Nello sconforto attuale, provocato dagli orrori e dalle miserie alle quali abbiamo assistito durante lo sciagurato 2022, in molte/i//° ci siamo chieste/I/° che fare per contrastare la rabbia, la frustrazione, il senso di impotenza, la sensazione di essere progressivamente rinchiuse/i/° in una prigione mentale e psicologica dalla quale è difficile uscire, fino a invocare il "silenzio" come unica soluzione.
Dopo lo smarrimento, che ormai dura da un po', oltre alla adesione, firma di appelli e petizioni, non so di quale utilità, se non metterti a posto con la coscienza, ho pensato che, per salvarmi dall'umore nero, posso ritornare ai temi che più mi interessano e appassionano.
In questa disposizione d'animo ho ripensato a un testo di qualche anno fa, che mi ha colpito per la lucidità e la chiarezza e soprattutto la profondità di analisi di un tema che riguarda tutte noi donne, che viviamo in regimi politico-sociali differenti tra loro per livelli e gradi di violenza esercitata dagli uomini su di noi, tema che ci accomuna in situazioni apparentemente distanti tra loro quali la nostra e quella di tutte le donne e ragazze massacrate in Iran e uccise in Ucraina in questa guerra infame, uccise fino a pochi giorni fa in Brasile con la complicità di un governo di feroce maschilismo e razzismo.
Dal 2012, anno di pubblicazione del Saggio introduttivo alla ristampa del libro di Roberta Tatafiore Sesso al lavoro, molte analisi e riflessioni sono state pubblicate sul continuum dello scambio sessuo-economico fondamento della relazione patriarcale tra donne uomini, ma spesso sono stati presi in considerazione aspetti singoli del problema e le loro conseguenze sulla vita concreta di donne, senza ancorarlo anche agli sviluppi del liberismo e neoliberismo che hanno caratterizzato il secolo scorso e l'attuale.
Riporto l'Introduzione di Bia Sarasini come spunto di confronto e discussione su aspetti importanti del nostro tempo, quali i rapporti tra donne, il rapporto donne-sesso-denaro, il tema della prostituzione in relazione a prostitute e clienti, e oggi quello della Gravidanza per Altri o Utero in affitto, l'opera di ristrutturazione del mercato dei corpi delle donne e della funzione riproduttiva in relazione ai processi migratori contemporanei.
Scrive Bia:
Non so bene, in questi anni di occupazione dello spazio pubblico da parte del perverso intreccio denaro, sesso e potere[i], quando ho pensato che sarebbe stato utile riportare all’attenzione comune il libro anticipatore di Roberta Tatafiore dedicato alla prostituzione. Di sicuro non è stato nello scrutare il viso drammatico di Patrizia D’Addario, la donna a cui si deve l’introduzione nel lessico quotidiano di uno dei termini correnti nel nuovo mercato del sesso: escort, parola che designa una delle forme della «prostituzione al tempo del post-fordismo»[ii]. Neppure è stato alle prime avvisaglie del caso ”Ruby rubacuori”, nickname di sapore da bordello quasi letterario, appiccicato a Karima el Marhoug, ragazza migrante di seconda generazione di pericolosa bellezza, usato dai media con noncuranza, intrusione nella scena pubblica dell’intimità spersonalizzata e promiscua che si ha con la prostituta. So che nel crescente e condiviso furore femminile ho visto – anche – profilarsi i contorni di una storia antica quanto i movimenti di emancipazione delle donne: il desiderio, anzi la rivendicazione, di donne che non si prostituiscono e cercano la propria autonomia, di distinguersi da quelle che la prostituzione la praticano. L’interesse, ai miei occhi, è che sono state soprattutto ragazze cresciute negli anni Ottanta-Novanta – cioè l’epoca segnata in Italia dall’introduzione delle tv private e dal contemporaneo diffondersi ovunque nel mondo della cultura del consumo – a manifestare questi sentimenti. Come se la confusione generata dalla contaminazione tra spazio privato e spazio pubblico da parte di un uomo che ha compensato favori (anche) con carriere politiche[iii], abbia obbligato chi non usa il corpo per fare carriera e ricavarne vantaggi economici a distinzioni nette, quasi tagliate con l’accetta, in relazione a coetanee che così spudoratamente esibiscono scelte opposte. Movimento forse necessario, capisco, per salvaguardare e dare senso alla propria integrità interiore. Eppure estremamente confuso, ai miei occhi, proprio riguardo al sesso, la dignità, la libertà delle donne. Come se l’indiscutibile libertà sessuale, disponibile ora fin dall’adolescenza alle donne nella parte del mondo in cui ci troviamo a vivere, le abbia rese meno agguerrite, come se gli esiti imprevisti di una libertà cara a tutte costituissero una minaccia. Il che contiene qualche verità, se si considera che all’occidentale venir meno di proibizioni e inibizioni che delimitavano il corpo delle donne, corrisponde l’assenza di un contemporaneo discorso femminile del sesso. In un certo senso, l’enigma “cosa vuole una donna”, posto da Sigmund Freud a marcare il mistero della sessualità femminile, ora è più vero che mai. Non per mancanza di esperienza, non per miseria sessuale, piuttosto per un incrociarsi di comportamenti e desideri che sembrano andare in direzioni diverse[iv]. È un’ipotesi di lavoro, che non pretende di essere la verità assoluta. Nulla più del discorso del sesso segna il salto tra le generazioni femminili, anche nelle incomprensioni reciproche. Le audacie del femminismo d’antan, di cui oggi è di moda decretare il fallimento, sembrano dividere, più che unire. «È colpa vostra» mi ha detto qualche tempo fa una giovanissima amica occupata precaria nell’editoria, «ci avete fatto illudere che fosse possibile lavorare senza trovarsi di fronte a ricatti sessuali». E proprio qui, nel disagio che intravedo nell’emergente e diffusa rabbia femminile, si colloca l’urgenza di rileggere insieme le parole lucide di Sesso al lavoro.
Il reportage intellettuale di Roberta Tatafiore nei meandri del mercato del sesso non è oggi meno provocatorio di quando è uscito. Prima di tutto per la scelta di adottare il punto di vista delle sex worker, come chi opera nel mercato del sesso ha scelto di chiamarsi. Un pugno nello stomaco, nella piccola Italia che si godeva la liberazione dalle censure non meno di oggi, epoca di allarmi sociali che collocano la prostituzione nelle caselle speculari o di ordine pubblico-criminalità o di vittime della tratta, non certo di protagoniste della propria autodeterminazione. Per chiarire, ri-proporre in questo contesto una riflessione sul sesso commerciale non significa pensare che così si esaurisca ogni possibile discorso sulla sessualità, neppure si tratta di emettere impropri giudizi, le sentenze competono solo alla conclusione dei processi in corso. Neppure interessa argomentare se le ragazze dell’Olgettina[v] sono riprovevoli perché hanno usato il proprio corpo per ottenere denaro o altro, interessa invece che la diagnosi della crisi della prostituzione degli anni Novanta elaborata da Tatafiore offre strumenti per leggere l’alienazione di sessualità e sentimenti che ci invade. Sono saltate le zone di confine, non ci sono più barriere tra i diversi soggetti e pratiche sessuali, commerciali e no. Regole e ipocrisia che all’insegna della morale e delle convenienze sociali nettamente dividevano pubblico e privato, vizi e virtù, con tutti gli incroci possibili, non hanno più nessuna forza, né reale né simbolica. Per paradosso, uno dei grimaldelli è la libertà del sesso, il venir meno dello stigma nei confronti delle donne che lo praticano al di fuori del matrimonio. Il dilagare nello spazio pubblico dei divertimenti nelle case dell’ ex-premier, di cui tutti –complici o indignati – siamo stati spettatori, ne sono forse il sintomo più vistoso, non la causa.
In Sesso al lavoro, Roberta Tatafiore nel cuore degli anni Novanta con sguardo lungo e aperto mette in luce gli snodi significativi di una crisi che solo ora è visibile agli occhi. Da cronista della prostituzione, fornisce chiavi di lettura per comprendere che in crisi non è uno speciale settore ai margini della vita sociale, ora in crisi è la passione sessuale, il desiderio. Di cui il mercato dei corpi è insieme causa, sintomo, specchio, elemento di contagio e diffusione. Il tutto plasmato, alimentato, dilatato da immagini e comunicazioni che corrono via internet.
La prostituzione che va in crisi, nel racconto di Tatafiore, è quella che si era accomodata tra strada e appartamenti trovando sempre più autonomia, meno sfruttatori e più guadagni diretti delle donne. Globalizzazione, nuove figure sessuali, nuovi desideri e pratiche sessuali, non più riservate a élite sociali ma a disposizione di chiunque, sono già tutte lì, dispiegate in unico mercato in trasformazione. Una delle donne intervistate da Roberta, la berlinese Lisa, lo dice con chiarezza: «Un giorno ci sveglieremo e ci accorgeremo che le prostitute si trovano nella stessa situazione in cui oggi si trovano gli operai siderurgici». E Roberta: «Per analogia, come è finita l’epoca dell’operaio massa, l’epoca salariale» scrive citando André Gorz[vi], «così è finita l’epoca della prostituta di massa». Al contrario il punto più fragile, dei ragionamenti di Roberta, è quello che le sembrava acquisito per sempre: «Non c’è più la possibilità, per nessuna donna non prostituta, anche se lo volesse, di parlare e agire in nome e per conto delle prostitute» sostiene, forte sia dell’esperienza di direzione di Lucciola, la rivista del Comitato delle prostitute pubblicata negli anni Ottanta, sia dei rapporti con i movimenti internazionali dei diritti delle sex worker. Una fragilità, per non dire una sconfitta, di cui lei stessa era consapevole, come risulta da ricerche e scritti successivi, quando constatava che non c’è stata l’equità e libertà per tutte che lei immaginava, quello che le sembrava «un desiderio semplice e naturale, e per questo destinato a realizzarsi. Non è andata così, e oggi valuto con un certo pessimismo la possibilità di rilanciare, qui da noi, la prostituzione come un tema libertario, per tutti».[vii] È la soggettività politica, sono i diritti a essere entrati in difficoltà, in paesi che in cerca di sicurezza e ordine adottano misure sempre più restrittive, senza ascoltare le dirette interessate, che pure sono sempre più organizzate.
Allora, un libro pungente. Nella lingua della cronista, come Roberta si definisce, mutuata dal proprio oggetto di osservazione: «Il linguaggio della prostituzione coincide con il linguaggio del mercato. E il mercato, lo sappiamo, definisce merce, offerta, domanda, congiuntura: gli ingranaggi di un meccanismo che fa uso anche di corpi e anime, che omologa in una pretesa di parità rapporti umani disuguali e che nasconde sotto il termine di reciproca convenienza l’esercizio di sfruttamento». E nella messa a fuoco di conflitti attualissimi tra donne: tra non prostitute e prostitute, e soprattutto tra femministe – e femministe e prostitute – a proposito del destino della prostituzione, ovvero tra abolizionismo e legalizzazione, tra il salvare le donne dal mercato e la salvaguardia dei loro diritti. Insomma, una lettura non conformista, che dà una bella scrollata a convinzioni e pregiudizi, che obbliga a liberare lo sguardo, che offre oggi possibilità di nuove interpretazioni.
Nel dire che la responsabilità nel seguire alcune piste attuali a partire da Sesso al lavoro è tutta mia, voglio ricordare il piacere di essere stata testimone dell’elaborazione di questo libro, dire che nel tempo non si allevia la tristezza di un’amicizia violentemente interrotta.
Desiderio senza vincoli
Utilizzatore finale. Il surreale gergo legale usato nel 2009 dall’avvocato Niccolò Ghedini[viii] , che ha fatto irruzione nel linguaggio comune con un notevole effetto shock, illumina con speciale chiarezza la figura contradditoria del cliente. Colui (può essere anche colei, raramente) per il quale si organizza tutto, ma che sul mercato ci va per comprare, non è responsabile di ciò che avviene nel comparto “produzione”.
È il cliente la figura chiave della crisi, concludeva Tatafiore alla fine del viaggio nel mondo del sesso commerciale, uno dei pilastri della sua indagine. È il desiderio, la domanda dell’utilizzatore finale a comandare il mercato. «Il cliente vuole che le regole della prostituzione siano cambiate». Anche se «il cliente italiano» scrive, «non mi sembra avere le idee chiare…Si fa trascinare dagli eventi. Dà una mano alla repressione e con l’altra lavora per mantenere il mercato libero, così come è. E per fare questo gioca con la propria mobilità». Disordine nelle strade, indecisioni sulle scelte, tutte difficoltà che vengono da una domanda che non tollera limiti, regole, costrizioni. In realtà oggi il cliente non è più così invisibile. In Svezia la legge contro la violenza sulle donne entrata in vigore nel 1999, ha reso reato esattamente l’acquisto di sesso. Il testo che condanna «chi si procuri una relazione sessuale occasionale dietro compenso,…per acquisto di servizi sessuali» è stata inasprito nel 2005 per includere i clienti fissi e anche chi paga ma non ne usufruisce direttamente.[ix] In Italia molti sindaci, sollecitati dalle pulsioni d’ordine dei cittadini e dalle campagne di moralizzazione provenienti soprattutto da settori del mondo cattolico, si sono variamente esercitate in ordinanze volte a colpirlo. Per esempio con multe dissuasive che vengono recapitate ai proprietari delle auto le cui targhe sono state fotografate in strada, nelle zone di prostituzione. La stessa proposta di legge del Ministro delle Pari Opportunità Mara Carfagna, punisce il cliente, almeno su strada (vedi Nota di lettura). Pensare al cliente rende più precisa la grande domanda che non a caso chi studia la prostituzione trova ingenua e inutile: perché esiste la prostituzione? Più efficace chiedersi: cosa cerca, oggi, chi vuole comprare sesso? Perché aumenta la domanda di rapporti sessuali a pagamento, in un’epoca in cui le donne non sono più inaccessibili fortezze da espugnare? È la stessa domanda che in Piattaforma, il romanzo di Michel Houllebecq dedicato al turismo sessuale, Valerie – ideale donna-partner, alter ego dell’uomo consumatore di sesso, in altri termini, uomo femminilizzato, o donna mascolinizzata –– rivolge al protagonista:
«È questo che non riesco, a capire. Cosa hanno in più quelle ragazze? Fanno davvero l’amore meglio di noi?».
Un romanzo, sgradevole e acuto come sempre succede a questo scrittore, ha più possibilità di documentati trattati di sociologia di esplorare i movimenti dell’immaginario. Nella lunga risposta – in una storia che ruota intorno a un progetto di esplicita organizzazione del turismo sessuale su basi industriali naturalmente destinato a fallire – il protagonista dice tra l’altro:
«Se si pensa al livello delle conversazioni che bisogna subire per portare a letto una ragazza […] e che ti toccherà passare con lei il resto della notte…beh, credo che a quel punto non ci sia molto da stupirsi se tanti uomini preferiscono togliersi il pensiero sganciando una piccola somma. Appena hanno un minimo di età e di esperienza gli uomini preferiscono evitare l’amore; trovano molto più semplice andare a puttane […] E posso garantirti che sono tra i più fortunati: fare sesso con una puttana è comunque stabilire un minimo contatto umano».[x]
Interessanti sono le incongruenze degli argomenti: da un lato l’esigenza di praticare sesso senza scambiare nulla di personale, dall’altra l’invocazione di un’altrimenti impossibile intimità. Argomenti che si ritrovano nelle recenti ricerche sul campo che affiancano le inchieste pioneristiche di Gabriella Parca (I sultani, 1966) e Maria Rosa Cutrufelli (Il cliente, 1981): dai rapporti difficili con le donne alla ricerca di intimità, sono tra i motivi preferiti dei clienti, il tutto riassunto in un disarmante e ricorrente è più facile. Tutto chiaro, tutto semplice allora? A mio parere rimane uno scarto. Incuriosisce, per esempio, il coinvolgimento di uomini di potere in scandali sessuali che hanno a che fare con sesso a pagamento. «Perché avrebbe dovuto farlo?» è l’argomento preferito dei loro difensori. Già, si potrebbe ripetere, perché? Perché uomini dalle molte risorse dovrebbero pagare donne per godere del loro corpo? La risposta non è ovvia. Credo che questo ripetuto argomento difensivo punti esattamente al cuore del problema. E la risposta, in realtà è semplice, proprio come dicono i clienti del loro uso del sesso a pagamento. Si fa perché è possibile farlo. Per le asimmetrie –di denaro e di potere – che esistono tra donne e uomini. Perché nell’era del consumo globale i servizi sessuali sono merce come un’altra e come ogni altra merce sono svincolati – appaiono svincolati – da valutazioni, etica, relazioni. La sociologa statunitense Elisabeth Bernstein, nella sua interessante ricerca “Temporaneamente tua”, pone il problema all’inizio del suo lavoro:
«Generazioni di pensatori sociali hanno dato per scontato che il crescente accesso delle donne ad altri lavori retribuiti, insieme a un attenuarsi del doppio standard di genere, avrebbe eliminato le cause sociali della prostituzione, e di altre attività sessuali a pagamento».
Nonostante misure come politiche di zoning, forme di criminalizzazione sia dei clienti che degli sfruttatori, e all’opposto in alcuni casi la quasi legalizzazione dei bordelli, prosegue Bernstein,
«sia nei paesi in via di sviluppo che nelle città post-industriali dell’occidente (ossia aeree di economie locali fortemente fondate su turismo, servizi, e alta tecnologia) l’industria del sesso non si è “inaridita”, al contrario ha continuato a prosperare. Ancor di più: si è diversificata lungo dimensioni tecnologiche, spaziali e sociali. Le analisi femministe e quelle sociologiche della prostituzione ancora stentano a rendere conto adeguatamente della persistenza e articolazione dell’industria del sesso, nonché delle trasformazioni avvenute nell’ambito delle relazioni di intimità, in quelle di lavoro, e più in generale nelle pratiche di consumo nelle città postindustriali». [xi]
A ben vedere la posizione del cliente di sesso commerciale non sembra molto diversa da quella dei consumatori nell’attuale società dei legami liquidi, così come la descrive Zygmunt Bauman:
«La gratificazione durevole, una-volta-per-tutte, deve (corsivo mio) apparire ai consumatori una prospettiva tutt’altro che attraente, anzi una catastrofe […] Non è rimasto più niente da desiderare? Niente da sognare sperando che al risveglio il sogno sia diventato realtà? Si è condannati ad accettare una volta per tutte ciò che si ha (e dunque, per procura, ciò che si è)? […]. Una situazione di questo tipo – di breve durata si spera – si può chiamare solo con il suo nome: “noia”»[xii]
Sono forse questi i motivi di consumo compulsivo di sesso, che non sembra fare molta distinzione, soprattutto per gli uomini, tra incontri occasionali, transazioni mercantili e relazioni durevoli? È sufficiente come risposta appellarsi agli effetti della civiltà del consumo, all’erotizzazione delle comunicazione e delle immagini, all’ipersessualizzazione sempre insoddisfatta? E come non vedere la neanche tanto occulta discriminazione in questa valutazione, che di fatto accetta che il richiamo del sesso commerciale è incomprensibile solo per i ricchi, belli, potenti? Mentre per i poveri, i disgraziati, i brutti, che si devono in ogni caso accontentare dell’offerta-base, le ragioni ci sarebbero? Il denaro, del cliente, come misura di tutto.
Accenno qui a uno degli effetti della persistenza del cliente, che oltre a sostenere l’offerta e in generale il mercato del sesso, ha inedite conseguenze nelle relazioni tra uomini e donne. Questa persistenza genera un’enorme rabbia femminile. Non quella antica, delle donne perbene, che nel mondo diviso tra privato e pubblico come si era strutturato in epoca industriale, non potevano che subire la vita sessuale parallela degli uomini. Oggi la competizione è diretta, come nella domanda della Valerie di Houllebeck. Il conflitto è aperto.
Offerta irresistibile. Tra trafficking e sex-workers
Quando più di trent’anni fa sono andata ad abitare in un quartiere della periferia storica di Roma, tutte le sere lungo il viale c’erano gruppi di prostitute, anzi battone, come si diceva allora. D’inverno si radunavano intorno ai falò, mi sembrava il set di un film di Fellini. O Pasolini. Le incontravi facilmente nella zona franca del bar d’angolo appena prima che chiudesse, e loro prendessero posto sulla strada. Una forma di convivenza tranquilla che mi ha sempre colpito. Tutte italiane, di varia età, molto riconoscibili. Come nei film sulla strada si fermavano macchine, c’era confusione. Oggi, sullo stesso viale, appaiono e scompaiono senza regola apparente alcune bellissime ragazze con tutta probabilità minorenni, straniere. Allora nessuno si sognava di protestare, oggi il quartiere si mobilita con assemblee che invocano ordine e quiete pubblica. La crisi che Roberta Tatafiore anticipava, si è pienamente compiuta. Le battone di un tempo, le minorenni straniere di oggi, sono i due poli del cambiamento che è avvenuto. Ma cosa è successo? Le migrazioni, la tratta, la “schiave” sulla strada, di cui da più di un decennio sono piene le cronache, come hanno cambiato la prostituzione? È possibile parlare del trafficking di esseri umani a prescindere dal contesto migratorio? Giulia Garofalo, economista, ricercatrice e attivista è molto chiara:
«Per capire il “traffico” occorre pensare oltre il lavoro sessuale, e rivolgere l’attenzione ai processi migratori contemporanei; è infatti su questa base che i gruppi per i diritti delle-i sex workers stanno cercando, e progressivamente trovando, l’alleanza con gli attivisti e le attiviste per i diritti dei migranti [....]. Questi interventi ‘anti-traffico’ creano legittimità intorno alle crescenti misure di deportazione dei migranti (in particolare delle migranti): “è per il loro stesso bene che le rimpatriamo”, si adopera la retorica del traffico, “poiché loro stesse non volevano venire qui”. Il quadro in cui valutare queste responsabilità non può essere disgiunto dagli effetti che le politiche migratorie hanno nell’impedire alle migranti di lavorare in condizioni sicure e di organizzarsi per i loro diritti. […] le politiche sull’immigrazione producono non tanto, come dicono di fare, una semplice restrizione dell’accesso in Europa per migranti. In realtà ciò che provocano è una restrizione dell’accesso alla cittadinanza in Europa. Esse costituiscono cittadini di seconda classe, deportabili, e disponibili ad essere gravemente sfruttati in vari settori quali l’agricoltura, l’edilizia, la cura, la pulizia, e l’industria del sesso»[xiii],.
È stata la conferenza dei sex workers di Bruxelles del 2005, che ha ribaltato lo schema, ormai imperante, del conflitto tra donne “trafficate” e sex workers. Nella dichiarazione finale è scritto:
«La discussione sul traffico illecito mette in secondo piano la questione dei diritti dei migranti. Un approccio così semplicistico ad un problema tanto complesso consolida la discriminazione, la violenza e lo sfruttamento ai danni delle persone che migrano, dei/delle sex workers e dei/delle sex workers migranti in particolare. La violenza, la costrizione e lo sfruttamento connessi al fenomeno migratorio e al sex work debbono essere compresi ed affrontati all’interno di un quadro in cui vengano riconosciuti il valore e i diritti fondamentali delle persone che migrano. La legislazione restrittiva in tema di migrazione e le politiche contro la prostituzione devono essere riconosciute come elementi che contribuiscono alla violazione dei diritti dei migranti. […] L’impossibilità di migrare mette in pericolo la nostra integrità e la nostra salute. Chiediamo che i/le sex workers siano liberi/e di viaggiare, all’interno e tra i paesi, e di migrare senza discriminazioni basate sul loro lavoro. Chiediamo il diritto di asilo per i/le sex workers che sono sottoposti/e alla violenza di uno stato o di una comunità solo perché vendono servizi sessuali […] Chiediamo che il sex work sia riconosciuto come lavoro, e che ai/alle migranti venga data la possibilità di chiedere permessi di lavoro e di soggiorno, e che essi, sia con documenti che senza, abbiano titolo di accedere a tutti i diritti del lavoro».[xiv]
Intendiamoci, se leggi “Le ragazze di Benin City”[xv] non ti sembra che ci siano margini per concepire una possibilità di scelta. Il sistema di reclutamento basato sull’inganno e il vincolo del debito che coinvolge la famiglia, non può essere descritto altro che come schiavitù. Ma la stessa Isokè Aikpitanyi, che non concede nulla alla retorica della libertà nella prostituzione, è molto lontana, nel lavoro della onlus da lei fondata La ragazza di Benin city, da qualunque posizione conflittuale - moralistica per partito preso. Sul suo blog Urlo dalla strada, nel 2008, scrive, a proposito della proposta di legge Carfagna:
«Le vittime sono sempre più vittime, sfruttate in luoghi chiusi nei quali nessuno (operatori, volontari, forze dell'ordine, preti) può più raggiungerle per assicurar loro interventi di riduzione del danno o vie di uscite. Non è vero che, comunque, prostituirsi o esser sfruttate in luoghi chiusi sia meglio che esserlo in luoghi aperti: le violenze si consumano ovunque, ma dai luoghi chiusi nessuna può fuggire e le violenze più terribili, quelle che comprendono anche l'omicidio, nascono proprio dove non c'è via di fuga. […]Non è vero, infine, che il Decreto Carfagna abbia comunque evidenziato l'urgenza di affrontare il problema, poiché invece, ha innescato il vergognoso tentativo di dimostrare che si combattono le prostitute in strada per salvare le schiave: tratta e prostituzione sono due cose diverse, connesse per certi versi, ma diverse».[xvi]
In un quadro così complesso, la semplificazione impedisce di capire, per non dire peggio. Non che siano false le denunce sulla criminalità, le collusioni. Ma dicono poco e nulla sulle donne che si trovano in questa situazione. Perché è evidente che le richieste di tranquillità hanno più a che fare con l’ostilità verso i/le migranti che verso la prostituzione. E non è detto, come sostiene una ricercatrice come Laura Marìa Agustìn[xvii], che sia sinonimo di schiavitù, che le donne che migrano e si prostituiscono siano tutte trafficate, o che non abbiano incluso la prostituzione, un periodo di prostituzione, nel loro progetto di viaggio migratorio.
«La realtà è che nel discorso e nelle politiche sul ‘traffico’ la possibilità di scegliere di lavorare nell’industria del sesso - quando non è negata del tutto - è riconosciuta solo alle cittadine Europee, preferibilmente bianche e borghesi. Le donne che non sono in possesso di cittadinanza Europea sono automaticamente considerate ‘donne trafficate’ o ‘schiave’»[xviii]
Il rimpatrio non è quasi mai quello che le donne vogliono. Tra l’altro l’articolo 18 della legge italiana n.40 del 1998 , (la cosidetta Turco-Napolitano, articolo accolto nella successiva Bossi-Fini, legge n.189 del 2002) offre un permesso di soggiorno temporaneo a chi vuole uscire dalla tratta, denunciando i trafficanti, articolo che oggi entra in conflitto con la politica dei respingimenti. L’ultimo rapporto sul Traffico di persone (Tip) presentato dal Dipartimento di Stato Usa come ogni anno, il 27 giugno 2011,[xix] esprime «preoccupazione» per il fatto che il focus del governo italiano sui respingimenti veloci dei migranti clandestini, porta al fatto che donne trovate in strada a prostituirsi non siano identificate dalle autorità e che perciò vengano punite per atti illegali che sono un diretto risultato dell’essere trafficate.
È nella globalizzazione – nello spostamento di persone, lavoro, produzione, corpi che gli spostamenti del capitale generano – che si comprendono le nuove figure delle prostitute. Con una stratificazione di conflitti di razza, provenienza, classe, confitti post coloniali che emergono con chiarezza, se si assume questa ottica. Questo è il punto chiave della trasformazione. Non sono sparite le professioniste autonome, quelle che “scelgono” di prostituirsi, per le quali Tatafiore fornisce tutti gli strumenti di lettura. Escort, specializzazioni, fortuna del sado-maso, autonoma imprenditorialità. Sono tutte presenti e raccontate con precisione.
In questo quadro, va letto, per esempio, il libro di Tenera Valse, prof che in un linguaggio elegante, che fa parte del personaggio, racconta come e perché ha scelto il mercato del sesso[xx]. O le interessanti riflessioni sul denaro di Jo Weldon, sex-worker che parla delle ricerche che analizzano l’industria del sesso: «Spesso mi sento dire come noi spogliarelliste siamo terribili con il denaro. Negli anni sono arrivata a queste conclusioni. Ho cominciato la mia attività di spogliarellista meno di un anno dopo il college, ho fatto la spogliarellista per la maggior parte della mia vita adulta. Quasi tutti gli uomini che ho visto hanno successo nel loro lavoro e sono persone responsabili (per quanto posso vedere) eppure buttano via una grande quantità di denaro in qualcosa di non necessario. Dove avrei dovuto imparare a essere buona con il denaro?»[xxi]
È il mercato, bellezza
Non è facile definire le dimensioni del mercato del sesso. Perché è illegale, informale, sfuggente.
Secondo una pubblicazione del gruppo Abele del 2008[xxii], che elabora dati della Caritas, i/le migranti che esercitano la prostituzione in strada e al chiuso sarebbero tra le 29.000 e le 38.000 persone. La prostituzione al chiuso avrebbe un’incidenza maggiore al Nord (75-80%) piuttosto che al Sud (40-50%). Altri dati, che fanno riferimento al Ministero delle Pari Opportunità, parlano di una stima di circa 70.000 donne, migranti e non, che si prostituiscono con circa 9 milioni di clienti, con profitti di circa 90 milioni di euro al mese, oltre un miliardo di euro all’anno[xxiii]. C’è chi calcola che i profitti siano ancora maggiori, tra 2,2 e 5,6 miliardi all’anno[xxiv]
I dati vanno considerati con cautela. Per esempio, in quelli che abbiamo riportato ci sono evidenti discrepanze, dato che gli osservatori concordano nel dire che siano i/le migranti a prostituirsi in percentuale maggiore. Altro dato discusso riguarda i clienti. 9 milioni sembra una cifra sovrastimata, sembrerebbe più logico pensare a 9 milioni di “incontri”, non di singoli individui l’uno diverso dall’altro. E se esiste una “battaglia dei dati”, che ha al centro l’allarme sociale che ruota intorno al sesso commerciale, il mercato del sesso si conferma un buon affare.
Del tutto inafferrabili, per eccesso, sono poi le cifre che riguardano il sesso commercializzato attraverso internet. Blog, annunci, video, chat, tv, reti satellitari. Rete, cellulari, immagini. Ciascuno può farne esperienza. Se si digita sesso su Google, appaiono 46 milioni di risultati, per sex i milioni sono 492. Un punto di partenza per ricerche che portano alle piste più svariate, a seconda dei gusti e delle esigenze. Come già scrive Tatafiore, l’offerta oggi propone una varietà di servizi sessuali inconcepibile fin oltre la metà del secolo scorso. La diversificazione riguarda anche le persone., cioè ci sono più persone tra cui scegliere. L’aumento delle persone che offrono servizi sessuali, permette, come nei migliori dei centri commerciali, di variare di continuo la merce. Donne (trans, uomini) sempre nuove. Non c’è rischio di annoiarsi. Il consumatore è soddisfatto. Sempre di più.
Reale, realissimo, virtuale, il mercato dilaga nella vita quotidiana. Chi non ha sentito un’amica, una figlia, una nipote raccontare di una compagna di università che per pagarsi, almeno in parte, un master all’estero, o un viaggio, pratica sesso commerciale? E che dire delle ragazze – qui l’età nei racconti scende, si tratta di adolescenti – che per compiacere il loro ragazzo accettano di offrire servizi sessuali ai loro amici? Magari in cambio di un po’ di fumo? O altro?
Difficile riconoscere l’esistenza del mercato del sesso, si preferisce distogliere lo sguardo. Eppure cronaca su cronaca, scandalo su scandalo, è sempre più evidente che non si tratta di un’area a parte. Per i volumi di denaro che smuove, per gli intrecci tra i diversi, come dire, segmenti di un mercato che è unico, come il pensiero che ispira: l’escort per esempio può essere un benefit, aiuta a concludere affari, una pratica che si condivide tra uomini e facilita le relazioni. Ricordate Via col vento? Non ha più senso la scena in cui la proba e anziana moglie dell’altrettanto probo dottore chiede curiosa al marito, che ritorna a casa dopo essersi rifugiato con gli altri gentiluomini sudisti nel bordello – messo a disposizione dalla prostituta dal cuore d’oro Bella – per sfuggire ai nordisti che li cercavano: come è lì dentro? Una domanda che nessuna donna – perbene e permale che sia – oggi ha necessità di porre. Il bordello non è altrove, è qui.
Senza confini
«Mentre le donne bianche, borghesi e sposate svolgono il lavoro di cura e incarnano l’ideologia della moderazione sessuale relegata nel privato, le donne lavoratrici e quelle di colore entrano a far parte, insieme agli uomini, della sfera pubblica, in quanto lavoratrici o prostitute sessualmente disponibili»[xxv] .
Elisabeth Bernstein così ricostruisce la “frattura” nel continuum dello scambio sessuo-economico – come l’ antropologa Paola Tabet[xxvi] definisce le relazioni sessuali tra donne e uomini che implicano un compenso – avvenuta con il consolidarsi del capitalismo industriale.
«Nonostante spesso ci si riferisca alla prostituzione come al mestiere più antico del mondo ciò che in genere si considera prostituzione non esiste da molto tempo. La nascita del mercato della prostituzione su larga scala in Occidente è un fenomeno recente, formatosi dagli smottamenti del capitalismo moderno a metà del diciannovesimo secolo»
sottolinea Bernstein. È con la divisione tra sfera pubblica e sfera privata, e il relegamento delle donne al privato, che le “donne pubbliche” diventano oggetto di controllo e stigma sociale. Tuttora l’espressione “donna pubblica” ha un significato incerto, tanto più se lo si confronta con il cristallino “uomo pubblico”, inequivocabile nell’indicare il civil servant, l’uomo che si dedica alle imprese pubbliche, al servizio della comunità e dello Stato. Eppure si comprende – è la storia dell’emancipazione-liberazione delle donne – come l’uscita dal soffocante privato sia stata incredibilmente attraente, tanto da spingere molte a sfidare lo stigma della puttana[xxvii]. Ma è proprio il continuum messo a fuoco da Tabet, che vorrei considerare con attenzione. Concubinato, amante mantenuta, matrimonio, vari tipi di servizi sessuali occasionali a pagamento, prostituzione vera e propria, è questo il continuum dello scambio sessuo-economico indicato da Paola Tabet, a partire dalle ricerche in Africa, e allargando via via lo sguardo comparativo ai più disparati contesti, comprese le società occidentali, nel passato e nel presente. Si tratta di una categoria interpretativa indigesta, eppure di grande chiarezza. Prima di tutto perché rende evidente l’asimmetria di risorse, di ricchezza, di potere tra donne e uomini. Si potrebbe pensare che riguardi mondi diversi, lontani, esotici. Invece è quello che abbiamo sotto gli occhi, non c’è soluzione di continuità, tutto lo spazio sociale e simbolico è permeato dalla presenza del sesso commerciale. Pubblicità, moda, cinema, tv relazioni. Non si tratta (non solo) di uso improprio del corpo delle donne, ma di espliciti riferimenti al mercato, al pagamento. A cominciare dalla moda. Il primo a vestire – a caro prezzo – le donne da mignotte fu Yves Saint-Laurent, nella collezione del 1971 che tra zeppe e gonne strizzate riportò in auge lo stile delle “signorine” dell’immediato dopoguerra, appena prima degli anni del femminismo di massa e di strada. Oggi non c’è molta differenza apparente tra le minorenni su strada e le più irreprensibili studenti. La moda propone a tutte quella femminilità che ormai solo le trans sembravano in grado di rappresentare, un addobbo femminile all’insegna dell’eccesso, fino al fatale tacco dodici. Mentre il moltiplicarsi di interviste, storie, inchieste porta alla luce, accanto alla tratta, all’abuso e alla schiavitù, la fitta rete degli scambi sessuo-economici che permeano la vita quotidiana. Non più sanzionati dalla morale, non sempre nel segno della pura necessità.
Lo spazio pubblico si rivela abitato da sentimenti inediti, si genera una confusione che disturba, inquieta. Un allarme, una minaccia, per le donne che si sono conquistate lo spazio pubblico con il loro lavoro, sottraendosi, schivando, per quanto possibile, le forme prestabilite dello scambio sessuo-economico con gli uomini. Insomma, la mia tesi è che il venire meno della separazione pubblico-privato, l’essere le donne – tutte le donne, non più solo le prostitute e le lavoratrici proletarie – nello spazio pubblico, abbia riportato alla luce il continuum degli scambi sessuo-economici che l’industrializzazione aveva nascosto. Una realtà che gli uomini sembrano avere una speciale difficoltà a comprendere. Troppo abituati alla comoda, per loro, divisione tra pubblico e privato, troppo accecati dal potere –a livello simbolico condiviso da tutti gli uomini – di stabilire ciò che è pubblico e ciò che non lo è, per rendersi conto di cosa comporta la modernizzazione, il contemporaneo condividere con le donne – tutte le donne – lo stesso unico spazio. Non più rinchiuse in un mondo a parte, le donne –alcune donne – parlano.
È una delle conseguenze ultime della crisi del sesso commerciale descritta da Tatafiore. È il risvolto segreto – o meglio, invisibile perché fin troppo visibile – della insostenibile scena contemporanea del sesso. Due film, Pretty Baby(1990) e Una proposta indecente(1993), hanno segnato il passaggio, mentre hanno contribuito a elaborarne l’ideologia e l’immaginario. Al centro delle due storie c’è il denaro, insieme alla possibilità di vendere sesso per ottenerlo. In entrambi i film non è questione di morale. Una donna perbene (Demi Moore, in Una proposta indecente) accetta occasionalmente di fare sesso per denaro, (come infinite storie vere testimoniano), in questo caso la motivazione è un progetto di impresa da realizzare, e un prezzo irresistibile. Una specie di contorto romanticismo induce il milionario corruttore –il cliente –, che per sé vuole solo la massima intensità, ad allontanare la giovane convincendola che lei in realtà non è l’unica che ai suoi occhi ha quel mirabolante valore commerciale. In Pretty Woman, Julia Roberts, una prostituta di strada che batte a Los Angeles su Rodeo Drive, diventa maestra di vita e di amore di un finanziere dedito a distruggere sane vecchie imprese manifatturiere. Lei sa la fatica del mettersi al lavoro, conosce il valore del denaro che viene dallo scambio diretto, non dalla proliferazione finanziaria. Al di là dei dettagli, da entrambi i film promana un’esaltazione del denaro, il puro equivalente universale. I film sono seducenti e attraenti, nonostante dicano che nel neocapitalismo la prostituzione è un commercio come un altro, in tutti gli aspetti del continuum dello scambio sessuo-economico. Compreso il matrimonio. L’effetto è sconvolgente, quando se ne diventa consapevoli. La reazione immediata è sottrarsi, reagire, dire – questo non ha nulla a che fare con me. Voglio confini e barriere. Io sono un’altra, non sono quella che vende sesso. Oppure assumerne tutte le conseguenze, senza tanto riflettere, per esempio buttarsi senza remore nella raunch culture, una forma di cultura popolare femminile, si potrebbe definire, che punta a una pratica del sesso rude, libera e senza amore come quella degli uomini. Aryel Levy [xxviii] , giornalista del New Yorker, come altre femministe è particolarmente severa. Nella rivendicazione da parte di molte donne di una sessualità senza fronzoli, nell’adozione di figure come lap dancers, strippers, prostitute vede una forma di oggettivazione che le intrappola, ne nega la libertà. Sylvia Walby nel recente The Future of Feminism si chiede:
«La domanda è se queste pratiche culturali e sessuali sono un’estensione di forme di femminismo, o sono una pura variante di una cultura sessista» [xxix]
Io aggiungo che la raunch culture –una pratica del sesso piuttosto aggressiva e diretta, compreso il sesso senza amore – a me appare un comportamento manovrato sì dal sistema e dai media ma fondato in quella rabbia – cieca, si potrebbe dire? – che anima oggi le donne. Un’interpretazione del gender system da parte di alcune donne, si potrebbe dire. Che paradossalmente, ma non tanto, ne rende furiose altre.
Conflitti
Allora. Se il sesso, o come sarebbe meglio dire, la sessualità, è terreno di conflitto, spesso opaco –un campo dove sono in gioco sessi, generi, identità – nel mercato del sesso gli scontri sono plateali. Tra donne, uomini, trans, tra tutti i soggetti – i corpi – che si prostituiscono e che non si prostituiscono, e tra tutti verso lo stato, la norma sociale, e viceversa. Roberta Tatafiore nell’ultimo capitolo è molto chiara: tra prostitute – siano donne, uomini, trans – e lo stato, il conflitto è permanente. Le nuove leggi repressive approvate e progettate nel mondo occidentale, sono le tappe di una battaglia che continua e che oggi, come si è già detto, include le/i migranti e le leggi sulla migrazione. Del capitolo speciale e difficile che è il conflitto tra donne, tra chi si prostituisce e non, tra femministe e prostitute, Tatafiore ricostruisce mirabilmente le vicende. Oggi il punto è sempre lo stesso. Le prostitute sono vittime o libere? E se sono libere, sono complici del dominio maschile, se prostituzione (e pornografia) – come molte autorevolmente sostengono – sono l’espressione della vocazione dominatoria della sessualità maschile, insomma prostituzione uguale stupro? Abolizionismo o riduzione del danno? Non c’è qui lo spazio per entrare nel merito della contemporanea discussione internazionale, aggiornata al contesto globale e migrante.
Quello che incuriosisce è che in Italia, il conflitto, che pure esiste, è reticente. Sono per lo più associazioni, di cui molte cattoliche, a essere insorte contro il progetto di legge del 2008 presentato dall’allora ministra Mara Carfagna, legge che reintroduce il reato di prostituzione, insieme a quello del cliente, solo su strada (vedi Nota di lettura). Il sentore di posizioni anche molto distanti si è avuta nella discussione che si è accesa intorno alla grande manifestazione del 13 febbraio, indetta dal comitato Se non ora quando per dare voce alla rabbia e all’indignazione delle donne di fronte al dilagare delle commistioni improprie in Italia tra sesso, potere, denaro. All’inizio è parso che l’invito a manifestare fosse esplicitamente rivolto alle “altre donne”, quelle che non prostituiscono il loro corpo. L’intervento critico di alcune rispetto alla riproposizione dell’antica divisione tra donne perbene e donne permale, la rievocazione da parte di molte dello slogan femminista né puttane né madonne finalmente solo donne, soprattutto la partecipazione alla manifestazione del Comitato per i diritti civili delle prostitute, hanno in parte sciolto quella che era apparsa una contrapposizione netta. Eppure a mio parere la questione rimane, seppure sottotraccia[xxx]. Le ragazze dell’Olgettina, ormai elevate a categoria sociologica se non dello spirito, dividono. E fanno confusione. Indicano la permeabilità, la porosità sociale e simbolica, la presenza nella realtà dell’unico mercato e del continuum dispiegato davanti ai nostri occhi. Palesemente non vittime, non necessariamente professioniste, sollecitano l’avversione di molti, uomini e donne. Che le definiscono, sbrigativamente, gli uni e le altre, più o meno ad alta voce, puttane (nel senso più ampio dello stigma, come definito da Gail Pheterson, (vedi supra). Creano problemi alle femministe, alle donne che si indignano. Alimentano la rabbia.
Il sesso è un lavoro. E l’etica?
Imbrogliate. Così capita di sentirsi alle donne che non si prostituiscono – che non scambiano sesso con favori – di fronte alle prostitute – a donne che scambiano sesso con favori. Nei tempi attuali, che non garantiscono alle virtuose – se così vogliamo chiamarle – vantaggi speciali, per esempio un buon matrimonio. Tralascio perbenismi e moralismi, abiti mentali fin troppo semplici da decifrare. È la ruvida realtà dello scambio sessuo-economico a inquietare. La prostituzione, le diverse forme della prostituzione diffusa– chi ne rivendica la scelta, non chi è in regime di costrizione, ovviamente – obbligano a esserne consapevoli. Io non sono così, dice l’indignazione, la rabbia femminile. Non così come? Non mi vendo? Ho un lavoro in cui non metto in gioco il corpo? Non ho scambi con uomini? E d’altra parte chi sono le donne che si mantengono da sole, che pure amano e desiderano gli uomini? Quale mondo costruiscono? Con chi? Nella fastidiosa percezione di un imbroglio c’è forse il dubbio di avere scelto la strada sbagliata, nel continuum dello scambio sessuo-economico. Di avere creduto in una forza, in una potenza che non tiene, che non fa mondo. E ancora più in profondità, credo, c’è la volontà di non sapere che esiste, questo scambio, una profondità in cui si vorrebbe far finta che non ci sia. E tornare a credere nel sogno d’amore, nel principe azzurro. Capita perfino a Carrie, la single in carriera di Sex and the city, un’eroina della raunch culture.
Negli anni Settanta, in un breve volgere di anni, le ragazze, le donne che si misero in gioco nel femminismo, misero in gioco tutta la loro vita. Non nel senso eroico maschile di scegliere un campo di battaglia e lì immolarsi, ma di far investire l’intera vita quotidiana da quella radicale presa di coscienza. Furono messe sottosopra relazioni, amori, famiglia, carriere. Anche dolorosamente. Alina Marrazzi, nel film Vogliamo anche le rose, ha saputo ricostruirlo con delicata attenzione, utilizzando tra l’altro anche il diario di Roberta Tatafiore, depositato all’archivio di Pieve Santo Stefano. Lo scontro, nella vita, era intorno proprio al nodo dello scambio sesso-denaro-affetto, della dislocazione delle proprie vite, nel desiderio profondo di assumerne la guida. Non essere seconde. Neanche, e soprattutto, nel sesso. È importante ricordarlo, perché negli anni successivi quella tensione ha cambiato forma, almeno per quanto riguarda la sessualità. È stata confusa con una pratica indiscriminata del sesso.
In altri termini, riconoscere che il sesso è un lavoro, che – oggi come in passato – entrare nel mercato del sesso per molte donne è una (l’unica) possibilità economica, è tradire quella presa di coscienza, quella rivolta delle vite, e quindi cedere al potere del patriarcato, di cui lo scambio sessuo-economico è la struttura portante? O piuttosto, la trasformazione messa in campo dalla liberazione della soggettività femminile riguarda anche le prostitute, come ciascuna donna? Non si può individuare una comune strategia di identità e azione politica, come suggerisce Gayatri Spivak[xxxi], per chi è subalterno, insomma per chi è dal lato sbilenco dell’asimmetria?
Roberta Tatafiore entra nel mondo della prostituzione con il punto di vista di una liberale pura. I diritti individuali sono la sua guida per aggirarsi nei meandri del sesso commerciale. Per quanto mi riguarda penso che le disparità di potere abbiano un peso sia reale che simbolico che l’ottica dell’individualità non permette di cogliere in tutta l’ampiezza delle dinamiche sociali. La passione per la libertà individuale non mi convince, non del tutto. Rifletto sull’inizio provocatorio e brillante del celebre saggio di Martha Nussbaum:
«Tutti noi, con l’eccezione delle persone ricche e dei disoccupati, prendiamo denaro per l’uso del nostro corpo. Professori, lavoratori nelle aziende, giudici, cantanti di opera, prostitute, dottori, legislatori. Tutti facciamo delle cose con parti del nostro corpo, per le quali riceviamo un salario in ritorno. Alcune persone hanno un salario alto altre no; alcune hanno un buon livello di controllo sulle proprie condizioni di lavoro e altre persone hanno pochissimo controllo, alcune molte possibilità di impiego in settori diversi, altre no, e alcune sostengono un forte stigma sociale e altre no»[xxxii]
Ascolto le voci delle sex worker, la loro vita. E mio malgrado, arrivo a concludere, che sì, sono lavoratrici del sesso. Come colf, badanti, e anche casalinghe, mettono al lavoro – in certi contesti e condizioni sono obbligate a mettere al lavoro – la vita. Il loro è un biolavoro, che come altri prevede competenze, saperi specifici. Un segmento del mercato. Che oggi dell’eccedenza femminile – quel valore d’uso che ne rimaneva fuori – vuole monetizzare tutto. Senza restituire soggettività e autonomia, solo finta parità.
Ma se il sesso può essere un lavoro, che ne è dell’etica? L’etica è un approdo importante, nell’esperienza femminile, considerando che lo statuto di “minore”, ha accompagnato a lungo le donne. Irresponsabili per definizione, soggette a tutela, incapaci di etica. Per procedere credo sia necessario decostruire la metafora della prostituzione. Definire chiunque venda la propria integrità in cambio di denaro come prostituta alimenta l’idea degradata del sesso femminile che sostiene lo stigma sociale della prostituta. È una metafora misogina, sessista, espressione del potere degli uomini, costruita sulla proprietà maschile dell’integrità del corpo femminile. È certamente “non etico” vendere sesso per imbrogliare, per ricattare, ottenere favori, carriere a scapito di altre/i meritevoli. Ma non tutti gli scambi denaro-sesso sono atti immorali. O è proprio il sesso a pagamento, che non è etico? Un male intrinseco? Marta Nussbaum, discutendo di uno degli argomenti a favore della criminalizzazione della prostituzione: «La prostituzione comporta l’invasione dell’intimità del proprio corpo», sostiene con forza:
«L’argomento non sembra supportare una critica morale della prostituzione, a meno che non si preveda una critica morale di tutti i contatti sessuali che non implicano amore o matrimonio»[xxxiii]
E poi, perché è inconcepibile che una donna possa fare scelte eticamente riprovevoli? Non è questa la sfida della libertà? Della responsabilità etica? E perché dovrebbe chiamare in causa tutte le donne? Non si vede che in questo modo si dà forza allo stigma? Non è possibile, credo, mettere barriere. Non più. Il cammino della trasformazione passa attraverso zone oscure, in certi punti si teme di avere smarrito la luce.
«Le prostitute parlanti di questa fine secolo» scrive Roberta Tatafiore quasi alla fine del suo reportage, sono ambivalenti:
«Hanno la faccia dell’illibertà perché sono incastrate, lucidamente incastrate, nel perimetro tracciato dall’immaginario, dal simbolico maschile, e hanno la faccia dell’amore della libertà perché sono coraggiose, autonome, oppositive rispetto all’ordine simbolico dato».
Non si potrebbe dirlo meglio.
dicembre 2011
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[i] Sesso, denaro, potere, documento di Maria Luisa Boccia, Ida Dominijanni, Tamar Pitch, Bianca Pomeranzi, Grazia Zuffa, ottobre 2010, disponibile in: www.casainternazionaledelledonne.org/pdf/Sesso_epolitica.pdf
[ii] Ida Dominijanni, Pura finzione. Intervista a Patrizia D’Addario, Il Manifesto, 15 settembre 2009, disponibile in: http://www.ilmanifesto.it/fileadmin/archivi/donne/ida_intervista_15_09_09.pdf
[iii] «C' è chi ha avuto la Land Rover, chi la Smart, chi un appartamento in centro e chi è stato eletto al Consiglio regionale. Essere eletti con quel sistema non è reato». Dichiarazione di Piermaria Corso, avvocato di Nicole Minetti, accusata dalla Procura di Milano di induzione e favoreggiamento della prostituzione, dopo l’udienza preliminare del processo che la vede coinvolta. In: La Minetti non era una tenutaria, di Giuseppe Guastella, Corriere della Sera, 14 luglio 2011. Leggibile in: http://archiviostorico.corriere.it/2011/luglio/14/Minetti_non_era_una_tenutaria_co_8_110714025.shtml
[iv] Interessante il punto di vista di Valeria di Napoli, nota come Pulsatilla, autrice di La ballata della prugne secche (Castelvecchi 2006) e Giulia Squeenze (Bompiani 2008), da me intervistata qualche anno fa: « «Sì, le ragazze si presentano in maniera corporale. Insomma, ti metti le magliette con la scritta “fuck me”, i jeans a vita bassa con il filo delle mutande che esce fuori, ti acconci come un corpo disponibile, sembri e forse ti pensi pronta a tutto. Eppure quello che vuoi non è procurarti un orgasmo, ma è una vicinanza del cuore e dell’anima». Valeria è decisamente lucida: «Non c’è nessuna consapevolezza di quello che si cerca: per esempio le girls gone wild, quelle che si spogliano e si mostrano su internet, che spesso sono ancora vergini. È un’esperienza estetico-sociale, nel senso che attraverso al sesso, il corpo si cercano ancora una volta relazioni, affetto, amicizia». In: Leggendaria: Maschi, n. 70/2008
[v] Via Olgettina è la strada di Milano in cui sono situati gli appartamenti in cui abitano/abitavano alcune delle ragazze ospiti delle feste alla villa di Arcore, di proprietà dell’ex-premier italiano Silvio Berlusconi
[vi] André Gorz, Metamorfosi del lavoro, Bollati Boringhieri, Torino 1992 (1988)
[vii] Roberta Tatafiore, Prefazione in: Wendy McElroy, Le gambe della libertà, Leonardo Facco Editore, 2002, pag.6 . Si tratta di un commento a un’affermazione molto netta di McElroy: «Le prostitute domandano niente di più che gli stessi diritti che ogni donna nella società si aspetta: protezione dalla violenza fisica e riconoscimento del proprio diritto di adulta di accedere al sesso consensuale. Non è possibile negare questi diritti a una ‘categoria’ di donne senza danneggiare la libertà di ogni donna».
[viii] Cfr.: Dino Martirano, Il premier? Non ha mai pagato le donne. Parla Ghedini, il legale del cavaliere in: Il Corriere della Sera, 18 giugno 2009.
http://www.corriere.it/politica/09_giugno_18/martirano_ghedini_inchiesta_bari_caef95e4-5bc6-11de-b8d9-00144f02aabc.shtml
[ix] citato in: Daniela Danna, Prostituzione e vita pubblica in quattro capitali europee, Carocci, Roma 2006
[x] Michel Houllebecq, Piattaforma. Nel centro del mondo, traduzione di Sergio Claudio Perroni, Bompiani 2009 (2001), pp. 122-123
[xi] Elisabeth Bernstein, Temporary Yours, Intimacy, Authenticity, and the Commerce of Sex, The Chicago University Press, Chicago 2007 pp. 2-3 (Temporaneamente tua, a cura di Maria Pedullà, traduzione di Pietro Manzella, Odoya 2009)
[xii] Zygmunt Bauman, Consumo, dunque sono, traduzione di Marco Cupellaro, Laterza, Bari 2008 (2007), pp. 123-124
[xiii] Giulia Garofalo, Un altro spazio per una critica femminista al “traffico” in Europa in: Trickster, rivista online del Master di studi interculturali dell’Università degli studi di Padova, 2007
http://www.trickster.lettere.unipd.it/archivio/3_prostituzione/numero/rubriche/ricerca/garofalo_traffico/garofalo_traffico.html
[xiv] Il documento è scaricabile in: http://www.lucciole.org/content/view/50/3/
[xv] Isokè Aikpitanyi,Laura Maragnani, Le ragazze di Benin City, Melampo, Milano 2007
[xvi] Messaggio di Isokè Aikpitanyi in:
http://urlodallastrada.blogspot.com/2008/11/messaggio-di-isok-aikpitanyi.html
[xvii] cfr. Laura Marìa Augustìn, Sex at the Margins. Migration, Labour Market and the Rescue Industry, Zed Books, London 2007
[xviii] Giulia Garofalo, op. cit.
[xix] Traffiking in Persons Report 2011, visibile in:
http://www.state.gov/g/tip/rls/tiprpt/2011/
[xx] Tenera Valse, Portami tante rose, Cooper 2011
[xxi] Jo Weldon, Show Me the Money: A Sex Worker Reflects on Research into the Sex Industry, in:
Melissa Hope Ditmore, Antonia Levy, Alys Willman ed., Sex Work Matters: Exploring money, power and intimacy in the sex industry, Zed Books, London&New York, 2010
[xxii] Gruppo Abele, Dati sulla prostituzione, aggiornati al 2008, pubblicati sul sito www.gruppoabele.org all’indirizzo.
http://www.gruppoabele.org/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/255
Dati simili sono ripresi da Mirta Dal Pra Pocchiesa nel suo recente: Prostituzione. Un mondo che attraversa il mondo, Cittadella editrice, Assisi 2011, pag. 32. Incrociando dati Parsec e Transcrime si valuta che su strada si prostituiscano circa 20/25.000 persone, tra italiane e migranti. Che vanno raddoppiate perché si valuta che chi esercita al chiuso sia il 50 per cento circa del totale. Si arriva quindi a una cifra di 40/50.000 persone, di cui, secondo la Caritas e molte realtà laiche, l’80 per cento è legato a qualche forma di tratta o sfruttamento. Quasi tutte sono migranti.
[xxiii] Per questa serie di dati cfr.: Stefano Becucci, Eleonora Garosi, Corpi globali. La prostituzione in Italia, Firenze University Press 2008. Il riferimento è al Dipartimento per le Pari Opportunità della presidenza del Consiglio dei Ministri.
[xxiv] P. Ciccioli, L’Italia da marciapiede, in: Panorama, 3/7/2008, pp. 26-32. L’articolo riferisce di una ricerca di Transcrime, dell’università Cattolica di Trento.
[xxv] Elisabeth Bernstein, op. cit. pp. 42-43
[xxvi] Paola Tabet, La grande truffa, Rubettino, Roma 2004.
[xxvii] Gail Pheterson, Le prisme de la prositution, traduit de l’anglais par Nicole Claude-Mathieu, L’Harmattan, Paris 2001 (1996) «La prostituta è il prototipo della donna segnata dallo stigma. Ciò che la denomina e nello stesso tempo la disonora è la parola “puttana”. Tuttavia questa parola non si riferisce solo alle prostitute. È un’etichetta che si può applicare a qualunque donna». pag.95
[xxviii] Ariel Levy, Sporche femministe scioviniste. Le donne e l’irresistibile ascesa della Raunch Culture, traduzione di V. Di Napoli e G. Bottali, Castelvecchi 2006 (2005)
[xxix] Sylvia Walby, The Future of Feminism, Polity, Cambridge, UK, Malden Usa 2011
[xxx] Per il dibattito, consultare i siti www.zeroviolenzadonna.it , www.donnealtri.it , www.ingenere.it, http://www.womenews.net/spip3, http://www.libreriadelledonne.it/, http://www.universitadelledonne.it/, http://senonoraquando13febbraio2011.wordpress.com/
[xxxi] cfr. Subaltern Studies: Decostruire la storiografia in Subaltern Studies: Modernità e (post)colonialismo, a cura di Ranajit Guaha e Gayatri Chakravorty Spivak, presentazione e cura di Sandro Mezzadra, Ombre Corte, Verona 2002 (1985)
[xxxii] Martha Nussbaum, Whether from Reason or Prejudice in: Prostitution and Pornography: Philosofical Debate about the Sex Industry, Jessica Spector ed., Stanford University Press, Stanford California 2006, pp. 175-176
[xxxiii] Martha Nussbaum, op. cit., pp. 196-197
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