lunedì 17 ottobre 2011

Pensandoci bene

Ho  sentito tre mattine fa alla radio l'intervista a una donna di sessant'anni che esprimeva tutto il disamore per "gli italiani" (dal che potrei dedurre che invece apprezza le italiane, ma so che non è così) colpevoli di aver ridotto il nostro paese in questo stato.
Mi ha colpito quando ha detto che fa tante cose nella vita, ma quello che le piace maggiormente fare è la nonna, la cosa che la rallegra di più .
Credo di non avere mai smesso di sentirmi figlia -visto che ho perso la madre presto-, sono stata madre conflittuale, e adesso nonna felice, nel senso che mi sembra che i/le nipoti  abbiano appunto  una funzione anti tristezza, questo allora deve essere un sentimento comune alle nonne e ai nonni, la mia unica nonna conosciuta mi ha lasciato quando ero ancora bambina.
Ora che ci penso non ho avuto, in età adulta, alcun modello né di madre né di nonna, zie poi non ho mai conosciute, tranne una, che viveva lontana e avrò visto tre o quattro volte in vita mia.
La mancanza di modelli non mi sembra mi abbia nuociuto più di tanto (o forse sì?), senz'altro non ho mai pensato che il mio destino sociale in vecchiaia sarebbe stato solo l'accudimento dei/delle nipoti, così come non  lo è stato la casalinghitutine.
Anzi ho fieramente combattuto questa dimensione come  priorità delle donne, destino "naturale" dell'essere femminile, che riesco ad accettare solo se è frutto di una scelta individuale, libera e consapevole e non frutto di costrizioni esterne o vincoli interiori.
Tralascio ogni considerazione di opportunità -per il sistema a base capitalistico-patriarcale- di avere a disposizione grandi quantità di donne sulle quali scaricare i costi e le fatiche della cura di persone, ambienti, oggetti.
Proprio qualche tempo fa una mia amica, fine analista della nostra società, mi chiedeva quanto la persistenza dei modelli di organizzazione del lavoro e della "soluzione privata" nei confronti della cura sia  da addebitarsi alla "generosa dedizione di noni e nonne".
Generosa dedizione di donne e uomini? 
E qui mi si apre la contraddizione: è vero che così si sostiene in qualche modo la divisione patriarcale capitalistica del lavoro, ma  il piacere e la gioia di farlo quanto contano?
Come se ne esce? 
Non certo secondo il modello principe di lotta operaia degli ultimi duecentocinquant'anni: sciopero, blocco della (ri)produzione, per non parlare del sabotaggio (di luddistica memoria), e di altre forme di lotta.
Negli anni Settanta i collettivi femministi padovani misero a punto analisi molto  sofisticate della cura, della funzione delle donne nel privato e nel sociale, dell'accumulazione capitalistica  basata sullo sfruttamento del ruolo femminile nelle società, ma la parola d'ordine: "sciopero del lavoro domestico" non passò, non solo per una questione di sentimento di "abnegazione" interiorizzato, ma perché le prime a essere colpite da questa forma di lotta erano proprio le donne, che nelle case ci vivevano, che mangiavano ciò che cucinavano, che riordinavano i luoghi nei quali vivevano insieme alle altre e agli altri.




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