I primi anni del femminismo (1970-1973) mi avevano visto animatrice di gruppi di analisi e confronto sui temi dell'oppressione delle donne, della loro marginalità rispetto ai luoghi di potere, del carico del doppio lavoro, delle difficoltà dell'autodeterninazione rispetto al proprio corpo, della salute, degli ostacoli e dei vincoli esterni opposti alle donne nei loro tentativi di conquistare indipendenza economica e autonomia di pensiero e azione
In altri termini, il discorso dell'analisi della complicità di noi donne con l'ordine sociale e culturale impose di fatto la pratica dell'autocoscienza, l'unico modo per scoprire l'interiorizzazioni dell'ordine patriarcale, al quale siamo esposte donne e uomini attraverso l'educazione di genere.
Le elaborazioni e la pratica che ne sono conseguite sono state dirimenti tra l'emancipazionismo e il femminismo anni Settanta.
Non mi è stato facile abbandonare la dimensione di condanna assoluta della posizione di subalternità culturale e sociale delle donne rispetto agli uomini, dimensione a suo modo consolatoria, perché legittimava ogni comportamento individuale e collettivo come reazione alla situazione, per avviare un'analisi di quanto fossimo anche noi donne responsabili, perché adattate nelle nicchie di contropotere, sicurezze, tutele, costruite nel corso del tempo, e che non volevamo perdere.
Un conto era stato trovarsi insieme a tante donne, e anche agli uomini sensibili ai temi, a lottare contro le discriminazioni salariali, l'isolamento nelle case a esercitare il lavoro domestico o la costrizione a sobbarcarsi il doppio lavoro, a denunciare la mancanza di asili nido e servizi sociali, la medicalizzazione di ogni fase fisiologica, la mancanza di contraccezione sicura e di libertà di scegliere se essere o no madri. Tutte battaglie portate avanti anche in alleanza con le Commissioni femminili dei partiti, con i sindacati e le Associazioni storiche dell' emancipazionismo, un altro conto era affrontare, necessariamente in piccoli gruppi e tra sole donne, l' analisi delle nostre relazioni con donne e uomini, delle complicità e dei compromessi messi in gioco per sopravvivere allo sconforto e ai sentimenti di fallimento individuale.
Il periodo della sorellanza mi aveva aperto inedite prospettive di rapporti con le donne, più anziane di me o coetanee, della mia stessa condizione sociale e culturale o di condizione totalmente diversa, rapporti improntati alla fiducia, alla comprensione, alla possibilità di divertirsi, conoscere, sperimentare insieme, tra sole donne.
Erano sensazioni nuove e esaltanti per me, stretta com'ero tra l'ingiunzione materna di non fidarmi mai delle eventuali amiche, che prima o poi avrebbero cercato di tradirmi in qualche modo, e la curiosità che invece provavo nei confronti delle altre donne, mista a una forte dose di competitività.
L'esperienza della nuova socialità tra donne si confuse ben presto nella mia storia personale con la mia ricerca di madre accogliente e consolatoria, quale era l'immagine che mi portavo dentro., mi sono per così dire accomodata piuttosto nella dimensione di figlia.
L'unico luogo dove si pensava, e ci si illudeva di essere al riparo da scossoni affettivi e emotivi sembrava essere il proprio gruppo e collettivo, dove si era comprese, perché si parlava una lingua comune, che si allontanava sempre più dagli altri linguaggi, e dove si era sostenute.
Per me il passaggio dalla presa di coscienza della sorellanza nella comune oppressione di genere all'autocoscienza fu traumatizzante, ammutolii non appena mi resi conto di continuare a parlare un linguaggio ancora interno a un'ottica emancipazionista, ispirata al progetto di valorizzare e promuovere le attitudini, le capacità e le competenze delle donne in tutti i settori della cultura, della politica e della vita sociale, mantenendo e migliorando il sistema vigente.
Era veramente disorientante mettere in discussione consapevolezze e certezze acquisite in anni di militanza politica, ritrovarsi quasi senza rete di protezione, senza sapere bene dove si sarebbe andate a parare.
Successivamente ci si sarebbe accorte che anche tra donne si potevano riproporre i meccanismi consueti di potere appresi nel mondo a dominanza maschile, dal momento che l'occhio e la logica erano state interiorizzate da molte di noi, e non si poteva eliminare semplicemente allontanando gli uomini concreti dalle nostre riunioni, a quel punto molti gruppi si sarebbero sciolti, dopo anni di analisi e elaborazioni, spesso con lacrime e lacerazioni.
Nel frattempo era nato il mio primo figlio, mi trovai a gestire la situazione di madre e lavoratrice aiutata solo da mio marito, che per fortuna svolgeva lo stesso mio lavoro, e aveva quindi gli stessi tempi liberi miei.
Da una parte la maternità era emozionante, anche se comportava ansie, data anche la mia inesperienza e l’impossibilità di chiedere consiglio ad altre, ero la prima madre nel mio gruppo di donne, per qualche tempo continuai a partecipare alle riunioni portandomi il figlio, sempre bravissimo, poi entrai in crisi.
Intanto alla ripresa della scuola, dopo il periodo di maternità il movimento di insegnanti giovani come noi che entravano nella scuola mi coinvolse nella prospettiva di svecchiare autoritarismi, elitarismi, in un’ottica di democratizzazione, tutto il processo che portò alla istituzione degli Organi Collegiali, mi occupai prevalentemente di questo, trovandomi a lavorare con colleghi in gran numero uomini, essendo in un istituto superiore.
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