lunedì 23 giugno 2014

Memorie di una femminista non pentita (I puntata)

Negli anni Sessanta del '900 il benessere che cominciava a interessare anche l'Italia ha permesso a generazioni di ragazzi e soprattutto ragazze di origini modeste di studiare e progettare un futuro lavorativo migliore rispetto a quello dei propri genitori, bastavano l'ambizione e molto impegno nello studio.
Certo non era ancora diffusa come oggi la mentalità di fare sacrifici per investire sugli studi dei figli, specie delle figlie -ancora si sosteneva che il destino delle ragazze fosse di trovare un buon partito e sistemarsi, io stessa ho incontrato compagne all'Università di Milano che confessavano candidamente di non sapere se avrebbero concluso gli studi nel caso si fossero sposate- comunque anche se le condizioni economiche non permettevano di essere mantenute agli studi, si poteva contare su strumenti che aiutavano, borse di studio, presalario, e lavoretti saltuari assegnati dai professori agli/alle studenti volonterosi/e e con ottimi voti agli esami.
Iniziava il processo che avrebbe condotto alla scuola di massa di lì a un decennio, con i suoi lati positivi (accesso all'istruzione e quindi possibilità di promozione sociale di fasce della popolazione fino ad allora escluse) negativi (dequalificazione politicamente perseguita della scuola pubblica in Italia).
Alla fine del decennio gli avvenimenti politici che hanno scosso l'Occidente e non solo hanno mutato il quadro di riferimento e impresso un'accelerazione a trasformazioni culturali che  forse avrebbero richiesto un tempo maggiore per essere metabolizzate.
Per quanto riguarda il femminismo il primo esito del conflitto con l'identità femminile tradizionale fu la rottura dell'universo simbolico di riferimento, in altre parole con quello che era stato inteso fino ad allora come destino biologico-sociale inevitabile per una donna: realizzarsi prioritariamente nell'ambito familiare e semmai in quello lavorativo, a patto di assolvere la sua funzione "naturale" e quindi primaria, secondo quanto anche recita la nostra Costituzione all'articolo 37, comma I :
"La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione" .
Il neo-femminismo, come si chiamò per distinguerlo da movimenti storici precedenti, si caratterizzò per la messa in discussione dell'emancipazionismo, inteso come processo di promozione delle donne al mondo maschile del lavoro, delle professioni, della cultura e della politica, fatte salve le prerogative della "femminilità", necessarie al mantenimento dell'ordine sociale.  
Non che non ci siano stati casi di donne che si sono ribellate a questo destino, nel passato recente e remoto, ma si è sempre trattato appunto di casi individuali, spesso pagati con sofferenze e patimenti di varia natura, frutto di soggettività eccezionali per coraggio e determinazione.
In fondo la scelta di Franca Viola, che nel 1965 a soli diciassette anni, d'accordo con i familiari, rifiutò il matrimonio riparatore propostole dal fidanzato dopo il rapimento e lo stupro, scelta fatta individualmente, senza il conforto di reti sociali di consenso, prefigurava in qualche modo quello che di lì a pochi anni sarebbe stato teorizzato dai movimenti delle donne.
Ricordo ancora l'ammirazione che provai a quel tempo per il suo coraggio. 
Sembrano cose lontanissime, e infatti appartengono al secolo scorso.
Rompere con l'identità femminile tradizionale significava mettere in crisi la codificazione vigente dei ruoli sociali, assegnati in base al sesso, quindi la divisione del lavoro considerata naturale -quello di produzione agli uomini e quello di riproduzione alle donne- con lei tutta una serie di vantaggi che le donne si erano ritagliate nella situazione, così come di contropoteri reali e/o immaginari nell'ambito degli affetti familiari.
Mi riferisco a un senso di onnipotenza affettiva, esercitata prevalentemente su figli e figlie, che pareva compensare per molte donne l'insignificanza reale, sentimento quello dell'onnipotenza derivante dall'esaltazione della figura materna, condotta in accoppiata da religione e senso comune.
Esaltazione accentuata fino alla santificazione dal cattolicesimo, con la proposta della  madonna come modello (giustamente inarrivabile come tutti i modelli) e dalla cultura popolare della madre, centro degli affetti e unica detentrice dell'unità familiare, come documentato -e opportunamente criticato- in Rocco e i suoi fratelli (1960).
Mettere in discussione tutto questo però per alcune giovani donne non ha significato solo affacciarsi sulla scena pubblica senza più certezze e consolidate nicchie protettive, ma anche sovente mettere in crisi le scelte delle proprie madri, amate, odiate, ma comunque interiorizzate  come modello, da imitare, da combattere, da modificare, ma pur sempre modello.
Quelle più fortunate poterono aprire direttamente conflitti e discussioni, a volte con esiti positivi, pur dopo contrasti e lacerazioni.
Chi non aveva più la madre reale dovette accontentarsi di confliggere con la figura interiorizzata, rischiando anche cantonate, senza possibilità di smentita.
 Credo che questa sia stata una delle battaglie più dure per molte donne di vent'anni che parteciparono ai momenti di presa di coscienza, e in seguito di autocoscienza,  agli inizi degli anni Settanta.



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