Il flauto e il tappeto, pubblicato da Cristina Campo nel 1971* è, secondo la definizione dell'autrice, “un piccolo tentativo di dissidenza dal gioco delle forze, una professione di incredulità nell’onnipotenza del visibile”
Il semplice atto del vedere non dà vera conoscenza se non ci “si solleva [dalla pura vista] alla percezione”, il che significa: “riconoscere ciò che soltanto ha valore, ciò che soltanto esiste veramente. E che altro veramente esiste - si domanda - in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?”
Campo ricorre alla favola di Belinda e il Mostro per spiegare che quando Belinda passa dallo sguardo “con gli occhi della carne” alla percezione della bontà del mostro, si innamora di lui superando la ripugnanza iniziale provata nei suoi confronti e solo allora si compie la trasformazione del Mostro in principe, ora che a lui non è più necessaria alcuna magia per assicurarsi l’amore di Belinda.
L’evento della metamorfosi, ormai inutile e quindi totalmente gratuito, determina soltanto un sovrappiù di godimento per entrambi.
L’evento della metamorfosi, ormai inutile e quindi totalmente gratuito, determina soltanto un sovrappiù di godimento per entrambi.
Campo accomuna il mondo dei racconti di fate ai miti e alle religioni e ricerca in essi possibili risposte alle domande di senso intorno agli eventi fondamentali della nostra vita quali la nascita, la morte, l’amore, il desiderio di felicità.
Per lei questi tre generi di racconto condividono linguaggio e stile narrativo, sono regolati dalle stesse leggi costitutive del sogno e dell’esperienza mistica; scrive infatti che nelle fiabe: ”Come in un’antica danza di corte, bene e male vi si scambiano le maschere, e che la sorridente regina fosse una negromante, che nella stamberga del menestrello si celasse il magnanimo re Barba-di-Tordo non si appaleserà se non in quel sopramondo delle scadenze imponderabili a cui la fiaba conduce: là dove le figure rovesciate si ricomporranno nel tessuto splendente, nell’atlante perfetto dei significati. E tuttavia l’eroe di fiaba è chiamato sin dal principio a leggere in qualche modo quel sopramondo in filigrana, ad assecondarne le leggi recondite nelle sue scelte, nei suoi dinieghi. Gli si chiede nulla di meno che appartenere simultaneamente, sonnambolicamente a due mondi.”
Ho sempre amato molto le fiabe, e in particolare Belinda e il mostro, una favola che mia nonna mi raccontava quando ero piccola; Campo osserva anche che la dimensione delle fiabe è sovente, anche se non esclusivamente, legata ad una figura femminile, in particolare a una nonna, in proposito afferma: “e sempre la raccontatrice di fiabe – questi evangeli che così leggermente si dicono moralità – fu la nonna: la decana di casa, la donna di buon consiglio, dama che fosse o contadina”, così che ci accompagnerà nella nostra età adulta l’intreccio tra la dimensione della fiaba e quella dell’infanzia, in modo che: “[…] se si dia un evento essenziale per la nostra vita – incontro, illuminazione – lo riconosceremo prima di tutto alla luce d’infanzia e di fiaba che lo investe”.
Avere a che fare con la nascita, per ragioni biologiche, e con la 'cura’ di mondi animati e inanimati, umani e non umani, per ragioni storiche e culturali, è un'esperienza ancora largamente condivisa da molte di noi, e connota i nostri rapporti con il magico, il misterioso, il fiabesco, la religione e i miti.
Avere a che fare con la nascita, per ragioni biologiche, e con la 'cura’ di mondi animati e inanimati, umani e non umani, per ragioni storiche e culturali, è un'esperienza ancora largamente condivisa da molte di noi, e connota i nostri rapporti con il magico, il misterioso, il fiabesco, la religione e i miti.
*Cristina Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi Edizioni, 1987, testo dal quale ho tratto le citazioni
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