lunedì 18 marzo 2013

Il vero pericolo: il mito dell'identità

Alla fine degli anni Sessanta, quando si formarono  in Italia i primi gruppi del neo-femminismo, i temi relativi alle identità (in prima istanza femminile) furono indagati, scomposti nei loro tratti essenziali, confrontati, disordinati, parallelamente a quanto le ricerche filosofiche e psicoanalitiche facevano nei propri ambiti disciplinari. 
L'obiettivo delle ricerche teoriche e delle pratiche politiche di molte donne era quello di destrutturare l'identità femminile tradizionale, analizzando i modelli sociali e culturali nei quali era stata tradizionalmente inscritta e criticandone la naturalizzazione. 
Negli anni Ottanta si verificò un cambiamento semantico, si preferì parlare di soggettività, la parola soggettività pone l'accento sul soggetto dei processi di individuazione, e quindi sulla differenze tra i vari soggetti, mentre il termine identità richiama in primo luogo il concetto di appartenenza -a un genere, una classe, un sesso, una collettività, una etnia, una lingua, un gruppo politico, una squadra, un esercito, una religione .....- insomma a un gruppo sociale omogeneo per certi tratti, individuati e promossi a elementi  determinanti l'inclusione o l'esclusione di altri/e che non condividono quei tratti.
Di qui la logica della contrapposizione noi/voi (loro), con le distorsioni in amico/nemico, buono/cattivo, e tutte le contrapposizioni escludenti che abbiamo sentito nella nostra vita.
Ora se è innegabile che  ci sono tratti comuni e differenze tra persone, è anche vero che ciascun* di noi appartiene durante la propria esistenza a un numero indefinibile di gruppi omogenei, e si comporta conseguentemente secondo la propria sensibilità e coscienza nelle scelte da compiere quando viene chiamata in causa una specifica appartenenza identitaria.
Eppure nello scorcio del secolo scorso e in questo primo decennio del nuovo abbiamo assistito a un riemergere spesso violento di logiche identitarie, a causa dei rivolgimenti sociali -migrazioni da paesi impoveriti a paesi arricchiti-, degenerazione  delle pratiche democratiche nei vari Stati, processi di impoverimento collettivo e arricchimento di pochi.
Quando ci si sente fragili, esposti a aggressioni di varia natura sempre in agguato, l'identità collettiva fa sentire meno sol*, assicura una solidarietà tra i e le componenti il gruppo di riferimento e fa sperare in una difesa collettiva. 
La contrapposizione tra identità collettive differenti tra loro costituisce inoltre un'arma di distrazione di massa dai veri conflitti che potrebbero sorgere in una collettività contro i reali detentori di privilegi e poteri, è così che si può leggere il grande spazio dato dai mezzi di informazione e di intrattenimento, in primo luogo la televisione, a spettacoli che contano su questi meccanismi identitari per scatenare conflitti nei confronti di falsi obiettivi.
Il risultato è sotto gli occhi di tutt*, e la modalità di comportamento ha pervaso anche i luoghi della partecipazione politica, come se questi meccanismi identitari costituissero l'unico mezzo di relazione  e confronto tra persone e gruppi.
Non frequento molto i talk show politici, perché mi annoio, però negli ultimi tempi ho frequentato molto più del solito i social network.
Accanto a numerosi vantaggi registrati, possibilità di informazione, scambio e confronto con molt*, conoscenza di fatti, eventi e   notizie non rintracciabili sugli altri mezzi di informazione, possibilità di mantenere dialoghi quasi in tempo reale con molte persone, ho notato il riproporsi, spesso inconsapevole, dei meccanismi identitari, dei quali ho scritto prima.
 Quello che più mi colpisce è che l'incontro con le fragilità e le vulnerabiltà (delle quali soffriamo tutt* a vari livelli e gradi per la precarietà di condizioni economiche, di età, di condizione sociale, di isolamento più o meno scelto) invece di costituire un momento di attenzione e compassione (nel senso etimologico del "patire insieme") a volte scatenano reazioni di scomposta aggressività, così come, a un altro livello,  scatenano guerre tra popoli.
Anche individualmente abbiamo introiettato comportamenti che agiamo anche senza che nessuno ce li imponga.
Ci comportiamo come i poveri polli di Renzo e così facendo, senza magari accorgercene, aggiungiamo un filo di infelicità alla vita nostra e degli/delle altr*.
Eppure molte di noi ricordano le analisi e le critiche formulate nei confronti delle identità attribuite, e con fatica siamo riuscite a metterle a tema e a governarle.
Molt* forse hanno dimenticato, altr* invece non hanno mai conosciuto per ragioni anagrafiche, altr* ancora trovano guadagni nel comportarsi così.


3 commenti:

  1. Il rapporto fra identità e soggettività io lo vedo come l'oscillazione di un pendolo, che se viene troppo bloccato da una parte si cristallizza in comportamenti stereotipati e alla lunga persino pericolosi. Mi verrebbe da dire che una soggettività è tanto più ricca quanto più riesce a sintetizzare e a comprendere nel proprio orizzonte istanze, tensioni ideali, interessi diversi ma in qualche modo convergenti. L'identià di solito tende a essere un riflesso di paura, oppure una legittima difesa, oppure ancora la necessaria compattezza che deve avere un soggetto nuovo. Il femminismo ci ha insegnato che l'identità è importante come lo fu l'identità di classe, ma che non basta. Il problema oggi è reso più complicato dalla frammentazione dei soggetti.

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  2. Ci fu un primo momento, circa un decennio, in cui il tema dell'identità fu privilegiato nel femminismo. I descrittori maggiori dei documenti di quel periodo risultano essere infatti identità di genere, identità sessuale, identità in transizione, identità tradizionale....
    Con l'aumento della pratica dell'autocoscienza, con l'affluire di ricerche, specie dall'area anglosassone, si cominciò a sentire stretta la categoria dell'identità, che rischiava appunto di appiattire le differenze tra donne in un tutto indistinto, come accade in un gruppo sociale, appunto classe, genere...
    Importanti furono libri come L'infinito singolare, ad esempio,e ricerche, che cominciarono a porre l'accento l'accento sulla soggettività, intesa nel senso che dici tu.

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  3. L'infinito singolare non o conosco e andrò a leggerlo.

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