martedì 15 marzo 2022

donne bambine guerra


La letteratura dell’Occidente comincia con la glorificazione di una guerra di rapina (Christa Wolf, Cassandra, Roma, e/o edizioni, 1984, p. 57).

Una foto glamour mostra una ragazzina con fucile e lecca lecca in attesa di difendere sé stessa e la sua casa dall'invasione dei nemici, contemporaneamente tutti i media mostrano a ripetizione donne che fuggono dal paese invaso, accompagnando in salvo (speriamo) bambini/e e vecchi/e/@,  due rappresentazioni di due modi di intendere il rapporto tra donne e guerre, apparentemente in contraddizione tra loro, in realtà complementari.

Fino a pochi decenni fa le donne "sparivano" dai  racconti dal campo di battaglia,  tranne qualche eccezione  storica, un unico modello di narrazione della guerra dominava fatto di ideali, eroismi, sacrifici. Quando si parlava di donne queste ultime erano rappresentate o come vittime di stupri e aggressioni nei paesi invasi, oppure affannate a districarsi nelle mille difficoltà per portare avanti la vita propria, e quelle che dipendono da loro, secondo il modello di  divisione sessuale del lavoro: agli uomini la gestione della politica, delle guerre, del lavoro, alle donne quella della cura.

Quando poi ci si riferiva a donne combattenti, una minoranza comunque, ad esempio nella Resistenza, si esaltavano le doti di coraggio, l’eroismo, lo spirito di sacrificio che le accomunavano agli uomini nei comportamenti consolidati secondo il paradigma maschile.

Di fronte ai cambiamenti politici e sociali verificatisi dalla metà del secolo scorso la narrazione è cambiata, da un lato in ragione della tecnologia militare, sempre più feroce nel colpire persone, animali e oggetti non "combattenti", che hanno la sfortuna di trovarsi fra i nemici del momento, dall'altro a causa del l'emancipazione, che ha aperto alle donne le porte degli eserciti, delle  armi della guerra .

Così abbiamo assistito a soldate animate dalla stessa violenza dei loro colleghi uomini, nei confronto di nemici ormai annichiliti. Più recentemente  ci siamo in molte/i/@ entusiasmate/i/@  alla vista di formazioni di battaglia tutti di donne, a difesa del proprio paese e dei propri valori, pur mantenendo nei gesti nell'aspetto tratti di grazia femminile tradizionale.

Come è stato in altri campi del sociale e del politico l'ingresso di donne nell'ambito militare e bellico non ne ha modificato i caratteri, ma ha adattato le donne a pratiche consolidate di guerra. 

Purtroppo non è possibile cambiare le forme della  guerra, che andrebbe espulsa dalle pratiche umane, infatti a differenza del conflitto, cuore della democrazia, la guerra si risolve con l'annullamento di uno dei contendenti e con l'immiserimento materiale e simbolico di tutte le popolazioni coinvolte.

Le attuali immagini martellanti di tutti i media nazionali e esteri sono un misto delle vecchie narrazioni delle donne come vittime,  impreziosite  dall'emancipazione, che  rende un padre orgoglioso della sua bambina!



[1]  (Christa Wolf, Cassandra, Roma, e/o edizioni, 1984, p. 57.

 

 



domenica 13 marzo 2022

la guerra vista da donne

 In questo tempo orribile di guerra riporto le riflessioni della scrittrice premio Nobel Svetlana Aleksievich, 

contenute nel mio saggio  "Donne e guerre. Visibilità/invisibilità delle donne nelle guerre"*

Aleksievich ha condotto per 20 anni interviste  alle donne che hanno partecipato alla II guerra mondiale, in tutti i reparti-aviazione, fanteria, genio, riportandone sempre sentimenti in disaccordo con il "Mito dellaVittoria", il suo libro fu rifiutato dagli editori perché dava un'immagine troppo brutta della guerra, dei suoi odori sgradevoli, dei sapori della violenza.

Solo dopo  la perestroika di Gorbaciov fu possibile pubblicarlo.

Svetlana Aleksievich fa un’operazione singolare, scrive un libro di narrazione di guerra femminile.

La ricerca è durata sette anni, il libro è stato pubblicato quasi vent'anni dopo la sua* stesura, al tempo della perestrojka di Gorbaciov, perché prima era censurato con il pretesto che la guerra raccontata era troppo spaventosa, troppi orrori e troppi dettagli naturalistici, in una parola non era la guerra giusta, da tramandare, bisognava invece parlare dei gesti eroici, non infangare tutto rimestando nel sudiciume e nella biancheria intima, in questo modo si sminuivano le donne, riducendole  a donne comuni, a femmine.

 "...Avverte Aleksievich

Scrivo un libro sulla guerra… Io che non ho mai amato leggere i libri di guerre benché per tutta la mia infanzia e adolescenza fossero le letture preferite di tutti…E non c'era niente di strano: non eravamo forse i figli della Vittoria? I figli dei vincitori? … c'erano già state migliaia di guerre, grandi e piccole, note meno note. E i libri che le avevano narrate erano ancora più numerosi. Ma… erano libri scritti da uomini e parlavano di uomini… Tutto quello che sapevamo sulla guerra c'era trasmesso da voci "maschili". Siamo tutti prigionieri di una rappresentazione "maschile" della guerra. … nelle narrazioni delle donne non c'è, o non c'è quasi mai, ciò che siamo abituati a sentire…i racconti femminili parlano d'altro. La guerra "femminile" ha i propri colori, odori. una sua interpretazione dei fatti ed estensione dei sentimenti. E anche parole sue.… E a soffrir non sono solo loro (le persone!), ma anche i campi, e gli uccelli, e gli alberi[1] .

Le intervistate sono donne che hanno prestato la loro opera nell’esercito sovietico in tutti i settori, sia sul fronte che nelle retrovie, ci sono voluti molta pazienza e molti incontri ripetuti perché le donne si liberassero nelle loro interviste del controllo maschile, sia interiorizzato che esplicito di mariti e compagni, che raccomandavano Racconta come ti ho insegnato. Senza lacrime e stupidaggini.

Così si va dalla autista di mezzi militari che ebbe tre corvè di punizione perché al ritorno da un’esercitazione aveva abbellito il suo fucile con un mazzo di violette, alla donna che ricorda di avere impiegato tre anni per riadattarsi alle scarpe e alle gonne, dopo aver passato tanto tempo con stivali e abbigliamento militare.

Riporto come esempio qualche brano di interviste:    

 È notte… Sono lì per svegliarmi e mi sembra di sentire qualcuno che piange accanto a me nell'oscurità…Sono io alla guerra… Stavamo ripiegando su tutto il fronte…. Superata Smolensk una donna mi regala un suo vestito, riesco a cambiarmi. Cammino sola… tra gli uomini. All'improvviso, le mie “cose"… Sono arrivate in anticipo, senz'altro a causa dell'agitazione, del tormento dell'umiliazione. Dove trovare ciò che mi serviva? Una vergogna! Come mi vergognavo! … Mi hanno preso prigioniera. Ma prima, proprio l'ultimo giorno, ho avuto per giunta le gambe fratturate, non potevo alzarmi dal mio giaciglio e mi sporcavo sotto[2] .


Ancora

…All'improvviso si è incendiata la parte di prora… Il fuoco è corso veloce per la tolda. È esploso il deposito delle munizioni… così i soldati si sono gettati in acqua per raggiungerla a nuoto [la riva] … e dalla riva hanno cominciato a crepitare le mitragliatrici nemiche. Io sapevo nuotare bene e volevo salvare almeno ferito… Sento che qualcuno accanto a me si dibatte, ora emerge dall'acqua, ora fonda di nuovo. Sono riuscita ad afferrarlo… Era freddo, scivoloso…Ho pensato fosse un ferito investito dallo spostamento d'aria dell'esplosione… Io stessa ero quasi svestita… avevo indosso la sola biancheria… Un buio impenetrabile…. E attorno solo gemiti e imprecazioni. In qualche modo ho raggiunto con lui la riva. … E proprio in quel momento un razzo illuminante è esploso in cielo e ho potuto rendermi conto che avevo abbracciato e portato a riva un grosso pesce ferito. Un grosso pesce della statura di un uomo. Uno storione beluga… Stava morendo. Mi sono accasciata accanto a lui maledicendo piangendo… Per gli inutili sforzi… Ma anche per quella sofferenza che accomuna tutti viventi[3]…

Un’altra testimonianza

Sono arrivata fino a Berlino con le truppe…Sono rientrata al mio villaggio con due ordini della Gloria e altre medaglie. Ci ho trascorso tre giorni e il quarto, di buon’ora, mamma mi ha fatto alzare intanto che tutti dormivano. “Figliola, ti ho preparato un fagottino. Va… va. Hai due sorelle minori che stanno crescendo. Chi le vorrà sposare? Tutti sanno te sei stata al fronte per quattro anni, in mezzo agli uomini” …Ma mi risparmi tutto questo, non mi tocchi l’anima. Scriva piuttosto, come tutti gli altri delle mie onorificenze[4].

Infine

Ero un’addetta alle mitragliatrici. Ne ho ammazzati talmente tanti… Dopo la guerra per molto tempo l'idea di avere dei bambini mi spaventava. Ne ho potuto avere solo quando mi sono un po' calmata: Dopo sette anni… Ma neanche adesso ho perdonato. E non ho intenzione di perdonare niente… Mi rallegravo per come erano conciati, da far pena solo a vederli: i piedi avvolti in stracci, e la testa pure… Li facevano sfilare attraverso il villaggio e imploravano: “Madre, dammi da manciare”… e mi stupivo al vedere le contadine che uscivano delle loro casupole per tender loro chi un pezzo di pane, chi una patata… I ragazzetti correvano lungo la colonna e gettavano sassi…E le donne piangevano…

Mi sembra di aver vissuto due vite: una maschile, l’altra femminile[5].

Per concludere

Sono un'insegnante di storia. Per quanto mi ricordo, il sussidiario di storia è stato riscritto tre volte. Io ho insegnato la storia ai bambini attenendomi al primo, al secondo e al terzo …Chieda a noi, finché siamo vivi. Non trascriva poi senza di noi. Continui a far domande. Sapesse com'è difficile uccidere una persona…Io lavoravo nella resistenza clandestina. Dopo sei mesi mi hanno affidato una missione: farmi assumere dai tedeschi come cameriera alla mensa ufficiali… Ero giovane, bella… Mi hanno presa. Avrei dovuto mettere del veleno nella pentola della zuppa e il giorno stesso raggiungere i partigiani. Ma mi ero ormai abituata a loro, e anche se erano nostri nemici quando li vedi ogni giorno e ti dicono Danke Shon... Danke Shon… diventa tutto più complicato… Uccidere può fare più paura che morire. Ho insegnato storia per tutta la vita …E non ho mai saputo come raccontare tutto questo. Con quali parole[6].

 

 

 

 


________________________________

[1] Svetlana Aleksievich, La Guerra, pp. 7-10.

[2] ibidem, pp.  28-29.

[3] ibidem, pp. 29-30.

[4] ibidem, p. 38

[5] ibidem, p. 39

[6] ibidem, p. 41 s

*il saggio è pubblicato nel libroL LA PSICOANALISI E LA SUA CAUSA NEL TEMPO DEL NON ASCOLTO, EDIZIONE BILINGUE ITALIANO - SPAGNOLO, a cura  di Eva Gerace, dicembre 2021

 













 




*LA PSICOANALISI E LA SUA CAUSA NEL TEMPO DEL NON ASCOLTO, a cura di Eva Gerace, Dicembre 2021EDIZIONE BILINGUE ITALIANO - SPAGNOLO

martedì 30 marzo 2021

Il Covid e la metafore della guerra

 Dal momento che usiamo le metafore per dare senso alle nostre esperienze, agite o patite, è il caso di soffermarsi sulla metafora della guerra, adottata da molte e molti per descrivere  il nostro rapporto con il virus che ci  angustia da sei mesi.

Ho finora letto e ascoltato con fastidio tutte le dichiarazioni in merito, pronunciate o scritte da persone comuni e da rappresentanti istituzionali, fino a quando il paragone mi è diventato insopportabile. 

A che cosa serve, infatti, presentarci la lotta al virus come una guerra -dove o si vince o si muore- se non a ingenerare in noi quel senso di ineluttabilità, di impotenza, quasi rassegnazione al peggio e nello stesso tempo a indurci a mobilitare energie psicofisiche per limitare il più possibile i danni che coglieranno tutte/i noi ? Chi può opporsi - a scapito della vita propria e altrui- ai provvedimenti che i e le responsabili politiche /ci utilizzano per preservarci dalla rovina? Chi può osare "mettere i bastoni tra le ruote" in un processo di faticosa ricostruzione dopo  una catastrofe come una guerra? 

Poi a poco a poco nei discorsi gli ambiti di emergenza si sono  moltiplicati, dal settore medico-sanitario a quello politico-sociale, proprio come avviene in guerra, e si si sono avanzate proposte "dolorose" ma "inevitabili" per far fronte al presente e al futuro. 

Lentamente, in mezzo a affanni personali e preoccupazioni più o meno motivate, viene il dubbio che questa metafora sottintenda direzioni e obiettivi ben chiari nella mente di chi ci guida e /o di chi intenda farlo.

Nulla più della guerra rimette a posto, ad esempio, il disordine sociale rispetto ai compiti e alle funzioni di di classe e di genere;  nulla chiama in causa la questione delle relazioni tra gli uomini e le donne come le guerre, guerreggiate, minacciate, mascherate, ignorate, nulla quindi, in ultima istanza, risulta più rassicurante per arginare indesiderati cambiamenti di mentalità, atteggiamenti, comportamenti e costumi.

Gli uomini -guerrieri- rischiano la vita per la difesa di valori, persone, beni, ideali civili e/o religiosi, riconquistando una centralità e un'autorità che sentono messa in crisi dai tentativi delle donne di sottrarsi alla permanente subordinazione sociale e culturale.

Le donne, in sostegno dei loro eroi, da curare nel fisico e nello spirito, trovano una pausa dalle quotidiane fatiche di conquistare un'autonomia di pensiero e azione, nonché dal senso di impotenza e dalla delusione che spesso gravano sulle spalle di chi intraprende un percorso esterno agli schemi di genere socialmente accettati.

Il destino femminile di cura e accudimento, interiorizzato nell'educazione di genere, ritorna a essere risorsa sociale, collettiva e individuale, fattore di esaltazioni e riconoscimenti altrimenti negati. 

Concorrono all'incantamento nei confronti della guerra anche le narrazioni costanti del nostro passato collettivo e individuale, che pongono l'accento soprattutto su eventi bellici, pur mostrandone gli orrori, ma presentandoli come ineliminabili, quasi fossero tratti di specie, oscurando il fatto che molti conflitti furono risolti attraverso mediazioni, dialoghi, scambio di pensieri e parole tra uomini, e anche tra donne.

la Storia insegnata, ricordata, trasmessa è prevalentemente storia di guerre, resistenze, lotte di oppressione e liberazione a cominciare dal fondamento della cultura occidentale, l’Iliade, osserva una scrittrice: " "La letteratura dell’Occidente comincia con la glorificazione di una guerra di rapina" (1),

Le moderne tecnologie hanno sovvertito molte delle immagini interiorizzate rispetto alle guerre conosciute fino a cinquant’anni fa,  hanno fatto  saltare la separazione tra chi combatteva, gli uomini, e chi subiva. donne, vecchi bambini, coinvolgendo tutti e tutte;  cinquant'anni di teorie e pratiche antagoniste a un sistema politico-sociale sempre più cinico e crudele verso persone e animali hanno modificato le  coscienze di uomini e donne, diffuso consapevolezze sulla storicità delle guerre, sulle responsabilità di chi le scatena sotterraneamente o apertamente, per fini individuali o collettivi di asservimento di popolazioni, di rapina di risorse, di dominio del vivente in ogni sua forma, eppure certe motivazioni di fondo non sono cambiate del tutto, i ruoli si sono solo modernizzati, non cambiati alle radici.

La guerra, reale o richiamata, continua  a produrre i suoi effetti sulle menti di donne e uomini.

Allora oggi ci si chiede: le donne che in maggioranza si sono dedicate, durante il lockdown,  a accudire figli e mariti, forse in futuro lasceranno il lavoro?

Le persone che hanno lavorato in remoto, senza più distinzioni di orario tra vita e lavoro, dovranno in qualche modo continuare a farlo, perché c'è stata la guerra e bisogna ricostruire?

Provvedimenti nel campo del lavoro, del welfare, che  da anni si tentava di far passare, scontrandosi con le dalle lotte e le resistenze di lavoratori e lavoratrici  saranno considerati inevitabili, perché si è qppena usciti da una guerra, peraltro non ancora conclusa?

Colgo certe avvisaglie, in discorsi ufficiali, poco tranquillizzanti.







[1] Christa Wolf, Premesse a Cassandra. Quattro lezioni su come nasce un racconto, Roma, edizioni e/o, 1984, p. 22.


martedì 29 dicembre 2020

Care amiche, compagne, conoscenti, femministe e non

Siamo alla fine di un anno definito più volte tragico, funesto, ma anche particolare e per qualche aspetto positivo per molte. Non sottovaluto i risvolti psicologici negativi che i comportamenti obbligati dalla pandemia ci hanno procurato, ma neppure mi abbandono allo sgomento, che colgo in alcune, causato dal timore di danni permanenti, specie per bambine/i e adolescenti.

Tuttavia non posso fare a meno di notare un fenomeno per me inquietante, forse l'isolamento sociale forzato sta producendo un inasprimento delle tendenze ampiamente diffuse a attaccare, in modo anche violento, chi non è della stessa opinione su questioni rilevanti. 

Avevo già avvertito, circa sei mesi fa, che il timore diffuso in molte di noi di perdere di vista la specificità delle lotte delle donne a causa della partecipazione a battaglie comuni non solo generava conflitti tra femministe, che sarebbe il meno, visto che dagli inizi del femminismo ci sono diversi modi di intendere e cercare di risolvere le questioni, ma rischiava di indebolire quello  che in molti casi potrebbe essere un terreno collettivo di lotte, pur nelle differenze contestuali di pratiche e teorie, lasciando campo libero alle interferenze di forze che presidiano fortemente il patriarcato, sottolineando e insistendo sulle divisioni tra femministe, 

Le resistenze patriarcali non sanno più come combattere la marea di movimento  di donne che sta avanzando in tutto il mondo, per questa ragione mi sembra un'inutile perdita di tempo  dedicare energie e intelligenze a combattere tra femministe senza cercare possibili obiettivi comuni, che secondo me esistono, al di là di suddivisioni e suggestioni politiche e ideologiche.

Eppure, forse perché quest'anno ho dedicato più tempo agli interventi in rete, noto un'acrimonia tra donne che non mi sembrava di avere mai colto nei miei 52 anni ormai  di femminismo -ho conosciuto il femminismo a 23 anni, ora ne ho 75-. 

Nella mia esperienza di pratiche, analisi, teorizzazioni femministe ho assistito a contrapposizioni,  proposte politiche contrastanti tra loro, critiche anche dure, tentativi di istituire normative femministe, alle quali d'altronde era facile sottrarsi, ma c'era una forma di rispetto, nei confronti delle donne che avevano opinioni diverse, il che permetteva un confronto comunque, un'attenzione a quanto veniva detto, scritto, e  quindi una scelta di adesione o di critica.

Oggi mi sembra che sia ritenuto più vantaggioso attaccare altre donne e affermare -credo prima di tutto  a se stesse- la propria purezza "femminista" piuttosto che interrogarsi  sulle contraddizioni e i tormenti che gli aspetti molteplici della nostra individualità ci pongono continuamente dinanzi. 

Forse questa sì  che è una conseguenza della fragilità indotta dalla pandemia in molte di noi, un'insicurezza di sé, delle proprie convinzioni, temuta così fortemente da esorcizzarla rifiutando ogni possibile confronto con opinioni diverse dalle proprie.   

 

giovedì 5 novembre 2020

patriarcato e neoliberismo

Dai commenti a caldo sulle elezioni USA emerge che la comunità latina, contrariamente alle aspettative, avrebbe votato Trump attratta dal suo machismo, esibito come un trofeo; tra le donne bianche, che già quattro anni fa votarono in massa per lui, sono aumentati i consensi nei suoi riguardi. Anche in questo caso le voci che parlavano di un allontanamento da parte soprattutto delle "casalinghe di provincia", .avevano indotto Trump a rivolgere loro un disperato appello, sono state smentite.

 Le donne polacche hanno riportato una vittoria sul loro governo che vuole abolire quasi  completamente il diritto di interruzione di gravidanza, una vittoria parziale, che potrebbe essere purtroppo invalidata dalla proclamazione di un prossimo lockdown, che impedirebbe le grandi manifestazioni che si susseguono da giorni. 

Questi eventi  rimandano al modello ancora egemone della relazione donne uomini nelle nostre società e fanno riflettere che, se non si mette mano a questo modello, cancellandolo ovunque  si presenti, se non si scende su questo terreno in tutti i settori della nostra comune esperienza di vita, di lavoro, di studio,  non è possibile alcun cambiamento reale. 

E' pur vero che nel caso dei consensi per Trump giocano anche come concause fattori di natura economica, molti e molte della seconda generazione di immigrati latini temono l'afflusso di migranti dai loro paesi d'origine, che potrebbero mettere a rischio le posizioni acquisite; il consenso delle donne bianche della provincia è spiegato con la paura di un aumento delle tasse, dal momento che sono in gran parte proprietarie di case, ma la dimensione economico-sociale di stampo neoliberista non baserebbe a spiegare certi comportamenti se non si alimentasse e non poggiasse sul modello patriarcale della relazione donne uomini.

Quando i maschi latini si identificano nel machismo del presidente, loro che appartengono a una comunità comunque sfruttata nel lavoro, spesso svilita, a parte i casi di cooptazione che sono una minoranza, dimostrano che l'unica risorsa per attingere forza di continuare e di resistere alle ingiustizie subite da un sistema sociale ingiusto è mantenere il comando e l'autorità sulle loro donne.

Quando le donne di una classe media, sempre più impoverita e marginalizzata dai luoghi di potere, accettano di perdere in prospettiva i diritti civili e sociali acquisiti nei decenni precedenti, per paura di sprofondare nella miseria, dimostrano di sottovalutare il rischio di consegnarsi inermi, senza possibilità di scampo, a un futuro di frustrazione e impotenza, quale quello sperimentato dalle donne che hanno lottato prima di loro per ottenere quei diritti.

Quando un regime autocrate in un momento così grave e rischioso come l'attuale si ostina a inimicarsi parte delle sue cittadine, in questa lotta aiutate anche da uomini, per togliere loro un diritto acquisito, mostra l'importanza che attribuisce a un'azione di "messa in riga"delle donne, che nella sua idea dovrebbe forse preludere a altre azioni di ridime.nsionamento di diritti libertà.

Forse è arrivato il momento di prendere in considerazione quale potenziale di cambiamento è a nostra disposizione oggi non solo per dare una spallata al modello patriarcale, ma anche per far crollare un sistema sociale, economico, culturale iniquo nei confronti di persone, animali, piante,  che su questo si basa

mercoledì 2 settembre 2020

Il Covid19 e la metafora della guerra

Dal momento che usiamo le metafore per dare senso alle nostre esperienze, agite o patite, è il caso di soffermarsi sulla metafora della guerra, adottata da molte e molti per descrivere  il nostro rapporto con il virus che ci  angustia da sei mesi.

Ho finora letto e ascoltato con fastidio tutte le dichiarazioni in merito, pronunciate o scritte da persone comuni e da rappresentanti istituzionali, fino a quando il paragone mi è diventato insopportabile. 

A che cosa serve, infatti, presentarci la lotta al virus come una guerra -dove o si vince o si muore- se non a ingenerare in noi quel senso di ineluttabilità, di impotenza, quasi rassegnazione al peggio e nello stesso tempo a indurci a mobilitare energie psicofisiche per limitare il più possibile i danni che coglieranno tutte/i noi ? Chi può opporsi - a scapito della vita propria e altrui- ai provvedimenti che i e le responsabili politiche /ci utilizzano per preservarci dalla rovina? Chi può osare "mettere i bastoni tra le ruote" in un processo di faticosa ricostruzione dopo  una catastrofe come una guerra? 

Poi a poco a poco nei discorsi gli ambiti di emergenza si sono  moltiplicati, dal settore medico-sanitario a quello politico-sociale, proprio come avviene in guerra, e si si sono avanzate proposte "dolorose" ma "inevitabili" per far fronte al presente e al futuro. 

Lentamente, in mezzo a affanni personali e preoccupazioni più o meno motivate, viene il dubbio che questa metafora sottintenda direzioni e obiettivi ben chiari nella mente di chi ci guida e /o di chi intenda farlo.

Nulla più della guerra rimette a posto, ad esempio, il disordine sociale rispetto ai compiti e alle funzioni di di classe e di genere;  nulla chiama in causa la questione delle relazioni tra gli uomini e le donne come le guerre, guerreggiate, minacciate, mascherate, ignorate, nulla quindi, in ultima istanza, risulta più rassicurante per arginare indesiderati cambiamenti di mentalità, atteggiamenti, comportamenti e costumi.

Gli uomini -guerrieri- rischiano la vita per la difesa di valori, persone, beni, ideali civili e/o religiosi, riconquistando una centralità e un'autorità che sentono messa in crisi dai tentativi delle donne di sottrarsi alla permanente subordinazione sociale e culturale.

Le donne, in sostegno dei loro eroi, da curare nel fisico e nello spirito, trovano una pausa dalle quotidiane fatiche di conquistare un'autonomia di pensiero e azione, nonché dal senso di impotenza e dalla delusione che spesso gravano sulle spalle di chi intraprende un percorso esterno agli schemi di genere socialmente accettati.

Il destino femminile di cura e accudimento, interiorizzato nell'educazione di genere, ritorna a essere risorsa sociale, collettiva e individuale, fattore di esaltazioni e riconoscimenti altrimenti negati. 

Concorrono all'incantamento nei confronti della guerra anche le narrazioni costanti del nostro passato collettivo e individuale, che pongono l'accento soprattutto su eventi bellici, pur mostrandone gli orrori, ma presentandoli come ineliminabili, quasi fossero tratti di specie, oscurando il fatto che molti conflitti furono risolti attraverso mediazioni, dialoghi, scambio di pensieri e parole tra uomini, e anche tra donne.

la Storia insegnata, ricordata, trasmessa è prevalentemente storia di guerre, resistenze, lotte di oppressione e liberazione a cominciare dal fondamento della cultura occidentale, l’Iliade, osserva una scrittrice: " "La letteratura dell’Occidente comincia con la glorificazione di una guerra di rapina" (1),

Le moderne tecnologie hanno sovvertito molte delle immagini interiorizzate rispetto alle guerre conosciute fino a cinquant’anni fa,  hanno fatto  saltare la separazione tra chi combatteva, gli uomini, e chi subiva. donne, vecchi bambini, coinvolgendo tutti e tutte;  cinquant'anni di teorie e pratiche antagoniste a un sistema politico-sociale sempre più cinico e crudele verso persone e animali hanno modificato le  coscienze di uomini e donne, diffuso consapevolezze sulla storicità delle guerre, sulle responsabilità di chi le scatena sotterraneamente o apertamente, per fini individuali o collettivi di asservimento di popolazioni, di rapina di risorse, di dominio del vivente in ogni sua forma, eppure certe motivazioni di fondo non sono cambiate del tutto, i ruoli si sono solo modernizzati, non cambiati alle radici.

La guerra, reale o richiamata, continua  a produrre i suoi effetti sulle menti di donne e uomini.

Allora oggi ci si chiede: le donne che in maggioranza si sono dedicate, durante il lockdown,  a accudire figli e mariti, forse in futuro lasceranno il lavoro?

Le persone che hanno lavorato in remoto, senza più distinzioni di orario tra vita e lavoro, dovranno in qualche modo continuare a farlo, perché c'è stata la guerra e bisogna ricostruire?

Provvedimenti nel campo del lavoro, del welfare, che  da anni si tentava di far passare, scontrandosi con le dalle lotte e le resistenze di lavoratori e lavoratrici  saranno considerati inevitabili, perché si è qppena usciti da una guerra, peraltro non ancora conclusa?

Colgo certe avvisaglie, in discorsi ufficiali, poco tranquillizzanti.







[1] Christa Wolf, Premesse a Cassandra. Quattro lezioni su come nasce un racconto, Roma, edizioni e/o, 1984, p. 22.


mercoledì 8 luglio 2020

Sulle polemiche tra femministe

Una delle preoccupazioni maggiori di molte che hanno maturato una coscienza femminista è quella di vedere, un'ennesima volta, il sessismo, con il suo corollario di violenze di vari livelli e gradi agite dagli uomini sulle donne,  riassorbito nelle lotte comuni contro il razzismo, lo sfruttamento di corpi e menti delle fasce impoverite delle popolazioni mondiali, il dispotismo culturale, sociale, religioso e politico su persone, animali e cose, ambiente.
Questo timore di perdere di vista la specificità delle lotte delle donne non solo genera conflitti tra femministe, che sarebbe il meno, visto che dagli inizi del femminismo ci sono diversi modi di intendere e cercare di risolvere le questioni, ma rischia di indebolire quello che in molti casi potrebbe essere un terreno collettivo di lotte, malgrado le differenze, lasciando campo libero alle interferenze di forze che presidiano fortemente il patriarcato, sottolineando e insistendo sulle divisioni tra femministe, proponendo alleanze strumentali con settori  del movimento, arrivando a cogliere e fare proprie le istanze più superficiali e modernizzatrici, pur di non intaccare le fondamenta sulle quali si fonda l'ordine patriarcale, la divisione sessuale del lavoro, e quindi lo scambio sessuo-economico tra donne e uomini.
Infatti, anche se poi le trasformazioni sociali modernizzano ruoli e funzioni -le donne studiano e lavorano sovente meglio degli uomini, spesso portano a casa soldi più degli uomini- la struttura di fondo e quindi la mentalità che fa del "femminile" la sfera della riproduzione come ambito prioritario di ogni donna, resta nel profondo di ogni donna e di ogni uomo come residuo antropologico, da riconoscere e combattere. 
Si spiegano in tal modo le stucchevoli esaltazioni del valore femminile nel sociale, simmetriche alle accuse di provocare  la sconvolgente fragilità degli uomini, nel tentativo di dare giustificazioni psicologiche individuali ai misfatti compiuti da uomini, che sarebbero annichiliti da problemi sociali, di salute, omettendo che si tratta di comportamenti legati alla struttura patriarcale della nostra civiltà, alla base dell'educazione di donne e uomini. da millenni.
Analogamente si spiega tentativo, in atto da qualche tempo, di mettere in guardia  contro "il femminismo", spesso accompagnato dal termine neo-liberale, che sarebbe oggettivamente alleato, quando non direttamente subordinato, al sistema neo-capitalistico, grazie a una sorta di emancipazionismo selvaggio, competitivo con gli uomini, in questo senso comincia ad affacciarsi la semplicistica equivalenza femminismo- maschilismo.
Il timore del quale ho parlato all'inizio non è di per sé infondato, l'abbiamo sperimentato in molte, ai tempi della militanza comune nelle lotte di liberazione dalla metà del Novecento in poi, quando ad esempio il conflitto capitale/lavoro era considerato prioritario e determinante la "condizione" delle donne, ma il concetto di patriarcato, con le analisi relative, nazionali e internazionali,  hanno aperto gli occhi a molte e molti di noi. 
Infatti in tutto il patrimonio di analisi, teorie e pratiche espresso dai movimenti di liberazione mondiali solo il femminismo è arrivato alla radice ultima di ogni prevaricazione e sfruttamento individuale e collettivo, nelle forme che conosciamo. 
Oggi si sono fatti passi avanti nella coscienza e nelle sensibilità di donne e uomini segnate/i da consapevolezze femministe, questo dovrebbe darci la fiducia di non ricadere in vecchi errori. 
Purtroppo con il moltiplicarsi dei femminicidi, a tutte le età, condizioni culturali e sociali compiuti dagli uomini, si manifesta sempre più la determinazione di oscurare (da parte di l'ha capito) e continuare a ignorarlo (e da parte di chi non l'ha ancora capito e non si sforza di capirlo) che non si tratta di "fallimenti individuali" di uomini fragili, annichiliti da problemi sociali, di salute..., ma di comportamenti legati alla struttura della nostra civiltà patriarcale. 
Le resistenze patriarcali non sanno più come combattere questa marea di movimento  di donne, pur nelle differenze contestuali di pratiche e teorie, che sta avanzando in tutto il mondo, per questa ragione mi sembra un'inutile perdita di tempo  dedicare energie e intelligenze a combattere tra femministe senza cercare  i possibili obiettivi comuni, che secondo me esistono, al di là di suddivisioni e suggestioni politiche e ideologiche.