mercoledì 28 novembre 2012

La prostituzione come specchio deformante delle relazioni donne uomini ai tempi del patriarcato

La riflessione mi è stata suggerita da due articoli apparsi recentemente sul sito Zeroviolenzadonna, La prostituzione ai tempi dello zoning, pubblicato il 10 novembre da Elvira Reale, e Non serve predicare al vento contro la prostituzione, di Maria Gigliola Toniollo, pubblicato il 26 novembre.

Toniollo cita direttamente le riflessioni di Reale, assimilandole, con poca generosità a mio avviso, a "chiacchiere da salotto" e, con il sostegno della sua esperienza di sindacalista, prende posizione contro "pratiche repressive che ritorcono i loro effetti solo sulle persone più deboli" dichiarandosi a favore della " idea di "zoning”: un sistema flessibile, che abbia i requisiti per proteggere la salute e l’integrità fisica di chi vi accede, in luoghi concordati fra i rappresentanti dei comuni e le organizzazioni di prostitute e prostituti, piccoli territori che non sono i tanto citati “quartieri a luci rosse" ne' tanto meno le “case chiuse” e che potrebbero essere minimamente attrezzati e resi sicuri."

Osserva Toniolli che in Italia c'è ancora chi nega la autodeterminazione dei e della sexworkers, confondendola con  con la schiavizzazione di donne e uomini ad opera di organizzazioni criminali, cita a proposito un esperimento condotto a Mestre sulla mappatura di quartieri in accordo con Comune, prostituti e prostitute.

Afferma anche  Toniolli: "c'è infatti chi ancora ritiene che la prostituzione non debba esistere, punto e basta, e persino che le prostitute e i prostituti che vogliono difendere scelte personali, altro non siano che poveri decerebrati che in qualche modo “se la raccontano” per non ammettere la loro pena...".

A onor del vero la passione ha fatto velo a Toniolli, nell'articolo di 
Reale non c'è tanto questa dimensione, quanto da un lato il rifiuto di quella che appare comunque una ghettizzazione, al di là delle intenzioni dei/delle proponenti, e dall'altro la denuncia della prostituzione come attività normale, e non determinata dalla strutturazione patriarcale delle sessualità degli uomini e delle donne.
Non c'è comunque nessun esplicito attacco a sexworkers,  ma la proposta di considerare la prostituzione come fenomeno culturale, e non "naturale", e agire di conseguenza a partire anche dalla educazione.

In Italia come, al solito, rispetto alla prostituzione siamo in una situazione ambigua dal punto di vista legale: la prostituzione in sé non è reato, ma è reato tutta una serie di comportamenti a monte e a valle: adescamento, favoreggiamento (un figlio maggiorenne, un padre, un fratello, un marito, un compagno, che conviva con una prostituta può essere accusato di favoreggiamento, anche una donna che sia figlia, compagna...).

Perfino il proprietario che affitta l'appartamento!


In realtà secondo la legge Merlin è reato lo "sfruttamento" della prostituzione.


Credo che nella situazione attuale molto dipenda dalla ipocrisia  del non far vedere, non dire, tenere nascosto.


Detto questo si apre una serie di problemi: personalmente sono assolutamente contraria -e durante un seminario di qualche anno fa di sexworkers, uomini e donne, che ho organizzato alla Libera Università delle donne di Milano mi sembra anche  che lo siano anche molt* sexw.-  a ogni forma leggera o pesante di regolamentazione o zone o affini, perché possono tramutarsi in gabbie.



Io non so di Mestre, forse c'è stato il contributo del Comitato delle lucciole, che ha vita da più di 30 anni, comunque le richieste che conosco è che ciascuna/o possa scegliere liberamente dove e come esercitare fatte salve regole di convivenza che valgono già per altri tipi di attività: i  laboratori o gli studi di vario genere nei condomini (non fare chiasso, non disturbare, non inquinare).


Il che vuol anche dire lasciare ognuno/a libero/a di esercitare per periodo più o meno lunghi, saltuariamente o meno.


Se oggi noi andiamo da un medic*, un fisiopat*, nessuno controlla se ci facciamo anche sesso o no.

Il problema tassazione si risolverebbe con la denuncia fiscale personale delle entrate, da qualunque prestazione provengano.

Se poi prostitut* volessero poi unirsi tra di loro per condividere spese, fatti loro, salvaguardando gli accordi condominiali.

Ben diversa è la rete di protezione per le e gli schiavi/e, qui il discorso non è mai abbastanza approfondito.

Sulla  regolamentazione, anche minima, non sono d'accordo perché ho in mente le parole del bellissimo libro Lettere dalla case chiuse (Voltolina-Merlin) sulla disperazione di chi veniva segnata nei registri appositi ( a parte i soliti abusi e ricatti di medici e poliziotti, che ci sono anche oggi) e lo rimaneva per tutta la vita, anche se poi riusciva/decideva di smettere.

Tornando all'articolo mi sembra che la sindacalista abbia frainteso le parole di Elvira Reale che, ripeto, conosco indirettamente da tempo attraverso le sue ricerche, come seria e preparata, nel senso che non si tratta di "chiacchiere da salotto"- quanta diffidenza nei confronti di chi fa discorsi teorici, oltre che pragmatici! tutt* intellettual* da tacitare?- ma di sollevare il problema del modello patriarcale di sessualità suddivisa nelle due figure simmetriche di moglie (per bene, anche se a volte asessuata) e prostituta (che corrisponde ai desideri maschili, provandoci magari anche piacere).

Ogni legittimazione della prostituzione come scelta personale di autodeterminazione non dovrebbe oscurare l'aspetto di rafforzamento dell'ordine sessuale patriarcale.

Ci rientrano la prostituzione e i matrimoni forzati, in tutte le forme, livelli e gradi di costrizione, palese o occulta, nelle diverse società e culture.

Ero ancora ventenne  quando sentivo farmi discorsi di scegliere un "buon partito" nel senso di soldi, invece che abbandonarmi a sogni di innamoramento; ovviamente questa dimensione è più generalizzata nelle società in cui le donne dispongono di minor reddito da lavoro rispetto agli uomini.

Quanti matrimoni di donne "per bene" sono avvenuti in cambio di mantenimento, certo oltre alla prestazione sessuale è richiesta anche cura, accudimento di persone e cose, comportamenti socialmente ineccepibili, tanto l'amore verrà, e se non sarà amore sarà comunque affetto.

Molte prostitute hanno detto nelle loro interviste che legarsi a un unico uomo e fornire tutte quelle altre prestazioni (servizi, sostegno psichico, cura della casa, cucina...) sembrava loro molto peggio e più faticoso che non fornire prestazioni sessuali a uomini diversi, e quindi con maggiore varietà e divertimento.

Questa però non è considerata socialmente prostituzione, a meno che la donna non si prenda libertà sessuali al di fuori del marito, allora sì che è puttana!

L'uomo insoddisfatto sessualmente nel matrimoni o nella convivenza ha sempre a disposizione una prostituta che lo capisce e soddisfa. E in fondo questo è considerato "naturale", data "la natura" della sessualità maschile.

E' un problema di relazione tra donne e uomini determinato dalla mentalità patriarcale, che può riassumersi nell'assunto: la sessualità maschile esiste e è "irrefrenabile", pena il benessere dell'individuo, quella femminile o è "naturalmente" conforme al desiderio maschile, oppure non esiste, o semmai è sublimata in altre attività e affetti.

Di qui il monito alle donne: se andate vestite o spogliate in un certo modo e attirate violenze ve la siete cercata, avete eccitato e provocato la sessualità maschile "irrefrenabile".

E qui arriviamo all'ultimo punto del discorso secondo me: che discrimine poniamo tra il libero esprimersi della sessualità femminile, al di fuori delle norme socialmente accettate, e il lavoro di "prostituta": il pagamento in denaro?, regali?, o altre forme di vantaggi, diretti o indiretti? compreso il mantenimento matrimoniale?

Se sei donna e fai sesso con una persona influente per ottenere un incarico di prestigio (sia che ti faccia provare piacere o no) sei una prostituta?

O comunque per lavoro, o per carriera o per ottenere la cittadinanza........?

E fino a dove estendiamo la prestazione sessuale: palpeggiamenti, rapporti orali,  penetrazione, sollecitazioni di fantasie?......

Quando ero all'università facevo studi matti e disperatissimi, eppure agli esami mi preoccupavo di truccarmi e vestirmi meglio che potevo, al di là della cura che si presta alla propria persona in occasioni pubbliche, certo i prof. erano quasi tutti uomini, tranne le assitenti, i miei  30 e lode non erano certo dovuti al trucco e alle gonne attillate, ma comunque all'inizio del colloquio godevo di un'attenzione maggiore, che mi faceva "ascoltare" da parte dei prof, e non congedare alla prima inesattezza o errore, come  capitava ad altr*, avevo cioè tempo di correggermi, di mostrare quanto sapevo, e ricevevo sorrisi di incoraggiamento. Anche questo conta per un sereno svolgimento di un esame.

La stessa tecnica la adottavo con i Presidi, per la richiesta di supplenze....e via dicendo.

Non è lo stesso comportamento da puttana, anche se non c'era sesso esplicito, ma accontentavo in qualche modo le loro fantasie?

Concludo: lo facevo e lo farei ancora se fosse necessario (e io non avessi quasi 70 anni!!!!!!!!), ma questo non vuol dire che non  lo ritenga frutto dell'ordine patriarcale da scardinare.

1 commento:

  1. penso che una ragazza abbia il sacrosanto diritto di vestirsi come vuole per le ragioni che vuole senza preoccuparsi di assecondare o meno il "patriarcato". Francamente non credo che una donna che veste in maniera considerata "provocante" (secondo quali criteri?) sia meno emancipata di un'altra.

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