La divisione sessuale del lavoro è la struttura portante delle relazioni tra uomini e donne su cui si fonda il patriarcato. Essa infatti determina lo scambio sessuo-economico che ha dato forma alla nostra civiltà. Nei secoli si è instaurato un ordine simbolico che costringe le donne e gli uomini a adeguarsi a modelli di genere percepiti come naturali, mentre sono costruiti sulla base di attitudini, abilità, funzioni e compiti attribuiti alle immagini di maschile e femminile a cui dovrebbero conformarsi le donne e gli uomini in carne e ossa.
Sono ammesse modernizzazioni, limitate commistioni e combinazioni anche ardite dei due modelli, purché non sia intaccato il principio regolatore per il quale l'area di pertinenza delle donne è la sfera del corpo, del sesso, della riproduzione in tutti i suoi aspetti biologici, affettivi, sociali, familiari, quella degli uomini l’area della vita pubblica, della politica della guerra.
I rapporti tra donne e uomini sono modulati da qualche millennio dentro questa realtà che definisce regole di comportamento, induce aspettative, valori, paure, desideri, metafore e costruzioni simboliche, immaginari che tutti e tutte conoscono, perché vengono educati/e a questi dalla nascita .Per questa struttura di potere è stato indispensabile mantenere la distinzione tra donne addette alla cura di persone e ambienti e ai compiti familiari, cioè le donne per bene, e altre destinate alla soddisfazione erotico-sessuale degli uomini, le donne per male.
Nella seconda metà del Novecento il patriarcato è stato smascherato dalla riflessione di donne in tutti i campi del sapere e del sociale: non si tratta di una struttura naturale e quindi immutabile ma di una costruzione storico sociale che ha gerarchizzato maschile e femminile.
Non sempre e non tutti e tutte vi si sono adeguati/e, la storia è piena di esempi in tal senso, ma chi non si adegua deve sempre pagare un prezzo di esclusione, emarginazione, stigma sociale.
Se oggi, dopo decenni di sottovalutazione irrisione e sarcasmi verso chi continua a portare avanti le analisi sul patriarcato, anche gli uomini sono costretti a prendere la parola in merito alla relazione donne uomini e costretti ad abbandonare la maschera dei difensori delle donne deboli e vittime, vuol dire che si è imbroccata la strada giusta. Nemmeno le donne a loro volta possono più nascondersi dietro la maschera di vittime.
La strada della denuncia pubblica riguarda quindi non solo la violenza manifesta degli uomini sulle donne, in tutti i suoi gradi e livelli, ma anche tutti i nodi del vivere nei quali sono attivi i termini dello scambio, sia nella vita collettiva di donne e uomini, sia in quelle individuali. Un lavoro di analisi enorme, anche perché investe aspetti insospettati e insospettabili di azione e accettazione/complicità più o meno consapevoli del contesto simbolico dato da parte di tutte e tutti, un’indagine in grado di destabilizzare soggettività e identità, individuali e collettive, strategie e tattiche difensive e aggressive secolari se non millenarie per la sopravvivenza sia di donne che di uomini.
Tutti i temi affrontati negli ultimi tempi relativi a prostituzione (regolamentazione/abolizione), Gravidanza per Altri, stupri e molestie sessuali, fino al femminicidio, pur nella grande differenza di livelli di violenza e orrore, sono riconducibili allo scambio sessuo-economico originario.
Questo vuol dire che non ci si può limitare all'analisi dei fenomeni isolandoli, cercando semplicemente di additare alla pubblica indignazione vittime e carnefici, astraendo dal contesto generale nel quale si è immerse e immersi, ma occorre allargare il discorso a tutti gli aspetti della questione in campo.
L'apertura del conflitto è a tutto campo.
Adoperarsi per alleviare sofferenze, aiutare le persone a superare difficoltà, badare a disabilità temporanee o permanenti, sopire conflitti, in una parola "far trovare buona la vita" (Sibilla Aleramo) dovrebbe essere lo scopo prioritario e reciproco di uomini e donne, l'ha cantato il poeta arrivato alla fine della propria breve vita.
In un sol colpo si eliminerebbero i mali, almeno quelli che affliggono l'umanità per colpa dell'uomo- inteso qui come pseudo-universale- : dalla subordinazione delle donne, allo sfruttamento del lavoro, dal consumo massiccio delle risorse del pianeta alle violenza alle quali sono sottoposti gli animali.
Il fatto è che il compito di consolare, riparare, mantenere, prendersi cura di persone, animali e cose dovrebbe essere assunto prioritariamente da tutta la componente umana, uomini e donne.
Invece è assegnato alle donne, ancora oggi, come aspetto intrinseco della loro femminilità, mentre l'uomo può scegliere di condividerlo o disinteressarsene, la sua maschilità non verrà messa in crisi, anzi è data per scontata, e quindi accettata e legittimata, una dose di barbarie intrinseca alla propria natura di maschio che aspetta di essere frenata e ingentilita dalle donne che lo circondano.
In compenso all'uomo, inteso come parte maschile dell'insieme umano, è assegnato come tratto identitario naturale l'occuparsi di quanto concerne le attività di carattere pubblico, economico, politico necessarie alla vita delle collettività.
La perfetta complementarietà è però gerarchizzata, nei fatti vige la priorità delle attività pubbliche e economiche rispetto alle attività volte a migliorare la qualità delle vite di tutte e tutti. In un sistema economico basato sul denaro le attività di carattere pubblico sono retribuite mentre quelle addette alla cura no (a meno che non entrino nel mercato del lavoro, dove comunque sono sottoretribuite).
La divisione sessuale del lavoro ha prodotto la storia che conosciamo, ha plasmato nei millenni soggettività di uomini e donne.
Le donne, deputate alla cura della vita e della sopravvivenza della specie, sono diventate proprietà degli uomini che le avrebbero ripagate con il mantenimento economico, con la protezione dai pericoli esterni all'ambito domestico, dai nemici, dalle aggressioni pubbliche e private: in cambio di questo hanno tentato in tutti i modi di limitarle nelle loro possibilità di movimento, nelle ambizioni di realizzazione al di fuori della sfera di pertinenza. Chi ce l’ha fatta, e ce ne sono state, ha dovuto compiere sforzi e sacrifici di parti di sé.
Oggi di fronte alle veloci trasformazioni sociali e all’emancipazione delle donne nel mondo occidentale, che ha comportato anche trasformazioni dei costumi, contestualmente ad un disastroso sviluppo produttivo distruttivo di ambiente e risorse, si sono moltiplicati appelli che sottolineano l'indispensabilità delle donne e delle loro capacità, competenze e attitudini a salvare il mondo, un’estensione delle abilità deputate appunto alla cura nella sfera domestica. Nell'economia, nel management delle aziende, nella politica, nel sociale la risorsa per ristabilire equilibri, raddrizzare situazioni pericolanti, ripristinare una perduta civiltà di rapporti tra persone e cose sta nel ricorso all'opera donne.
I giornali economici sono pieni di statistiche e ricerche volte a dimostrare che dare qualche responsabilità direttiva a donne migliora la qualità del lavoro e anche i profitti.
Il femminismo della seconda metà del Novecento ha svelato la trappola della compassione per le donne, vale a dire l'illusione che la loro potenzialità naturale sia in grado di civilizzare i barbari costumi maschili così nel pubblico come nel privato, illusione che ha alimentato il senso di onnipotenza affettiva e sessuale che è andato a compensare la reale irrilevanza sociale, e ultima cosa, ma non meno importante, ha messo impietosamente in luce la debolezza degli uomini, la loro inettitudine e incapacità di sostenere se stessi e la vita di chi dipende da loro, nel pubblico come nel privato.
Di fronte a questa realtà il femminismo ha messo in guardia le donne, e continua a farlo, dal cadere nella trappola assumendo su di sé il compito appunto di sostenere gli uomini e il loro operato, continuando a occultarne la debolezza reale. Occultamento d'altronde funzionale a mantenere la percezione di indispensabilità che dà senso a vite femminili, altrimenti prive di valore sociale.
Eppure come si fa a rifiutarsi di spendere forze, energie e intelligenze per migliorare la vita degli altri e la propria, pur sapendo che in tal modo si sostiene e si conferma il dettato patriarcale del quale si giovano gli uomini, che in tal modo evitano di prendere coscienza della propria inadeguatezza a rendere buona vita per tutte e tutti?
E se si continua nell'opera di prendersi cura di persone, animali, ambiente e cose, pur andando incontro a tutte le conseguenze generate dal sistema in cui viviamo e che sono state analizzate in modo approfondito dal femminismo, come si fa a rinunciare alle briciole compensative che vengono offerte?
Le ipotesi avanzate più volte di sostituire matria a patria, dea a dio, non tengono conto del fatto che la madre o la dea e i valori di cui sono portatrici queste figure nel nostro ordine patriarcale sono definiti in relazione al padre e alla paternità, la donna e i suoi valori sono definiti a in relazione all'uomo, e viceversa, in relazioni ora di complementarietà, ora di contrapposizione.
Sono figure simmetriche.
Occorre destrutturare tutte le figure patriarcali, non sostituire l'una all'altra, occorre uscire dai dualismi se non si vuole rischiare di fermarsi all'emancipazionismo, che non rovescia l'ordine patriarcale, ma lo rende meno ingiusto e lo migliora modernizzandolo.
L'unica via praticabile mi sembra quella di approfondire le consapevolezze maturate nel corso degli ultimi decenni, non solo da parte delle donne, ma anche degli uomini, perché tutti quanti ci si impegni prioritariamente a far trovare buona la vita.
Un contesto si cambia con il contributo di tutti i soggetti che lo abitano, se si è destinati a convivere, altrimenti non resta che emigrare su un altro pianeta.
Di fronte a questa realtà il femminismo ha messo in guardia le donne, e continua a farlo, dal cadere nella trappola assumendo su di sé il compito appunto di sostenere gli uomini e il loro operato, continuando a occultarne la debolezza reale. Occultamento d'altronde funzionale a mantenere la percezione di indispensabilità che dà senso a vite femminili, altrimenti prive di valore sociale.
Eppure come si fa a rifiutarsi di spendere forze, energie e intelligenze per migliorare la vita degli altri e la propria, pur sapendo che in tal modo si sostiene e si conferma il dettato patriarcale del quale si giovano gli uomini, che in tal modo evitano di prendere coscienza della propria inadeguatezza a rendere buona vita per tutte e tutti?
E se si continua nell'opera di prendersi cura di persone, animali, ambiente e cose, pur andando incontro a tutte le conseguenze generate dal sistema in cui viviamo e che sono state analizzate in modo approfondito dal femminismo, come si fa a rinunciare alle briciole compensative che vengono offerte?
Le ipotesi avanzate più volte di sostituire matria a patria, dea a dio, non tengono conto del fatto che la madre o la dea e i valori di cui sono portatrici queste figure nel nostro ordine patriarcale sono definiti in relazione al padre e alla paternità, la donna e i suoi valori sono definiti a in relazione all'uomo, e viceversa, in relazioni ora di complementarietà, ora di contrapposizione.
Sono figure simmetriche.
Occorre destrutturare tutte le figure patriarcali, non sostituire l'una all'altra, occorre uscire dai dualismi se non si vuole rischiare di fermarsi all'emancipazionismo, che non rovescia l'ordine patriarcale, ma lo rende meno ingiusto e lo migliora modernizzandolo.
L'unica via praticabile mi sembra quella di approfondire le consapevolezze maturate nel corso degli ultimi decenni, non solo da parte delle donne, ma anche degli uomini, perché tutti quanti ci si impegni prioritariamente a far trovare buona la vita.
Un contesto si cambia con il contributo di tutti i soggetti che lo abitano, se si è destinati a convivere, altrimenti non resta che emigrare su un altro pianeta.