Una delle maggiori difficoltà, e conseguente delusione, per chi come me ha vissuto i primi momenti del neofemmimnismo in Italia -fine anni Sessanta e anni Settanta- è stata il rendersi conto che tutta una serie di comportamenti, attribuiti alle modalità maschili di competere, erano stati interiorizzati da noi donne come utili per conquistare posizioni all'interno di certi ambienti, e erano praticati come "normali".
Le poche che li criticavano rischiavano spesso di essere liquidate con l'accusa di vittimismo.
Certo che l'autocoscienza aveva avuto il primo obiettivo di scovare le immagini di genere e la complicità con l'ordine sociale e culturale interiorizzato anche da noi, ma non tutte le femministe hanno praticato l'autocoscienza, alcune l'hanno considerata un'inutile perdita di tempo, rispetto alle lotte da condurre nel sociale; altre, che pure l'hanno praticata, non l'hanno applicata ai propri comportamenti.
Il contraccolpo si è avvertito nella seconda metà degli anni '80, al tempo che venne chiamato "del riflusso", quando, esauritasi la spinta al cambiamento del decennio precedente, in seguito agli attacchi alle lotte operaie e studentesche, e ai movimenti antagonisti al sistema, ci si è trovat* su una posizione difensiva.
I movimenti femministi hanno dato vita a Centri, Librerie, Archivi, Case delle donne, Riviste e giornali, tutti luoghi dove incontrarsi e riflettere come portare avanti i discorsi, sono stati raccolti documenti, per impedirne la dispersione, sono stati scritti e pubblicati testi, si sono organizzati convegni e seminari, nazionali e internazionali, anche se già da allora i giornali strillavano che il movimento era morto, il femminismo era finito.
Il pensiero critico ha continuato, si è raffinato, ma tutto questo lavorio restava confinato nel circuito dei Centri, Archivi, Librerie e case delle donne, il momento di coordinamento fu costituito dalla Rete Lilith, e dalla sua base dati, consultabile in rete.
Nei luoghi del sapere deputati, l'Accademia, questo lavoro culturale non era tenuto in considerazione, si attingeva al patrimonio elaborato nei vari centri, si utilizzava il consenso delle femministe, che assicurava una buona circolazione ai testi prodotti, ma non si dava il riconoscimento di "maternità" dovuto.
Quello che era stata riflessione collettiva poteva essere saccheggiata impunemente, perché non era proprietà di nessuna.
Parlo delle accademiche che negli anni '80 hanno iniziato la carriera nelle università.
Non tutte, per fortuna, ma la maggior parte di loro ha trascurato di riconoscere il lavoro collettivo dal quale ha avuto origine, o ha preso spunti, la ricerca individuale.
E' pur vero che, data l'arretratezza generale della nostra Accademia, risultava difficile farle accettare fonti considerate poco rigorose e poco scientifiche, ma non mi sembra ci siano state tante battaglie, da parte di donne aspiranti a cattedre universitarie, per cambiare la situazione.
Il risultato è stato spesso la cancellazione, all'interno del fenomeno di marginalizzazione generale del pensiero e delle esperienze femministe, dei nomi di chi non aveva visibilità, non ricopriva posti di potere - grande o piccolo che fosse- nell'Accademia, nella cultura, ma soprattutto nella politica dei partiti.
In altre parole di chi non poteva in qualche modo fare gioco di scambio di favori.
Se in qualche modo si è preparate alla cancellazione da parte di chi è complice consapevole del sistema donna o uomo che sia, non si è mai abbastanza preparate, secondo me, a essere completamente ignorate, quando si sono magari impiegati anni di lavoro comune.
Per molte donne e molti uomini, estern* al femminismo, il maggior contributo alla svalutazione delle pratiche e delle teorie femministe deriva, oltre che dall'opera sistematica dei grandi mezzi di comunicazione, proprio dai comportamenti di femministe di potere, nei vari ambiti di attività
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