giovedì 29 novembre 2018



La danza delle parole. Uno sguardo di genere su quanto la lingua obbliga a dire


Il dibattito sul sessismo nell'uso della lingua ha, in Italia, un andamento carsico.
Ogni tanto riemerge come questione di stile, per inabissarsi poco dopo sotto il peso del ridicolo, che è arma tra le più potenti per combattere quello che non si condivide. Basti pensare alle ironie suscitate anni fa dalla proposta di abolire la distinzione tra signora e signorina, eppure era molto semplice il discorso, si trattava di adottare il medesimo comportamento linguistico nei confronti donne e uomini.

Comunemente lingua e linguaggio sono considerati sinonimi, in realtà, per dirlo con le parole di un linguista francese Claude Hagège: il linguaggio è: “l'insieme dei fenomeni di comunicazione e di espressione che si manifestano sia nel mondo umano sia al di fuori"; il linguaggio verbale è una forma particolare di linguaggio, che ricorre appunto alle parole, la lingua:"è il modo concreto e storicamente determinato in cui si manifesta la facoltà del linguaggio verbale”.

Nella seconda metà del Novecento si è verificata una svolta linguistica nel settore degli studi, in particolare di Filosofia e delle Scienze Umane, che si sono interrogate sul il rapporto tra lingua pensiero e realtà, osserva Hagège che la “fine del secolo XX rappresenta davvero l’età del linguaggio, non meno che delle scoperte sul cosmo, dei robot, dell’atomo o della genetica. Dal magnetofono alla televisione,  passando per la radio, la stampa ed i libri, dagli incontri al vertice alla più modesta telefonata privata, è evidente che i processi folgoranti degli strumenti di comunicazione, la rivoluzione informatica e l’estensione illimitata dei contatti sociali [sono] tutti processi in cui possiamo riconoscere un relativo dominio del tempo ottenuto attraverso la contrazione dello spazio, moltiplicano indefinitamente l’uso della parola, orale, scritta o riprodotta. [ dall’ ultimo] quarto di secolo, la specie umana è immersa in un immenso oceano di parole e di frasi. (Claude Hagège, L’uomo di parole. Linguaggio e scienze umane, Torino, Einaudi Editore, 1989, pp. IX-x).
Homo sapiens in quanto loquens, il linguaggio verbale come marcatore specifico della nostra specie

La lingua non è solo, come si è creduto fino al secolo scorso, il più raffinato strumento di comunicazione- messo a punto dagli/le umani/e in un momento indeterminato della loro storia di specie per comunicare cose (idee, concetti, immagini) già presenti nella mente, ma il prodotto della facoltà del linguaggio verbale, che costituisce la caratteristica biologica della nostra specie di appartenenza (homo sapiens appunto), nel senso che, secondo alcuni/e linguisti/e, non è esistita mente veramente umana priva della facoltà di linguaggio, perché la mente umana é una mente linguistica.
Non c’è qui il tempo per affrontare la irrisolta questione della nascita della facoltà del linguaggio verbale, basti ricordare che quando si costituì in Francia l’Accademia degli studi linguistici il primo punto del Regolamento fu di non affrontare mai questa discussione, perché considerata di impossibile soluzione.
Accenno solo al fatto che secondo alcuni/e linguisti/e la facoltà del linguaggio verbale può ritenersi presente già nell’Homo habilis (circa 2.200.000 anni a C), anche se non esercitata, come mutazione genetica rispetto ad altre specie di ominidi; secondo altri/e apparve con l’Homo sapiens (circa 40.000 anni a. C), comunque, se sono occorse centinaia di migliaia di anni perché si sviluppasse l’attitudine al linguaggio, non ci stupiremo che ne siano occorse altrettante perché questa si sviluppasse, e ciò in interazione con l’ambiente, come accade per tutti gli organismi viventi .

Il linguaggio quindi non sarebbe un fenomeno solo culturale, ma prima di tutto biologico, in quanto marcatore specifico della nostra specie.
Alcuni studi recenti usano, per illustrare questa ipotesi, la metafora del virus, nel senso di considerare il linguaggio alla stregua di organismo vivente che avrebbe infettato il cervello degli/le ominidi evolvendolo ed evolvendosi; vale a dire linguaggio e cervello si sono plasmati a vicenda nel corso di migliaia di anni, se ne ha un piccolo esempio quando si consideri che possedere il nome delle cose potenzia la percezione umana, incrementando la conoscenza dei fenomeni.
Questi/e studiosi/e intendono porre l’accento sul fenomeno della mutazione, una fra le tante che si verificano in natura, che ha prodotto menti capaci di associazioni tra segni e oggetti molto più numerose delle precedenti, con la conseguenza di permettere a sua volta un infinito numero di associazioni tra segni e segni, vale a dire che ha prodotto menti dotate di quella che viene definita competenza simbolica.
Non siamo infatti gli/le unici/che viventi dotati/e di mente capace di associare segni ad oggetti, e neppure gli unici capaci di comunicare tra loro; basti pensare ad un uccello di piccole dimensioni che corre a nascondersi in presenza un’ombra nel cielo a poca distanza: l’ombra è il segno di un possibile rapace predatore.
Nel campo dei linguaggi di comunicazione pensiamo alla danza a otto delle api, considerata dagli/le etologi/ghe uno dei più sofisticati sistemi di comunicazione, mediante il quale le api esploratrici indicano all’alveare con esattezza pascoli molto distanti e cammini impervi.
Ma allo stato attuale delle conoscenze siamo gli/le unici/che in grado di raccontare che siamo andati/e in un certo luogo convinti/e di trovare qualcosa e che ci siamo sbagliati/e.
La lingua non ha solo una funzione comunicativa, anche è la griglia concettuale attraverso cui conosciamo il mondo, noi stesse/i, ci esprimiamo, e siamo in grado di immaginare e raccontare mondi fantastici e irreali.

Un grande romanziere del passato ha scritto:
Forte del proprio genio, della propria identità, del talento donatogli da Dio, ogni popolo si è caratterizzato per una lingua diversa che nell’esprimere un contenuto qualsiasi esprima nel contempo e rispecchi un lato del suo carattere.”  Nikolaj Gogol, Le anime morte, cap. V, 1942)
Lo scrittore anticipa quello che sarebbe stato affermato in seguito dagli/le studiosi/e, che il criterio più funzionale, allo stato attuale della ricerca, per determinare l’appartenenza ad una comunità è quello linguistico e che le differenze tra le varie lingue sono differenze di visioni del mondo. Le differenti categorie linguistiche, infatti, segnalano le differenze delle categorie logiche ed epistemologiche di una società. Parlare lingue diverse non vuol dire, come potrebbe apparire a prima vista, dire le stesse cose in modo diverso (graficamente e foneticamente), ma organizzare in modi diversi la nostra presenza nel mondo e i rapporti tra noi e questo, se consideriamo le lingue nel loro insieme strutturale, fonologico, morfologico e sintattico, lessicale.
La distanza tra le visioni del mondo è più grande quanto più distano popolazioni nel tempo e nello spazio, lingue di analoghi sistemi culturali sono più vicine.
Proprio la varietà di lingue dal punto di vista morfologico, sintattico e fonologico, oltre che lessicale, varietà corrispondente alle differenti organizzazioni sociali e culturali, ha indotto viaggiatori europei dei secoli scorsi a considerare primitive e dotate di menti infantili alcune popolazioni dell’America e dell’Africa. Esempio di questo atteggiamento razzista nel suo eurocentrismo,è l’accusa di mancata capacità di astrazione, formulata nei confronti di popolazioni che non avevano un termine generale per indicare complessivamente la specie di animali essenziali alla propria vita e sopravvivenza -ad esempio renne, o salmoni-, ma disponevano di numerosi nomi per designare i singoli individui, distinti in base a tratti caratteristici, distinzione indispensabile alla vita di quelle popolazioni.
Infatti, e questa è certamente un universale umano, le particolarità di una lingua sono ancorate ai bisogni quotidiani di una collettività di parlanti.

Ogni lingua storico-naturale organizza, dunque, il mondo interiore dei/delle parlanti, così che, come già osservava il linguista Sapir agli inizi del Novecento, la costruzione del mondo reale, inteso come quello che ciascuno di noi si costruisce dentro di sé, si forma in gran parte nell’inconscio, sulla base delle abitudini linguistiche apprese dalla nostra entrata nel mondo,.
La lingua infatti costituisce i binari su cui viaggia il nostro pensiero, è superata la concezione della lingua come semplice nomenclatura, vale a dire come lista di termini corrispondenti ciascuno a un oggetto della realtà, perché essa non riproduce il reale, ma lo interpreta, fissandone le categorie di percezione e classificazione; imponendo le proprie griglie interpretative al mondo, ne costruisce la visione per i/le parlanti di una data società in un determinato momento storico.
"Se per gli uomini l’universo possiede un’esistenza, è nella misura in cui le loro lingue attribuiscono dei nomi a ciò che i loro sensi e le loro macchine possono percepire. Importa poco alle cose avere o no un nome. Ma importa molto darlo alla specie che vive in mezzo ad esse. […] Nominare non è tuttavia riprodurre, bensì classificare. Dare un nome alle cose non è attribuire loro un’etichetta. […] Le parole […] sono sorgenti di concetti. Grazie ad esse, l’universo si trova ordinato in categorie concettuali. Delle categorie, dunque, che non sono in alcun modo intrinseche alla natura delle cose. […] Parlando il mondo le lingue quindi lo reinventano”(Hagège, pp. 123-124).
Basti qui accennare al fatto che la stessa distinzione tra oggetto e evento non si applica, in tutte le lingue conosciute, ai medesimi elementi, ma dipende da come li rappresentano le rispettive lingue, per alcune popolazioni la divinità non è un essere, ma un processo espresso da un verbo;, in alcune lingue poi  non esiste il concetto di futuro e conseguentemente non c’è il tempo del futuro nei verbi, in altre non esiste il colore verde essendo il verde il mondo abitato dalla comunità dei/delle parlanti.

E’ intuibile allora l’importanza della dimensione simbolica inscritta nella lingua nella costruzione delle soggettività delle donne e degli uomini, perché vi sono depositati i valori, le idee, i modelli di comportamento, i giudizi su ciò che bello o brutto, giusto o ingiusto, naturale o innaturale, sui quali ci formiamo a partire dal nostro ingresso nel mondo.
Un certo modo di parlare, appreso fin dalla prima infanzia, e, in quanto tale, percepito comunemente come un fatto naturale, e non storicamente determinato, diventa per automatismo un certo modo di pensare, perché la funzione modellizzante della lingua comporta che le rappresentazioni sociali, culturali e storiche in essa sedimentate si traducano, a livello del senso comune, in forme ritenute obiettive di conoscenza.
Le lingue, allora, sono anche i luoghi della codificazione dei ruoli sessuali nelle diverse culture e società, essi sono vissuti come naturali e quindi spesso ritenuti immutabili, proprio perché appresi dalla e nella lingua materna.

Gli stereotipi sedimentati nelle lingue, in relazione anche ad altre componenti discriminanti oltre al sesso, quali l’appartenenza a certe etnie, la pratica di determinate religioni e mestieri, agiscono nel profondo delle/dei parlanti, trasformati in vere e proprie rappresentazioni culturali e sociali, fatte proprie, a volte a livello inconsapevole, dai/dalle parlanti/pensanti.

Nel percorso dall’invisibilità alla visibilità, avviato da molte donne nel campo sociale, culturale e politico, la lingua e l’ordine del discorso sono stati tra i primi elementi con cui dover fare i conti.
La lingua italiana, come altre, rivela nella sua struttura di senso e funzionamento un alto grado di androcentrismo, perché prevede un solo soggetto di pensiero e di discorso, apparentemente privo di determinazioni materiali e sensibili, quindi astratto e asessuato, e in quanto tale considerato universale, adatto cioè a rappresentare sia gli uomini che le donne, in realtà strutturato secondo modalità ascritte nella nostra cultura al maschile.
Il discorso sulla significatività del genere grammaticale nelle lingue dove è ancora attiva la distinzione in maschile e femminile è tuttora fonte di contrasto all’interno della comunità scientifica, c’è chi indaga i fenomeni linguistici prendendo in considerazione la lingua in astratto, soltanto come un sofisticato sistema di segni di cui si studiano le regole interne, in questo caso la categoria del genere grammaticale è considerata residuale, un semplice strumento formale di classificazione, ormai immotivato, e in quanto tale privo di funzionalità semantica e referenziale, nel secondo caso c’è chi, e chi la considera in rapporto dinamico con la collettività dei /delle parlanti, e in grado di determinarne la realtà concettuale. come la linguista Patrizia Violi, che nella categoria del genere grammaticale ha ravvisato il segno di una precocissima simbolizzazione della differenza sessuale, inscritta nelle lingue attraverso un doppio movimento, dapprima di cancellazione del femminile (la forma base dell’essere, fondante, è il maschile), e successivamente di reintroduzione del femminile come variante, nel senso di diverso da/, che nello sviluppo dei processi sociali e culturali è slittato semanticamente in  contrario di/.
Così se il maschile assume la connotazione della razionalità, del logos, della capacità di astrazione, il femminile diventa a contrariis il segno dell’irrazionalità, dell’emotività, il luogo dove viene confinato tutto quello che ostacola il percorso lineare dell’ umanità verso la conoscenza. Ne consegue la sua svalorizzazione in rapporto alla produzione del pensiero e delle sue forme discorsive, parallela alla sua enfatizzazione nel presunto contatto empatico con la natura e la riduzione della sua specificità e complessità alla sfera del corporeo, del sensibile-materiale.
Le conseguenze di questa asimmetria tra maschile e femminile influenza i processi psichici  delle/dei bambine /bambini durante la fase  di individuazione di sé e di costruzione della propria soggettività, con la conseguenza di un' autosvalutazione da parte delle bambine a cui corrisponde peraltro un’ altrettanto negativa sopravvalutazione di sé da parte dei bambini.
Una prova piccola, ma significativa, del fatto che l’asimmetria linguistica sottende una profonda asimmetria di valore si ha quando si provi a utilizzare un femminile generico per rappresentare anche i maschi, un uomo in un elenco qualsiasi non accetterebbe mai di essere designato al femminile, non solo questo risulterebbe impensabile, perché inconsueto, ma anche in qualche misura sminuente la sua identità.
Le bambine e le donne, quindi, nella propria vita dovranno spesso fare i conti non solo con gli eventuali vincoli sociali opposti alla propria piena realizzazione e autodeterminazione, ma anche e soprattutto con le proprie schiavitù interiori, indotte dalla fragilità dei sentimenti di autostima e di stima per le donne in generale, interiorizzata attraverso le rappresentazioni depositate nella lingua.
Questa svalorizzazione costituisce il primo gradino verso la strutturazione psichica della dipendenza dagli uomini.

Anche nelle lingue in cui appare superata la distinzione in generi grammaticali, ad esempio l’Inglese, si assiste a fenomeni di simbolizzazione al femminile o al maschile di cariche e professioni, quali ad esempio l’attribuzione “di ruolo femminile ai termini ‘nurse’, ‘secretary’, ‘prostitute’, ‘virgin’, e maschile a ‘surgeon’, ‘pilot’, ‘taxi driver’ “(Niedzwiecki., 1993).

E qui vorrei ricordare due concetti base degli studi linguistici: l’arbitrarietà del genere grammaticale e l’inerzia linguistica
Sul primo concetto osservo che il discorso può ritenersi valido per gli ‘oggetti’ inanimati e non persona, mentre per gli esseri animati –animali e umani- c’è da fare un discorso diverso, e qui rimando alla Violi.
Rispetto al secondo osservo che le lingue, come tutte/i possiamo constatare, si modificano, ma lentamente, senz’altro prima l’orale dello lo scritto, e non per rotture violente, bensì per trasformazioni -prima di tutto semantiche, ma anche su un più lungo periodo sintattiche e morfologiche-, successive con compresenza di novità e tradizione sovrapposte.
Infatti le strutture linguistiche e quelle sociali sono intrecciate, ma evolvono con velocità differenti tra loro; questo non significa che le lingue non si adattino ai nuovi contenuti sociali, ma le strutture linguistiche restano per così dire in arretrato rispetto a quelle sociali. Non c’è un sincronico rispecchiamento delle une nelle altre, così che rimangono documentate nelle lingue le fasi dell’evoluzione sociale e le sue rappresentazioni, anche quando queste ultime sono cambiate.
Altro scarto temporale interessa le modificazioni delle mentalità, queste mutano in un tempo ancora più lento..
Pensiamo al semplice fatto che, abituate/i ad una lunga consuetudine di firme maschili sui documenti pubblici, su scritti appartenenti a tipologie diverse: giornalistiche, saggistiche, letterarie, diplomatiche, quando vediamo per esteso solo i cognomi in fondo a un testo, automaticamente li riconduciamo a uomini; eppure siamo tutte/i consapevoli di quante donne scrivano oggi o abbiano scritto nel passato. 
 Damourette e Pichon  agli inizi del secolo scorso osservano come sia negativo perle donne, designarsi in quanto professionista al maschile; si chiedono infatti:
”Non si rendono conto [le donne] che, anche dal punto di vista sociale, conservando ostinatamente la forma maschile del titolo dopo il loro nome femminile e la loro appellazione femminile di Madame o di Mademoiselle, non fanno altro che proclamarsi loro stesse delle mostruosità, e che, in una società dove sarà del tutto normale vederle esercitare il mestiere,di avvocato, medico, scrittore, sarà naturale ci siano per le donne che si dedicano a tali mestieri, denominazioni femminili come già ci sono per le brodeuses e le cigarières?
In Francia erano più avanti sulla via dell’emancipazione femminile, comunque era una pia illusione la loro, perché le cose non sono state pacifiche neanche lì. Senza bisogno di ricordare Olympe des Gouges e la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, che aveva volto al femminile tutte le asserzioni di principio indicate al maschile, e venne ghigliottinata.
Ancora Rémy de Gourmont, il noto scrittore, afferma in un saggio del 1902: 
L’assenza del femminile nel dizionario ha come risultato l’assenza, nel codice, dei diritti femminili” Certamente l’emancipazione delle donne procede ed è proceduta, ma a quali prezzi, fatiche, con quali lotte.
Ma noi donne non siamo stupide, se molte di noi insistono, anzi pretendono di essere chiamate al maschile le ragioni non sono solo linguistiche, ma culturali , e in effetti il problema si è imposto a livello pubblico proprio nel caso dell’ingresso delle donne nelle professioni tradizionalmente maschili, visto che per quanto riguarda i mestieri e i lavori umili non c’è problema: Esistono regolarmente le forme contadino/a, pastore/a, cameriere/.
Norme e raccomandazioni non servono a modificare modi di pensare e conseguenti comportamenti collettivi e individuali, a meno di intervenire sull’organizzazione semantica profonda sottesa a - e riproposta da - quei modi di espressione considerati tutt’al più superficiali e superati nei fatti.
Il ridicolo o l’accusa di pignoleria attende spesso chi invita a modificare comportamenti oggettivamente, anche se involontariamente, sessisti.
Anche se i processi di modernizzazione della società e del mondo del lavoro modificano le condizioni degli uomini delle donne e le strutture del mercato, il valore simbolico rimane, per effetto dell’ inerzia delle mentalità.

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