisi del profondo, e quello orientato anche all'intervento nel sociale, intervento interno e intervento esterno, si diceva allora.

L'errore fu, ma lo dico col senno di poi, la divaricazione tra due momenti che avrebbero dovuto procedere strettamente connessi, vale a dire da un lato l'analisi dell' interiorizzazione dell'ordine costituito attraverso l'esame delle immagini di genere, delle complicità di noi donne con il patriarcato, dei vantaggi e delle nicchie di potere che questo garantisce, dall'altro l'analisi dei processi economici e sociali messi in atto dal sistema capitalistico, una volta assunta e utilizzata la gerarchizzazione dei ruoli imposta dal patriarcato, in particolare l'artificiosa separazione tra produzione e riproduzione.

Diverse furono di conseguenza le pratiche politiche: puntare sulla trasformazione delle relazioni tra donne, per prima cosa, e quindi tra donne e uomini per cambiare lo stato delle cose nel primo caso; intervenire nelle situazioni di maggiore sfruttamento del lavoro e della vita delle donne con l'intenzione di alimentare conflitti e costruire alleanze, nell'altro.

I due filoni procedettero separatamente, producendo entrambi un consistente patrimonio teorico che negli anni '80 fu raccolto e organizzato negli Archivi, Centri, Librerie e Case delle donne.

Se la riflessione di chi privilegiava l'intervento esterno mancava dello sguardo dentro le soggettività, in merito agli schemi di relazioni, alle fantasie, alle paure, ai desideri, alle aspettative, indispensabile motore di un reale cambiamento di paradigma, il lavoro di riflessione, derivante dal movimento dell'autocoscienza e della pratica dell'inconscio, che in Italia sarebbe stato poi considerato il "vero femminismo", avrebbe prodotto mutamenti rilevanti nelle vite e nelle coscienze delle donne del movimento, ma sarebbe risultato alla lunga circoscritto appunto alle donne del movimento, o a questo contigue, con minore penetrazione nelle donne più esterne, anche per ragioni anagrafiche, una volta concluso il fermento sociale degli anni Settanta.

Comunque al Convegno del 1971 prese corpo l’idea di trovare una

sede comune ai vari collettivi, al di fuori delle case private.

Ho già scritto delle riunioni del Collettivo Milanese che si tenevano a casa mia dall'autunno del 1970 al giugno 1971, non si poteva parlare ancora di autocoscienza, quanto piuttosto di presa di coscienza della subalternità-materiale e culturale- agli uomini, che accomunava tutte le donne, indipendentemente dalla loro posizione sociale, anche se poi si tendeva a distinguere tra chi sembrava "privilegiata" comunque, la moglie di Agnelli, per disponibilità economica maggiore rispetto alle operaie, impiegate, contadine.

Le parole ricorrenti nella riflessione erano oppressione, in tutti gli aspetti collettivi e individuali, pubblici e privati e sorellanza.


Gli obiettivi erano di carattere prevalentemente economico, si analizzava la posizione delle donne sia all'interno delle società capitalistiche che di quelle socialiste.


Studiavamo documenti, statistiche sull'occupazione femminile, sulla segregazione orizzontale e verticale nei luoghi di lavoro, sul doppio lavoro a casa e fuori, sulla presenza o meno di servizi sociali, non solo in Italia ma anche in altre realtà europee e extraeuropee.


Il primo effetto degli scambi e delle visite reciproche fu senz'altro l'allontanamento degli uomini dal gruppo; in realtà erano solo due e più ascoltatori che interventisti, ma la loro presenza divenne subito imbarazzante.

Dopo il convegno niente per me fu come prima, il confronto con le elaborazioni e le pratiche degli altri gruppi mi fece avvertita del rischio di cadere in un atteggiamento paternalistico, in quanto "politica" nei confronti delle altre; la maternità, intrecciata con il lavoro, mi toglieva energie psicofisiche, dal momento che mio marito e io potevamo contare solo sulle nostre forze, senza aiuti parental, per questo concorso di cose rallentai l'impegno femminista e restai un po' alla finestra.

domenica 12 aprile 2015

Memorie di una femminista non pentita ((XIII). Gli inizi, I puntata

Questa volta inizio a scrivere del mio percorso femminista  in prospettiva cronologica, contrariamente a quanto ho fatto finora parlando di me. 
Ripeterò quindi qualche dettaglio di vita.
L'inizio coincide con l'incontro con un gruppo che alla fine degli anni Sessanta ha dato vita a due riviste di movimentoLa Classe e Potere Operaio, periodici operaisti, con impostazione teorica marxiana. 
Nel gruppo politico io con un'altra donna, Claudia Capurso, mi occupavo del collegamento con alcune fabbriche di riferimento per le nostre analisi e pratiche politiche, la Siemens e la Farmitalia; altri e altre tenevano i rapporti con altre realtà operaie di Milano, tra cui la Pirelli e l'Innocenti. 
Quando nel 1970 sono maturati alcuni discorsi relativi alle nostre vite di donne nelle relazioni politiche, sociali, familiari con i nostri uomini, prevalentemente compagni della sinistra extraparlamentare, le prime con le quali mi sono confrontata su tematiche femminili sono state proprio alcune operaie sindacaliste della Siemens e alcune casalinghe, mogli di operai della Pirelli, prima ancora che parlarne con donne del mio stato sociale e culturale.
Unica eccezione Antonella Nappi, la prima che diede vita con me al gruppo che chiamai Collettivo Politico milanese, che in alcune riunioni registrò la presenza di alcuni uomini.
Negli incontri tra donne, pur diverse per cultura, età, esperienza di vita e di lavoro, per prima cosa veniva fuori il problema del doppio lavoro, quello in fabbrica, per le operaie e le impiegate-  ricordo un vivace e combattivo  collettivo all’Eni-  caratterizzato dalla segregazione verticale e orizzontale, quello a casa, non considerato lavoro, ma funzione naturale, particolarmente impegnativa in termini di tempi e energie.
Molte lamentavano il fatto che i compiti familiari impedissero loro di partecipare alle riunioni politiche, quando poi non dovevano occuparsi di cucinare, magari improvvisamente, per gli amici e i compagni dei rispettivi mariti, che portavano persone a cena.
Io, Antonella,  Sisa Arrighi, e qualche altra che si era aggiunta nel frattempo, eravamo le "politiche" professioniste, ma la comunicazione circolava con facilità, anche perché pur nella differenza di situazioni, c'erano tratti di esperienza comune.
Ad esempio, nel nostro gruppo extraparlamentare, quando si dovevano redigere volantini da distribuire si decidevano collettivamente i punti fondamentali da comunicare e noi donne di regola dovevamo materialmente stenderli e ciclostilarli (ironicamente ci definimmo gli angeli del ciclostile). Se si inaugurava una sede, tutte ci trovavamo "con entusiasmo"a pulirla, renderla vivibile, con grande elogio per la nostra creatività da parte dei compagni, visto che date le magre risorse si trattava sempre di case vecchie e malmesse.
Nell'estate del 1970 ero rimasta incinta del mio primo figlio, e mi sentivo piena dell'energia e dell'entusiasmo che mi avrebbero accompagnato durante tutta la gravidanza, e nei primi mesi dopo la sua nascita. 
Nelle riunioni femministe ero una delle prime a essere madre, ricordo che portavo mio figlio e lo allattavo durante gli incontri. 
Contemporaneamente nel 1970 a Milano erano sorti altri gruppi di donne, Serena Castaldi aveva portato in Università documenti delle donne del Movimento USA, resoconti di Convegni e Seminari, che confluirono in un opuscolo intitolato Donna è bello, mutuato da nero è bello, del Movement USA.
Ricordo l'importante articolo di  Margareth Benston sull’economia politica del lavoro domestico.
Da Torino venne a prendere contatto con il mio gruppo una donna del Collettivo Cr, che traduceva, stampava e diffondeva  documenti del movimento afro-americano negli Stati Uniti, nei quali si assimilava la posizione delle donne nella società a quella dei neri in USA.
Nel settembre del 1970 uscimmo con un volantino intitolato Basta con il doppio lavoro, scritto da me insieme  a sindacaliste della della Siemens. 
Anni più tardi, in occasione della ricerca sui collettivi femministi di Milano e Lombardia negli anni Settanta del Centro di studi storici sul movimento di liberazione della donna in Italia, fondato alla fine del 1979 da Pierrette Coppa e Elvira Badaracco, le due ricercatrici del Centro,  su mia segnalazione, presero contatto con la sindacalista Cisl  della Siemens per chiederle della attività del Collettivo Politico Milanese ma era ancora fresco il trauma del 7 aprile 1979, con l'incarcerazione di chi aveva fatto parte del gruppo Potere Operaio, la Siemens era nell'occhio del ciclone perché Moretti, coinvolto nel rapimento e uccisione di Moro, era stato uno dei suoi tecnici, credo sia stata questa la ragione che ha indotto la sindacalista a negare di avermi mai conosciuto e di aver mai fatto parte del Collettivo.
Rimasi molto turbata, ma capii la sua paura, ricordo benissimo il nome della donna, ma non lo riporto per rispetto della sua volontà. 
Del Collettivo Politico Milanese faceva parte anche una giovane, allora diciottenne, Grazia Colombo, che frequentava  la scuola per assistenti sociali, molto interessata al tema dei servizi sociali, iscritta all'UDI, ma in posizione critica nei confronti di quell'organizzazione. 
Nello stesso anno avevo conosciuto Carla Lonzi che aveva fondato Rivolta Femminile, ricordo un paio di riunioni alle quali partecipai nella sua bella mansarda in via Brera, ma non colsi allora l'importanza del suo discorso. Eppure di lì a poco avrei letto e diffuso con molto interesse i primi libretti verdi: Sputiamo su Hegel, il Manifesto, Donna clitoridea e donna vaginale, e qualche altro.
C'era in quei primi anni un fervore di scambi, un piacere di incontrarsi e confrontarsi, con la sensazione che veramente si iniziava qualcosa di inedito tra donne.
Io non ebbi neanche il problema della doppia militanza perché proprio dal 1970, non appena mi occupai di temi di donne, smisi di appartenere al gruppo extraparlamentare di riferimento, anche perché nel frattempo si era avviato su un percorso politico che non condividevo più.
Nel 1971 arrivarono a Milano le compagne del Cerchio Spezzato, che avevano pubblicato il libro  La coscienza di sfruttata, ricordo in particolare che venivano a casa Elena Medi e Silvia Motta.
Proprio in seguito alle loro osservazioni il Collettivo eliminò la presenza di uomini, anche se pochi e sporadici, e diventò di sole donne.
Intervenne a qualche riunione anche Lea Melandri, che lavorava alla rivista L’Erba Voglio con Luisa Muraro. 
Portate da Antonella, parteciparono inizialmente alle riunione anche Daniela Pellegrini e un'altra donna del Demau, gruppo che si riuniva già da cinque o sei anni.
Uno degli incontri per me determinante fu la visita di Selma James a casa mia, con grande generosità parlo a lungo a me e alle altre del mio gruppo, Sisa Arrighi sbobinò e tradusse  la lunga registrazione che facemmo, Selma qualche tempo dopo mi scrisse anche alcune lettere.
Certo erano diversi i gradi di maturazione personale di tutte noi che ci incontravamo frequentemente; io mi ero avvicinata alla politica alla fine degli anni ’60 con una grande tensione libertaria, l’antiautoritarismo è stato il sentimento che mi ha formato, l’insofferenza verso ogni forma di autoritarismo sia patriarcale che capitalistico, un autoritarismo presente nelle realtà che si volevano già liberate o in via di liberazione. 
Questa è stata la forte discriminate rispetto a alle donne dell'UDI di allora, prima del 1982, e alle donne delle Commissioni femminili del Pci, e della DC, con le quali avevamo anche rapporti e scambio, ma ci divideva la loro convinzione che la soluzione di quella che allora era chiamata "la questione femminile" risiedesse nella emancipazione economico sociale e politica delle donne, da attuarsi mediante l'accesso al lavoro e la "promozione" delle donne alle cariche politiche e sociali, in altri termini alla parità. 
Di lì a poco la questione del separatismo sarebbe stata dirimente, non solo separatismo fisico nei gruppi, ma anche psicologico, contemporaneamente  molte di noi dovettero fare i conti con la presa di distanza, nelle riunioni intergruppi e nei seminari di studio, da modalità di intervento esperite nei gruppi politici frequentati precedentemente.
La questione divenne evidente nel convegno organizzato nel giugno del 1971 all'Umanitaria.
Ricordo che alcuni uomini tenevano i bambini nel bel cortile, mio marito teneva mio figlio di pochi mesi, un altro teneva Andrea, figlio di Sisa, di cinque anni.
Durante  l'Assemblea, particolarmente affollata, di fronte al susseguirsi di Relazioni (modo tradizionale di rapportarsi nei convegni), si alzò una donna, credo, ma non sono sicura Serena Castaldi, a denunciare il suo malessere di fronte a una modalità così tradizionale e ingessata di relazione tra donne, e disse che sarebbe uscita in giardino a parlare con chi volesse seguirla in un modo nuovo.
Poche la seguirono, ma fu una prima forte rottura.