sabato 19 novembre 2016

Femminismi degli anni Settanta, rotture e permanenze

In tempi di stucchevoli domande se il femminismo è vivo o morto, se è stato o no complice di un’accelerazione del neocapitalismo (secondo l’affermazione di una studiosa che ha avuto grande eco sui mezzi di comunicazione nostrani, Nancy Fraser)  proponendo un’emancipazione di donne che utilizzano a proprio vantaggio ogni possibilità offerta dal mercato e dalle tecnologie, occorre ricordare che cosa è stato il femminismo nato in Italia agli inizi degli anni Settanta.
I primi nuclei di donne che si trovarono a parlare di quella che allora  era chiamata la questione femminile affermarono da subito la loro distanza dalla prospettiva emancipazionista, condotta da anni da parte dell’associazionismo femminile, e dalle Commissioni dei partiti, in particolare Cif e Udi.
La differenza tra emancipazionismo e femminismo consiste nella volontà di quest’ultimo di scardinare un ordine culturale e sociale fondato sulla divisione patriarcale di ruoli e funzioni, invece che limitarsi a richiedere diritti per correggere gli aspetti strutturali di discriminazione e subordinazione delle donne rispetto agli uomini, mentre la prospettiva emancipazionista si propone di migliorare l’assetto del sistema rendendolo più giusto e equalitario.
Alcuni temi che ricorrono frequentemente nel dibattito attuale, specie tra donne giovani  rimandano a questioni ampiamente dibattute all’interno del  movimento delle donne degli anni Settanta, segno che molte questioni non sono state ancora risolte.
In termini di permanenza abbiamo il tema della maternità, declinato allora nella prospettiva di maternità cosciente perché In una situazione nella quale in Italia era proibita la contraccezione, se non quella ammessa dalla chiesa, definita metodo naturale, il ricorso all’aborto era una questione di classe, chi aveva soldi lo effettuava in sicurezza, le altre rischiavano patologie e la vita. 
La questione dell’aborto, sovente riassunta nei mezzi di comunicazione con la semplicistica espressione diritto di aborto, era inserita nella prospettiva della scelta autonome delle donne di avere o non avere figli, l’espressione diritto d’aborto era rifiutata da una parte consistente del movimento femminista allora come oggi, perché maschera la dimensione di violenza e sofferenza fisica e psichica che procura un aborto ad ogni donna che decida di farvi ricorso.
Oggi si è ancora in presenza di tentativi ripetuti di cancellare la legge e, nel caso non riescano, a renderla inapplicabile per mezzo dell’obiezione di coscienza, ma il tema della maternità è coniugato con quello della precarietà del lavoro.
Un’altra permanenza riguarda il tema della sessualità, la tanto sbandierata rivoluzione sessuale si è dimostrata nella realtà una modernizzazione dei costumi, che ha cancellato il ritardo storico di cui soffriva l’Italia in questo campo; non si sono risolti i problemi, anzi si sono complicati con il fiorire di istanze neoliberiste che inducono alcune donne a mettere a profitto lo scambio sessuo- economico, che fonda la relazione patriarcale tra donne e uomini, stravolgendo il significato dell’espressione l’utero è mio e lo gestisco io. Espressione che allora intendeva affermare la volontà delle donne di sottrarsi al controllo di uomini (mariti, padri, fratelli) medici e preti del loro corpo e delle loro funzioni sessuali e riproduttive.Un’altra permanenza riguarda il tema che allora si chiamava doppio lavoro (lavoro domestico di manutenzione di ambienti, persone, cose) e il lavoro fuori casa, e che oggi si chiama  cura.
Il tema fu subito presente alla riflessione femminista, ma venne trascurato dalla parte del femminismo più presente nei media e da molte femministe stesse.
Negli anni Settanta alcuni collettivi femministi, in particolare veneti, milanesi e emiliani, riuniti nel gruppo Lotta femminista, misero a punto analisi molto sofisticate della funzione delle donne nel privato e nel sociale,  funzione fondata sullo sfruttamento del ruolo femminile naturalizzato e base principale dell'accumulazione capitalistica. L'analisi del lavoro domestico, affettivo, relazionale, di sostegno psicologico, sessuale e sentimentale, erogato dalle donne in nome dell'amore, ebbe anche una buona diffusione in libri e documenti che circolarono anche in fabbriche e scuole, ma la pratica a cui diede luogo non raggiunse i risultati sperati. Ad esempio l'iniziativa dello sciopero del lavoro domestico non ebbe successo, non solo per il sentimento di abnegazione interiorizzato dalle donne, ma perché le prime a essere colpite da questa forma di lotta sarebbero state proprio le donne, che nelle case ci vivono, mangiano, ci cucinano, che riordinano, i luoghi nei quali vivono insieme alle altre e agli altri.  
La ricchezza e la complessità delle analisi fu semplificata e troppo presto liquidata nel movimento stesso, inoltre l’espressione salario al lavoro domestico, adottata dalla parte veneto-emiliana di Lotta Femminista, non quella milanese,  fu strumentalmente fraintesa non solo dagli oppositori e dalle oppositrici al femminismo, ma anche da molte donne del movimento;  fu considerata sinonimo di pensione alle casalinghe  e in quanto tale combattuta come strumento non solo inadeguato economicamente ma destinato a fissare e confermare il ruolo femminile all’interno della società.. 
Il femminismo italiano  che ebbe maggiore risonanza si dedicò all’indagine delle complicità delle donne con l'ordine del discorso dominante, alla ricerca delle immagini di genere interiorizzate, delle implicazioni, consce e inconsce con il sistema che si voleva combattere. 
L'errore fu la contrapposizione dei due momenti, che, ugualmente importanti, avrebbero dovuto procedere parallelamente, e non escludersi a vicenda. 
Ricademmo in questo modo nella contrapposizione dualistica che mettevamo in discussione in altri campi.
Il discorso del lavoro invisibile delle donne si diffuse in altre aree dell'Europa e degli USA.
Oggi penso che per l'Italia il discorso fosse troppo anticipatore, non a caso torna prepotentemente alla ribalta in questa temperie politica, sociale e culturale.  
Rispetto poi alle domande che cosa è cambiato negli ultimi trent’anni e cos’è oggi fare politica,
c’è da osservare che sono cambiate certe condizioni, ci sono più donne nei posti che contano, nel lavoro, nella politica, si fanno discorsi sulla femminilizzazione del lavoro, sul valore aggiunto dell’avere donne nelle organizzazioni, ma se questa massiccia presenza delle donne non esita in un reale cambiamento delle relazioni donne uomini, nella sostanza, non nella superficie, anche in questo caso si tratta di modernizzazione semplicemente.
Frequentando donne giovani oggi colpisce il fatto che molti aspetti di quelle discussioni, dibattiti, riflessioni sono ignorati, eppure i Centri e le Case delle donne, nati numerosi negli anni ’80 in molte città,  hanno fatto un egregio lavoro d'archivio, non solo per preservare, ma per rendere leggibili i documenti del primo femminismo. Donne dei Centri, delle Librerie e delle Biblioteche delle donne e documentaliste hanno lavorato per raccogliere e organizzare testi, volantini, ciclostilati dispersi nelle case, hanno inventato nuovi sistemi di classificazione e linguaggi di indicizzazione. C'è stato a Milano un Convegno internazionale sul tema, finanziato dalla CEE, e gli Atti sono stati pubblicati; è pubblicato Linguaggiodonna. Il primo Thesaurus di genere in Italiano, costruito sui documenti del Centro di studi storici di Milano. Sono stati pubblicati anche libri che ricostruiscono la storia, penso a Bologna, Milano, Torino, Genova, e altre città.
E' nata la Rete Lilith, che ha costruito una banca dati di tutto il patrimonio di idee e esperienze espresso dal femminsimo in Italia. Tutto lavoro ignorato completamente dai mezzi di diffusione di massa e trascurato da buona parte del femminismo, almeno quello di donne tese a accreditarsi presso le istituzioni che contano, a ricevere riconoscimenti pubblici. Oggi si vedono i risultati: ignoranza assoluta da parte di molte/molti, mistificazioni e tentativi di piegare il femminismo alle proprie idee.







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