giovedì 26 giugno 2014

Memorie di una femminista non pentita (IV puntata)

Non so se mi fa bene andare a risvegliare certi ricordi, da un lato è la prima volta che li analizzo senza l'incalzare di  una emozione contingente, in una dimensione più conoscitiva che compensatoria, come è la scrittura per me. Dall'altro però mi accorgo di procurarmi un'agitazione imprevista e un sotterraneo disorientamento, pericoloso per la mia fragilità emotiva di donna "anziana".
Non è neppure del tutto vero che abbia cominciato questa riflessione in una dimensione di atarassia -stato al quale aspiro da una vita, che non raggiungo mai, e nemmeno mi ci avvicino- in realtà sono spinta dal desiderio di capire una buona volta, arrivata a questo  punto della mia vita, qualcosa del mio rapporto con le donne, passato, presente e futuro. 
Non posso che partire da due eventi: il rapporto interrotto bruscamente con mia madre, l'esperienza di vita e di pensiero del femminismo.
Il nodo è apparso da subito stretto quando, dopo qualche tempo di pratica di autocoscienza condotta con il mio collettivo ininterrottamente per cinque anni (1973-1978), ho fatto un sogno ancora vivido nella mia memoria e alquanto terrorizzante, ho sognato mia madre, in figura di morta, che mi inseguiva in un corridoio con un pugnale in mano per colpirmi alle spalle.
Non ho mai fatto analisi o colloqui psicologici, non ho mai molto indagato la mia interiorità, neanche nell'età canonica dell'adolescenza, nella quale peraltro ho sofferto di un eccesso di fantasia compensativa, pari all'impotenza della quale mi sentivo preda. Un'attività fantastico-ossessiva  che mi faceva preferire l'isolamento alla dimensione collettiva amicale, eccesso che mi si è puntualmente ripresentato altre volte nel corso della vita in situazioni di forte frustrazione emotiva.
Gli unici momenti di riflessione sul mio mondo interiore sono stati quelli dell'autocoscienza, in quegli incontri confrontavamo il nostro vissuto nelle relazioni, nella sessualità, nel lavoro, nella rappresentazione del mondo e nella autorappresentazione, mai però, nel mio gruppo, scendevamo a considerare qualcosa di più profondo, sia perché, consapevoli della nostra inesperienza nel campo psicologico, temevamo i possibili disastri derivanti da arbitrarie interpretazioni, sia perché volevamo evitare momenti di "sfogo emotivo", pratica largamente agita nelle tradizionali situazioni amicali tra donne, consuetudine che serviva senz'altro a a sollevare il morale al momento, ma non incrementava per niente la conoscenza delle responsabilità personali, individuali e collettive nel mantenere l'ordine simbolico vigente e rischiava di incrementare il vittimismo comune, accettato come dato ineluttabile, smorzando ogni volontà di modificazione all'interno di sé e all'esterno.
La pratica dell'autocoscienza ha significato molto per me in termini di comprensione del mondo e di me, mi ha aiutato a uscire dalla dimensione claustrofobica nella quale ero stata -e mi ero- rinchiusa, ma la mancanza di abitudine ad una pacata autoriflessione (sostituita da fantasie compensative esasperate che hanno agito da barriera difensiva) ha inciso in qualche modo sulla deriva ideologica che a un certo punto del percorso ha preso il mio femminismo.

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