Scorze di Adriana Perrotta Rabissi, un libro composto da miei brevi racconti e mie letture critiche di scrittrici amate. Alcuni romanzi mi hanno interpellato emotivamente e affettivamente, mi sono impossessata di temi, sentimenti, emozioni espressi dalle autrici, le ho filtrate attraverso la mia esperienza di vita e pensiero, e le ho restituite ai racconti
lunedì 22 dicembre 2014
Memorie di una femminista non pentita (XI)
Un inizio di femminismo a Milano
Mi sento senza storia.
Parlo della storia della mia famiglia d'origine, del radicamento in una comunità di affetti e destini; molteplici sono le ragioni di questa mancanza, ragioni personali dei miei genitori, ragioni sociali e politiche.
Sono figlia di due genitori emigrati a Milano dalle rispettive città, in rotta con famiglie, delle quali non parlavano volentieri. Entrambi formatisi ai valori fascisti, e, in quanto tali, frustrati per essere dalla parte parte dei "vinti", non parlavano in casa neppure dei fatti storici vissuti, se non per deplorare come erano raccontate le cose da parte dei "vincitori", con una sfumatura rancorosa nei confronti del presente "ingiusto".
Mia madre ha sofferto per la separazione dei suoi genitori, "colpa" di un padre socialista che non solo ha abbandonato la moglie in nome del "libero amore", ma non ha permesso alla figlia di frequentare le superiori per non mandarla a scuola "insieme con i maschi".
Mio padre, di famiglia modesta e allevato con i fratelli dalla madre vedova, è venuto su un po' sbandato, a suo dire aveva davanti a sé solo un 'alternativa: o poliziotto o delinquente, ha scelto la prima opzione.
Conosco poco altro della loro storia, unica eccezione la mia nonna materna, che ha accompagnato mia madre nella fuga, quasi clandestina, a Milano; entrambe avrebbero portato il peso di questo gesto di fronte alle loro famiglie, che le considerarono donne per male. Ma neanche lei ha mai parlato della sua famiglia d'origine.
Non ho frequentato se non sporadicamente, e quando ero molto piccola cugini/e e zii/e, così metto insieme frammenti di notizie che ricordo da osservazioni di mia madre quando ero bambina, o da suoi discorsi con conoscenti.
Mentre scrivo mi chiedo se questi ricordi sono reali o costruiti da me.
E' disorientante non sapere nulla di chi ci ha preceduto, nomi, occupazioni, interessi, paure e speranze.
Per questo forse ho studiato Storia, mi sono laureata in Storia medievale e tra le mie discipline universitarie preferite c'erano archivistica e paleografia.
Forse la conseguenza psicologica più importante di questo mio sentirmi senza storia personale consiste nel fatto che non do mai importanza a quello che ho fatto, ricomincio sempre da capo, trascurando il recente passato.
Così non ho mai accennato nelle mie ricostruzioni scritte e orali ai miei inizi nel femminismo.
Nel 1970, dopo la militanza di qualche anno in uno dei gruppi extraparlamentari di Milano, ho cominciato a interessarmi a quella che allora era chiamata "la questione femminile".
Non avevo mai partecipato alle attività dell'UDI, neppure a nessuna delle commissiono femminile dei partiti, infatti non sono mai stata iscritta ad alcun partito.
Nel 1970 si respirava un'aria nuova tra molte donne, ci incontravamo a casa mia, la sera a parlare di noi, a redigere volantini sul doppio lavoro, domestico e extradomestico da distribuire davanti alle fabbriche.
C'erano donne conosciute durante il lavoro politico svolto precedentemente, alcune studentesse, qualche sindacalista, conosciuta durante il lavoro di volantinaggio.
Alcune delle sindacaliste ottennero il permesso di farci entrare con loro nella mensa della fabbrica durante la pausa pranzo, in una sorta di breve assemblea, per parlare con le operaie dei problemi di quella che si chiamava la "condizione delle donne".
Ricordo anche qualche riunione serale in casa di qualche operaia della Pirelli, in zona Bicocca, su iniziativa di Serena Nozzoli, che stava ultimando la sua tesi di laurea, che sarebbe diventata tre anni dopo il libro Donne si diventa, titolo mutuato da Simone de Beauvoir.
Proprio tra il 1970 e il 1974 nascevano e operavano a Milano circa trenta gruppi di donne, con un nome, una sede, per lo più una casa privata, e una produzione di brevi documenti e volantini.
Tutti quanti in polemica, a volte anche aspra, con l'emancipazionismo portato avanti dai gruppi dalle commissioni femminili dei partiti, e soprattutto dall'UDI.
Ci fu anche un periodo di frequentazione tra gruppi, alcune andavano "in visita" alle riunione di altri gruppi.
Ricordo a casa mia le visite di Elena Medi e Silvia Motta (Il cerchio spezzato di Trento, trasferitosi a Milano), di Daniela Pellegrini (Demau), di alcune di Anabasi (il gruppo fondato da Serena Castaldi, che aveva portato materiale dal movimento di donne negli USA).
Io stessa partecipai un paio di volte alle riunioni in via Brera di Carla Lonzi, sottovalutandone ahimè il discorso, tutta imbevuta com'ero di operaismo.
Quando si costituì finalmente la sede di via Cherubini i collettivi confluirono in una riunione settimanale di tutti i gruppi di Milano, nella quale continuò per qualche tempo il confronto tra le varie posizioni.
Il mio gruppo aveva inizialmente una presenza maschile, un nome che ricordava i collettivi di matrice operaista e marxista che agivano sul territorio, si chiamava Collettivo politico milanese per la liberazione della donna.
La militanza nei gruppi misti ci aveva convinto che non era possibile una politica dei due tempi, che un cambiamento radicale, rivoluzione si diceva allora, del sistema sociale e politico non avrebbe contemporaneamente modificato il rapporto tra donne e uomini, sia nei luoghi di lavoro che all'interno delle case.
Le donne operaie erano individuate nel mio gruppo come tra le più oppresse, a causa del doppio lavoro in fabbrica e a casa.
Anche noi avevamo direttamente sperimentato nei nostri gruppi la situazione di subordinazione ai nostri compagni, in qualità di angeli del ciclostile, pulitrici di sedi, cuoche nelle riunioni, oggetti della loro liberazione sessuale.
Quella a cui davamo vita nelle riunioni a casa mia non poteva chiamarsi ancora autocoscienza, già praticata da qualche collettivo, quanto piuttosto "presa di coscienza", come si diceva allora, di una condizione di subalternità agli uomini, materiale e culturale, che accomunava tutte le donne, indipendentemente dalla loro posizione sociale, secondo la divisione dei compiti prevista dalla codificazione dei ruoli sessuali vigente.
Anche nella presa di coscienza si metteva al centro del discorso la scoperta degli specifici bisogni, desideri, frustrazioni, in casa e nei luoghi di lavoro. Si provava a costruire relazioni di fiducia e solidarietà tra donne, fuori della tradizionale rivalità, la parola d'ordine era "sorellanza", che veniva rinsaldata anche dai momenti esaltanti di feste e cene tra donne, nelle quali si scopriva la libertà di sottrarsi allo sguardo -e conseguente valutazione- maschili.
L'apporto ulteriore dell'autocoscienza sarebbe stato, di lì a poco, la consapevolezza di aver interiorizzato lo sguardo maschile anche noi donne, e di attivarlo, più o meno inconsapevolmente, nelle nostre relazioni.
Un scoperta fondamentale fu la sottrazione del corpo e dei suoi eventi fisiologici alla medicalizzazione, comprese gravidanza e parto, non più considerati malattie e quindi ricondotte al governo delle singole donne, di qui la parola d'ordine dell'autodeterminazione, che comportava l'esigenza di una maternità cosciente, e non imposta e/o subita.
Ma autodeterminazione significava anche poter disporre liberamente degli anticoncezionali, ancora proibiti in Italia a causa dei divieti imposti dalla Chiesa (la pillola si andava a comprare in Svizzera), una delle prime campagne, gestita attraverso volantini, distribuiti davanti alle fabbriche e nei mercati, luoghi frequentati dalle donne, riguardò proprio la richiesta di liberalizzazione degli anticoncezionali.
Quando di lì a poco si pose a livello politico la questione dell'interruzione di gravidanza, partiti e sindacati parlarono di diritto di aborto, ma nessun collettivo femminista adottò questa espressione, che riduceva la questione a un solo aspetto del problema, semplificando il discorso. Anche se diverse furono le posizioni tra i gruppi, tra chi chiedeva la semplice depenalizzazione, per evitare l'ingerenza della legge nelle scelte personali, e chi invece sosteneva la necessità di una regolamentazione, sempre si mise l'accento sulla maternità cosciente, perché il discorso si estendeva contemporaneamente anche alla lotta contro gli aborti bianchi causati dalle condizioni di lavoro e di precarietà, oltre che alla libertà di usare anticoncezionali sicuri.
Il discorso completo riguardava la scelta libera di una donna di avere o no figli, disponendo di tutte le risorse per i controllo delle nascite, avendo la sicurezza di condurre felicemente a termine le gravidanze desiderate.
In questo modo Il "privato", che cosa c'era di più privato del corpo delle donne, si scopriva "politico".
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento