martedì 29 dicembre 2015

Riflessione di fine anno

Anche se si sono moltiplicate attualmente le possibilità di realizzazione per le donne, al di fuori del discorso che le voleva prioritariamente interessate alla cura del mondo e degli affetti in nome dell'amore, anche se ormai tutte le professioni e le attività, fino a pochi decenni fa prerogativa quasi esclusiva degli uomini, vedono impegnate donne, che dimostrano di valere più di tanti uomini,  i modelli di identità maschili e femminili costruiti dal patriarcato in base alla divisione sessuale del lavoro sono ancor oggi prevalenti, sebbene modernizzati in linea con i tempi e pronti ad affiorare in certi discorsi e comportamenti, anche là dove non se ne sospettava l'esistenza,
La forza di inerzia prolunga certe posizioni mentali, anche quando vengono meno le condizioni materiali che l' hanno prodotto.
La dimensione del"materno", frutto della naturalizzazione (di aspetti storici, politici, sociali e culturali) presentata come il tratto costitutivo di una femminilità socialmente apprezzata e incoraggiata, resa nel corso del tempo obbligatoria, sia biologicamente che socialmente, è diventata certamente una costrizione per tutte le donne, ma nello stesso tempo una leva potente di contropotere nei confronti degli uomini, nel senso di rivendicazione di un primato e dei sentimenti nelle relazioni e di autorevolezza di giudizio nelle questioni legate appunto alla maternità e all' affettività in generale.
E' stata l'arma necessaria per la sopravvivenza di molte in una  società squilibrata rispetto al potere di donne e uomini, ma quasi cinquant'anni di riflessione femminista ne hanno messo in luce limiti e rischi, oltre che tirannie.
Senza l'azione di approfondimento, di scavo alla ricerca di immagini, fantasie, valori interiorizzati in merito  alle relazioni tra donne e tra donne e uomini; senza una continua attenzione alle forme e ai modi della complicità, spesso inconsapevole, con il sistema che intendiamo denunciare e modificare, non si riesce a uscire dal patriarcato.
La riflessione femminista ha fornito sia alle donne che agli uomini gli strumenti teorici e le pratiche per condurre queste operazioni, molto si è fatto collettivamente ai tempi dell'autocoscienza, oggi che questa pratica è stata abbandonata quasi ovunque, l'indagine  diventa individuale e forse più faticosa, ma le elaborazioni teoriche del femminismo degli ultimi cinquant'anni e le riflessioni condotte attualmente da molte donne forniscono indicazioni di ricerca, tratteggiano percorsi possibili.
Certo non basta che siano le donne, poche in realtà, a interrogarsi, dovrebbero farlo contestualmente anche gli uomini, ma questo è il nocciolo duro da sciogliere.
Eppure di fronte a realtà che chiamano in causa le basi della convivenza sociale, che si tratti di scambio sesso denaro, che si tratti di maternità surrogata, che riguardino la violenza esercitata dagli uomini sulle donne, in tutte le sue gradazioni di ferocia, si preferisce dare vita a polemiche, anche, ma non solo, tra donne, con dichiarazioni di principio, schieramenti pro o contro qualche soluzione improvvisata, invece che affrontare la fatica e a volte la sofferenza di analizzarsi e confrontarsi con gli strumenti di comunicazione che abbiamo oggi a disposizione.
Mentre riflettevo su questa situazione mi è venuta incontro un'osservazione di Elena Ferrante che in una sua intervista (1) afferma: "Intorno alle donne si continuano a tracciare perimetri, e parlo delle donne in generale. Niente di male se si trattasse di una autoregolamentazione: i limiti sono importanti. Il problema è che non solo i limiti sono fissati da altri, ma noi stesse, se non li rispettiamo, ci sentiamo in colpa. Lo sconfinamento maschile non comporta automaticamente un giudizio negativo, è in linea di massima segno di curiosità, di audacia. Lo sconfinamento femminile ancora oggi, specialmente se non si compie sotto la guida o il comando di uomini, disorienta: è perdita di femminilità, è eccesso, è perversione, è malattia." 

1 Liz Jobey, Intervista a Elena Ferrante: i miei libri e l'enigma della mia vera identità,
yhttp://mobile.ilsole24ore.com/solemobile/main/art/cultura/2015-12-22/intervista-elena-ferrante-miei-libri-e-enigma-mia-vera-identita-202748.shtml?uuid=ACXQKbyB&utm_source=dlvr.it&ut

mercoledì 25 novembre 2015

Memorie di una femminista non pentita XVII: riflessione sul romanzo Nascita e morte della massaia, di Paola Masino


Paola Masino scrisse dal 1938 al 1940 il romanzo Nascita e morte della massaia, che dopo una uscita a puntate su un periodico fu pubblicato nel 1945 . Il libro è suddiviso in nove capitoli, che costituiscono le tappe di un romanzo di formazione femminile. Quando uscì apparve dissacrante, tanto che per la pubblicazione sul giornale Masino dovette adattarsi ad alcune modifiche lessicali, perché non fossero identificati ruoli pubblici e il paese di svolgimento della storia.

Il romanzo riscosse consensi e successo nell’ambito della critica letteraria del tempo, ma non divenne certo un best seller.
Anche oggi, sebbene si sia in tempi, costumi e sensibilità mutate rispetto al momento della prima uscita, il libro e l’opera complessiva di Masino sono letture di nicchia, amatissime da pochi/e, ignorate dai e dalle più.
Forse perché la storia è una feroce demitizzazione del ruolo della massaia, considerato l'essenza naturale del femminile, attraverso il racconto della vita di una adolescente prima e poi giovane donna, vita costellata di delusioni, frustrazioni, e velleitarie ribellioni, destinate al fallimento.
E’ vero che oggi l’universo simbolico patriarcale è stato messo in crisi da più di quarant’anni di femminismo, ma per l’appunto molti tratti del discorso non sono stati eliminati, permangono nel fondo delle mentalità di uomini e donne, nelle strutture del lavoro e dell’organizzazione degli spazi vita, nelle istituzioni della cultura e della società; una scrittura così radicale dà ancora fastidio.
Uno dei meccanismi fondamentali adottati da Masino consiste nel rovesciamento in negativo, a volte parodico, di tutte le fantasie e le aspettative di una donna legate al ruolo femminile incoraggiato socialmente nelle donne e storicamente determinato di perfetta padrona di casa, di donna sollecita a soddisfare le attese di quanti le stanno attorno.
Un’ansia di perfezione ossessiva spinge la massaia a tentare di assolvere le varie funzioni legate al ruolo nel modo più accurato possibile, secondo il modello imparato osservando altre donne, ascoltando i loro discorsi.
Nei momenti nei quali è presa da una fanatica smania ogni impegno nelle cure domestiche è causa di comportamenti nevrotici, esasperati, come ad esempio la verifica della pulizia della casa, che la porta a leccare i pavimenti di marmo per accertarsene.
Altrettanto ossessivi sono i controlli per i possibili furti da parte dei e delle domestici/che: con grande energia la massaia passa in rassegna tutte le provviste, la biancheria, gli armadi, finché decide di liberarsi di chi ha rubato, per svolgere in prima persona tutte le mansioni.
Invano il maggiordomo osserva saggiamente che il farsi derubare entra nella saggezza della padrona di casa[1], la massaia, assumendo plasticamente la posa della Dea della Giustizia, decide di liberarsi di tutta la servitù, riservando eroicamente a sé tutte le funzioni svolte fino ad allora dal personale domestico.
A questo punto del suo percorso così è descritta la nostra eroina:
la massaia, se pur serbava ancora una certa intelligenza, era tuttavia entrata nella pericolosa via dell’amore della propria angoscia, cristallizzando il mondo intorno ai servi. […] Nella massaia la cristallizzazione avveniva con un moto blando che le dava l’apparenza di quella provvida ebetudine, peculiare di quasi tutte le donne e tanto celebrata dagli uomini [2].
In lei è un alternarsi continuo di senso di onnipotenza per aver trovata la mia via, la via giusta di ogni donna [3] e di dolorosa presa d’atto della insignificanza della realtà che vive.
Neanche le fughe improvvise in posti sconosciuti, dalle quali però tornerà sempre indietro, neppure i tentativi di scrivere memorie, o le ribellioni manifestate apertamente, la salvano dalla monotonia e dalla frustrazione, soprattutto dalla mancanza di senso della vita, che la consumano fino alla morte.
Non c’è redenzione, non c’è speranza, nel romanzo di Masino, solo una rappresentazione senza indulgenze di una situazione che pareva inevitabile per una donna.
La storia della massaia dunque è la storia di una sconfitta, l’impresa eroica[4] da lei tentata di restare fedele a se stessa mentre obbedisce in qualche modo alle attese sociali, prima di tutto della madre e poi di tutti quelli che la circonderanno nel corso degli anni, pur se condotta con determinazione, coraggio e intelligenza, non le riuscirà.
Neppure i sogni compensano la massaia della progressiva disperazione nella quale sprofonda nel corso degli anni, regolarmente i sogni si trasformano in incubi, che la lasciano spossata e inerte.
Non ci sarà riscatto finale, non ci sarà una ricomposizione delle parti disperse di sé, dopo le varie peripezie, le imprese, [5] in un equilibrio riconquistato, ma una resa totale e completa ai compiti previsti dalla sua funzione, che alla fine la divora; neanche la morte interromperà il meccanismo dal momento che anche da morta sarà sorpresa a ripetere i gesti a lei imposti dal ruolo forzatamente assunto, a pulire regolarmente la propria tomba
Né la protagonista, né i vari personaggi della storia hanno nomi, quasi assenti descrizioni psichiche o fisiche, caratterizzazioni particolari, i personaggi del racconto rappresentano piuttosto dei tipi, il che fa assumere spesso alla narrazione la dimensione di parabola.
Il primo capitolo del romanzo si apre con queste parole:
Da bambina la massaia era polverosa e sonnolenta. La madre s’era dimenticata di educarla e ora gliene serbava rancore. […] La bambina taceva, piena di cruccio contro se stessa, destinata a tutti i costi a far morire sua madre di crepacuore. […] Tutta compresa nell’idea di non potere ormai che perfezionarsi almeno in quella triste parte di figlia assassina [6].
Anche per lei tutto inizia con l’allontanamento forzato dal luogo della nascita, l’inizio di ogni avventura etica e/o fiabesca, ma invece del nido accogliente e rassicurante ci troviamo davanti a un baule, che non ci appare poi molto confortevole, anche se è presentato come adatto- o adattato?- alla bambina, a un ambiente familiare indifferente, a una madre cieca di fronte ai desideri e alle necessità della figlia, che la opprime con ricatti affettivi accusandola di essere la potenziale causa della sua morte, perché non si piega al destino sociale femminile del matrimonio.
Il suo rifugio è un utero non edenico, secondo le rappresentazioni consuete:
Distesa in un baule che le fungeva da armadio, letto, credenza, tavola e stanza, pieno di brandelli di coperte, di tozzi di pane, libri e di relitti di funerali […] la bambina andava quotidianamente catalogando pensieri di morte. Pensava e si mangiava le unghie; finite le unghie e i pensieri masticava tozzi di pane e sfogliava libri in cerca di altro nutrimento. Su lei cadeva la polvere dei soffitti, le si ammucchiava in forfora sul capo, molliche e residui di carte le entravano sotto le unghie, muschio nasceva tra le fessure del baule; e le coperte, nelle quali a volta a volta si avvolgeva per provare le parti del re che sarà decapitato o dell’assassino fatale, erano impastate di muffa e tele di ragni. Dal baule esalava un odore di selve e rovine entro cui la bambina si formava. […] non si era resa conto che se il suo corpo era carne come quella esposta sui banchi dei mercati o appesa nei negozi dei macellai, lei tuttavia vi portava nascosti un pensiero e un sesso che erano la sua ragione. Ma la bambina ignorava il pensiero, vi stava dentro […] Stava quatta, ignara di se medesima, un vero grumo di pensiero senza la minima intelligenza. […] Viveva ormai di quel sesso ignoto che la intontiva. Nasceva da lei un odore forte che la portava a cantare salmi, quasi fosse avvolta in un incenso, cantava il proprio immaginare e andava allenandosi a un sistema raffinatissimo di sensazioni che le preparavano sconsolate delusioni: appena ne sarà uscita, come le accadde più tardi, la spingeranno a un’antica idiozia. [7]
In queste poche frasi è tratteggiato l’intero percorso di vita di una donna che per quanto intelligente, curiosa, ricca di empatia e attenzione al mondo umano, animale e inanimato, non riesce a sottrarsi al destino di donna, quasi non abbia ancora gli strumenti simbolici per sovvertire l’ordine del discorso vigente.
Ma la sua vicenda ci avverte di tutta la barbarie della quale questo ordine è intessuto.
Non ci sono per la massaia gli aiutanti magici delle fiabe, gli uomini della sua vita, anche se miti e disponibili, il padre, l’anziano marito, il giovane bruno, non sono per nulla in grado di aiutarla, tranne che farle qualche carezza affettuosa.
Con le donne non va meglio, o sono superficiali, maschere imprigionate nei ruoli sociali, o sono mamme tutte assorbite dalla dedizione ai figli, incapaci di uno sguardo più ampio.
Anche la fedele domestica Zefirina, uno dei due personaggi chiamati per nome in tutto il romanzo, l'altro è il maggiordomo, rifiuta la relazione amicale paritaria che la massaia le offre, perché la parità propostale è a parole, le fa notare infatti che i soldi li ha la massaia, e in nome della dignità del proprio lavoro.
Neppure con la ragazza selvaggia, il suo alterego di cui si prende cura per un periodo, riesce a instaurare una relazione, perché è troppo chiusa nel rancore e nella recriminazione per aprirsi a un rapporto.
La funzione principale attribuita al femminile, la funzione materna, è analizzata nei suoi effetti perversi:
Non le si presentava ormai che una possibilità esterna e avvolgente: fare del suo spirito cupola, abbraccio, alveo a quelle cose differentemente materiate […] Una donna nasce con un corpo simile al campo, che deve essere seminato e procreare; se rimane sterile cercherà giustificazione di se stessa nel distribuire la propria pietà su quanto il mondo va di ora in ora partorendo. Insegnerà la fede agli animali di che poi sarà nutrita la famiglia, allatterà i tronchi e i sassi di che sarà costituita la casa, farà da soglia agli uomini che dalla casa partiranno per disperdere la famiglia nei paesi del mondo, come il vento i semi, a creare nuove popolazioni. Fu questo il punto, irreale più del geometrico, donde mosse la donna per tracciare la linea della propria vita [8].

Credo che sia questa una delle ragioni dello scarso successo di pubblico registrato anche oggi, quando si sono aperti molti spazi rispetto agli anni Trenta in Italia alle donne. Forse il cambiamento dei costumi, che pure è stato notevole, non è stato così radicale, come si tende a credere, e il tono iconoclasta della scrittura di Masino colpisce ancora, specie le donne, principalmente nella sua cruda messa a tema della maternità e dell’essenza della femminilità, ancora rivestite di grande consenso sociale.
Ogni volta che rileggo le parole di Masino, scritte settant'anni fa, resto colpita dalla sua lucidità nel delineare gli ostacoli interiori, oltre che esterni, a intraprendere davvero la faticosa strada dell'autonomia di giudizio e di pratiche, rinunciando alle sicurezze e alle lusinghe che la società ci offre, in cambio di una nostra sottomissione al discorso patriarcale, che a parole in molte vorremmo abolire.
Oggi però a differenza della massaia, abbiamo gli strumenti simbolici per sottrarci al destino sociale previsto per noi dall'ordine patriarcale, strumenti messi a punto in cinquant'anni di pensiero e pratiche femministe.
Allora c'era difficoltà perfino ad elaborare un proprio progetto di vita autonomo dalle pretese sociali, oggi ci troviamo a misurare il mutamento di prospettive, per molte, se non ancora per tutte le donne del mondo.
Eppure alcuni tratti radicati nel nostro immaginario sono ancora difficili da estirpare, a cominciare dall'illusione di essere naturali portatrici di una visione irenica e accogliente nei confronti di tutte e tutti.
Non è poi così singolare che l'autrice non sia stata presa come bandiera del femminismo, senza contare il valore letterario.
Troppo scomoda per un femminismo a parole: paritario, che esalta il "valore aggiunto donna", subordinato all'approvazione degli uomini, dei partiti, compiacente comunque con l'ordine che patriarcale modernizzato.


Note

*Rielaborazione del testo appena pubblicato su "OverLeft. Rivista di culture a sinistra", dal titolo Scritture antipatiche 5. L’eroica idiozia di una massaia. Nascita e morte della massaia di Paola Masino, www.overleft.it
[1] Paola Masino, Nascita e morte della massaia, Milano, Isbn edizioni, 2009, p. 196. Le citazioni da Masino sono tratte da questa edizione
[2] idem, p.209-210
[3] idem, p.199
[4] Laura Fortini, Un altro epos. Scrittrici del Novecento italiano, in Paola Bono e Bia Saracini (a cura di) Epiche. Altre imprese, altre narrazioni, Roma, Jacobelli Editore, 2014
[5] Fortini, Un altro epos, cit
[6] Masino, cit. p. 5
[7] idem, pp. 5-6-7
[8] idem, p.55

lunedì 16 novembre 2015

Noterelle autunnali sul fanatismo

Da giorni volevo scrivere qualcosa sul fanatismo, una piega della psiche, una disposizione interna che autorizza a usare la violenza, a vari livelli, sino agli estremi, per convincere gli altri di una propria idea, eletta a verità assoluta e inconfutabile, il tutto indipendentemente dalla natura dell'ideale proposto, sia religioso, politico, civile. 
L'unica parola che può valersi  della natura di verità assoluta è quella di dio, ogni altra parola umana è per l'appunto confutabile.
La violenza fanatica di chi si richiama alla parola divina esclude il conflitto, dove c'è conflitto, anche aspro, non c'è guerra, nel senso proprio di volontà di annientamento/annichilimento dell'avversario, proprio perché i contendenti si riconoscono un piano di parità e rispetto reciproco.
Ma con dio non si può discutere, bisogna solo obbedire.
L'esito migliore di un conflitto è l'accordo/mediazione, il peggiore è lo stallo, non la morte del nemico.
Io in realtà parlando di fanatismo mi riferivo agli assalti verbali  da parte di vegetariani/e e vegani/e a chi ancora mangia carne animale; le ragioni etiche, economiche, ecologiche portate in favore di queste scelte sono tutte valide -a partire dal rispetto verso gli animali non umani, condannati a torture inenarrabili nei luoghi di allevamento e uccisione, nonché delle trasformazioni irreversibili di ambienti umani e territoriali per le monoculture introdotte dalle multinazionali alimentari- ma confrontare le questioni di principio con la realtà materiale delle persone è quanto di più saggio e illuminato ci sia, a mio parere, altrimenti si rischia di ottenere proprio l'effetto contrario: di fronte a un attacco ci si difende, con tutti i mezzi disponibili, dinamiche proprie delle guerre.
Purtroppo, mentre stavo per dedicarmi finalmente al mio blog con queste noterelle è avvenuto l'attentato di Parigi, che mi ha chiuso il cuore in un blocco di ghiaccio, non solo per le vittime, per l'orrore scatenato, che è umanissimo purtroppo, solo noi umani siamo capaci di torture e barbarie, ma per tutto il contorno di commenti, chiacchiere, distinguo tra persone degne di lutto e pianto, a Parigi, e quelle che non meritano neanche una nota di cordoglio, a volte neppure un titolo in prima pagina, tutte le popolazioni dell'Africa e del Medio Oriente da decenni vittime di bombardamenti, mirati e no.
Adesso c'è stato anche  il bombardamento, che sembra piuttosto una rappresaglia di Stato,  di una città per estirpare l'Isis, struttura che avrà già messo in salvo i dirigenti criminali, lasciando morire sotto le bombe la piccola manovalanza e la cittadinanza inerme.
Tutti e tutte sappiamo da dove venga l'Isis, da chi sia stato o sia ancora armato, cosa si potrebbe fare per togliergli i mezzi, le armi...
Ma la geopolitica da un lato e il profitto che viene dalla vendita di armi dall'altro ostacolano  una seria e meditata possibilità di intervento per smantellare questa mortifera congrega.
Quanto poi c'entri il fanatismo religioso anche qui c'è probabilmente da distinguere tra chi è disperato per il malessere che vive, psicologico, sociale, affettivo magari, e vede un'unica possibilità di salvezza in un premio futuro -il cristianesimo si regge da secoli su questa promessa di felicità eterna a chi è vittima di abusi e soprusi- e chi consapevolmente utilizza questo strumento per far commettere crimini a persone deboli, frustrate, o magari psicolabili, imbottite probabilmente di sostanze allucinatorie.
Ubriacavano e drogavano i soldati prima degli attacchi anche nelle guerre.
Io non so se veramente quanto c'entri la convinzione religiosa, può darsi che per qualcuno, parlo dei terroristi, ma ormai anche qualche terrorista donna,  sì, mentre per altri/e giocheranno altri elementi oggettivi e soggettivi.
Vedendo il pianto disperato di un ragazzo molto giovane, prima di un attacco, mi è venuto in mente che alcuni possano essere anche costretti, non so con minacce e ricatti.
Cerco scrivendo così di tenere a bada lo sconforto, ma sono anche sempre più convinta che per un periodo  occorrerebbe che si facesse propria da parte di ciascuno/a l'esortazione di Karl Kraus:
"Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia", in attesa di trovare qualche strada comune per uscire da questa situazione di guerra più o meno strisciante.





mercoledì 20 maggio 2015

Memorie di una femminista non pentita X, Perché non i fiori. Un' autocoscienza figurata


Nel momento in cui abbiamo scelto di fare autocoscienza nel nostro sottogruppo di Lotta femminista di Milano  -eravamo in dodici, di diversa età, estrazione sociale e impegno professionale- separatismo significava la possibilità di analizzare liberamente temi intimi quali la sessualità, il rapporto con il nostro corpo, le relazioni con uomini e donne, cose delle quali mai saremmo riuscite a parlare in presenza di uomini.
Ma non c'erano solo le ragioni di riservatezza, avevamo incontrato nella nostra esperienza politica precedente il maschilismo di sinistra, nelle sue varie articolazioni, dalle più benevole e protettive alle più intolleranti, se da un lato non sarebbe stato più possibile sottoporsi al controllo politico che molti avrebbero esercitato nelle riunioni, dall'altro eravamo consapevoli del fatto che la presenza di uomini, anche in minoranza e muti, avrebbe fatto scattare automaticamente in noi il bisogno di approvazione.
E' stato difficile fare accettare questo aspetto a molti compagni di gruppi extraparlamentari, e infatti si sono verificati, non a Milano, episodi di violenza di compagni in contesti di riunioni di donne.
Qualche tempo dopo, nelle riunioni di autocoscienza ci siamo rese conto che quel famoso occhio giudicante nei nostri confronti, con lo stesso corredo di criteri di valutazione, lo sguardo maschile sul mondo e sulle relazioni, l’avevamo interiorizzato nelle nostre esperienze di vita, di lavoro e di politica, e lo esercitavamo inconsapevolmente tra di noi nella riproposizione dei ruoli, chi era più politica e razionale continuava a utilizzare schemi e parole consuete, tendeva a prendere la parola con frequenza, mostrando a volte insofferenza verso chi non concordava, chi era meno abituata a parlare in pubblico, stava in silenzio, ma un silenzio pesante e colpevolizzante.
Di fronte a questo ostacolo ci siamo proposte di aggirarlo affiancando allo strumento della parola il disegno.
Nelle riunioni di autocoscienza parlavamo contemporaneamente disegnando.
Il frutto della riflessione è contenuto in un libro, pubblicato nel 1975, nel quale noi autrici risultiamo tutte nominate rigorosamente solo con il nome di battesimo, dal titolo Perché non i fiori, Milano, La salamandra.
I nostri nomi: Franca, Ombretta, Laura G., Giulia, Laura P., Silvana, Carla, Eliana, Adriana, Luisella, Nuccia, Paola. 
In quell'occasione ci siamo chiamate Gruppo per l'espressione della donna.
Il titolo del libro e del gruppo non sono casuali, una donna dell'altro sottogruppo di Lotta femminista in risposta alla mia illustrazione del nostro lavoro mi aveva invitato in modo un po' sprezzante a andare in giro per la città a dipingere fiorellini sui muri, per sottolineare l'irrilevanza della nostra iniziativa, in seguito a questo colloquio proposi il titolo Perché non i fiori.
L'introduzione chiarisce le nostre intenzioni, ricorrere a uno strumento meno logorato del linguaggio, capace di far emergere quanto rimane di non detto nei discorsi, spesso dominati da preoccupazioni di natura logico-razionale, alla ricerca di una modalità nuova di comunicazione tra donne.
Due di noi avevano a che fare con professioni artistiche, una era pittrice-scultrice, l'altra fotografa, poi insegnanti, impiegate, una industriale-manager, un'attrice.
Il libro è diviso in otto capitoli, all'inizio di ogni capitolo abbiamo riportato delle brevi riflessioni come chiavi di lettura, poi i disegni, non firmati, che illustrano quanto ci eravamo scambiate nelle riunioni.
Infanzia è il primo capitolo, seguito da lavoro, sessualità, verginità, matrimonio, bellezza, età, femminismo, che è il capitolo conclusivo e segna un approdo, dopo un percorso costituito da storie individuali, segnate da tratti comuni di disagio, ribellioni, resistenze.
Nella prefazione si presenta il lavoro come un modo nuovo di fare politica tra donne.
Intanto questo lavoro di autocoscienza provocava conseguenze nella relazione con mio marito, che per la sua storia parentale e per le sue scelte non corrispondeva al modello di maschio del quale parlavano le mie compagne nelle riunioni di autocoscienza, se questo da un lato mi facilitava la vita, perché condividevamo completamente anche il lavoro di cura, dall'altro mi poneva il problema di temere una sudditanza psicologica nei suoi confronti che mi impedisse di cogliere fino in fondo la mia mancanza di autonomia da lui.
Dibattendomi in questo dilemma, mi stavo avviando verso un bagno di ideologia, che avrebbe provocato alcune conseguenze di lì a poco nel mio nucleo familiare.

giovedì 30 aprile 2015

Memorie di una femminista non pentita (XV)

Mi accorgo di avere saltato la puntata numero 15, che pubblico ora.
Il fatto che proceda di volta in volta mi comporta ripetizioni, ma si sa che 'repetita iuvant', anche se rallentano un po' a lettura.
Paolo e io avevamo fantasticato di avere tre o quattro figli, ma quando ti arriva il bambino in carne e ossa, non solo immaginato, non sei mai abbastanza preparata.
In mancanza di una rete parentale di appoggio, e di risorse economiche adeguate per procurarsi aiuti, i primi problemi che ti si presentano sono legati legati all'esigenza di conciliare lavoro di cura e lavoro fuori casa, da parte di entrambi. 
Da un certo punto di vista siamo stati genitori privilegiati per il nostro lavoro di insegnanti, una parte del quale potevamo svolgere a casa, ma nei primi anni Settanta le nostre cattedre erano fuori Milano, anche abbastanza distanti, alcune difficili da raggiungere con i mezzi, e gli orari di inizio lezioni imponevano di uscire di casa in ore antelucane.
Ci siamo organizzati differenziando tra noi le uscite e le entrate nelle scuole rispettive e alternando i giorni liberi.
Abbiamo anche potuto contare inizialmente su una rete solidale di compagne e compagni single, che a turno venivano a tenerci il bambino in certe mattine, e su studenti che si prestavano al babysitteraggio a costi contenuti.
Per qualche mese il lavoro e  la maternità assorbirono il mio tempo e i miei pensieri. 
Il Collettivo politico milanese si esaurì allora, le compagne si distribuirono nei numerosi gruppi che stavano nascendo.
Alla fine del 1972 inizi '73 fui invitata da  Maddalena Gasparini a partecipare a un nuovo Gruppo che si stava costituendo, Lotta Femminista milanese; questo collettivo ben presto  si differenziò dagli altri gruppi di Padova, Ferrara e Venezia per la pratica dell'autocoscienza, che affiancava agli interventi nei mercati, negli ospedali, nelle fabbriche, nelle scuole, e nei luoghi di lotta delle donne, si costituirono così due sottogruppi più piccoli di autocoscienza.
Come ho già ricordato questa scelta provocò screzi e critiche da parte delle compagne veneto-emiliane, che non vedevano di buon occhio questo sprofondare nell'analisi personale del vissuto, a discapito delle analisi e teorizzazioni economico-sociali.
Altrettante diffidenze e critiche ci erano rivolte da parte delle altre variegate componenti del femminismo milanese, che ci accusavano di restare impigliate in un'ottica economicista, di impostazione marxiana, e che soprattutto rifiutavano il discorso del salario al lavoro domestico, temendo che si risolvesse nella istituzionalizzazione del ruolo di casalinghe per le donne
Comunque la pratica dell'autocoscienza è stata fondamentale per tutte noi, e non solo nel momento in cui ha avuto luogo, perché ci ha fatto acquisire un metodo di indagine su noi stesse, sui rapporti con le altre donne, con gli uomini, sulle rappresentazioni del mondo interiorizzate, che ci è stato impossibile ignorare nella nostra vita successiva, anche se a momenti ne abbiamo sentito la "pesantezza", tanto che a volte ci siamo dette quando mai abbiamo incontrato il femminismo, che ci ha complicato la vita.
Ho notato nel corso del tempo le differenze di comportamento nelle relazioni con il mondo tra le "femministe" che non hanno mai praticato autocoscienza, rispetto a noi, che l'abbiamo praticata almeno per quattro o cinque anni,  parlo ovviamente delle mie coetanee. 
Chi non ha fatto i conti con le immagini di genere interiorizzate, malgrado le migliori intenzioni, incorre sovente nel rischio di esercitare più o meno consapevolmente comportamenti ascrivibili al modo "maschile", specie quando si trova a ricoprire posti di potere e responsabilità, grandi e piccole, nella cultura, nel sociale, nella politica.
In quegli anni insegnavo in un Istituto professionale fuori Milano, gestito con criteri autoritari dal Preside; insieme a un paio di colleghi e a una collega di inglese diedi vita a una sezione sindacale CGIL, l'unica struttura ala quale sia stata mai iscritta, peraltro per un periodo breve, il che comportava riunioni periodiche, pomeridiane e serali, per stilare documenti, organizzare momenti di lotta. 
Ricordo che in due o tre aderimmo al primo sciopero degli scrutini proclamato, noi eravamo tutt* a tempo indeterminato, mentre c'erano ancora supplenti annuali, e fummo tutt* sostituiti dal Preside, che lesse i voti dai nostri registri.
Parlo degli anni che preparavano la riforma scolastica che introdusse gli organi collegiali nella scuola, non appena fu introdotta la riforma alle riunioni sindacali si aggiunsero anche le riunioni dei Consigli di classe e del Consiglio di Istituto, del quale fui subito nominata segretaria, e per forza, ero insegnante di lettere tra una marea di ingegneri, avvocati, chimici.
Malgrado l'aggravio di lavoro, non compensato da aumenti di stipendio e i difetti di una burocratizzazione imposta dall'alto, quella riforma introdusse un  momento di democratizzazione in un'organizzazione scolastica fino ad allora imbalsamata e autoritaria. 
Io potevo comunque seguire le riunioni del mio gruppo di donne e anche quelle generali del sabato pomeriggio in via Cherubini, malgrado gli impegni contemporanei di lavoro e di sindacato, perché, dopo il periodo di allattamento,  potevo lasciare mio figlio a mio marito anche per ore. 
A volte, misurando oggi le energie impiegate allora tra lavoro, cura e lavoro politico, mi pare impossibile che ne avessi così tante.
Per ricordare il tipo di percezione che si aveva dell'autocoscienza all'esterno dei collettivi femministi negli anni Settanta, nonché le reazioni che questa pratica suscitava nelle  in donne non addette ai lavori, riporto l'esperienza di un gruppo di donne di quartiere della periferia milanese, Gruppo donne di via Albenga: 
"Noi abbiamo fin dalI’inizio rifiutato di chiamarci “collettivo”[...] perché succedeva che entrava una dalla porta e diceva 'E qui 
che si riuniscono le donne? Ma per carità, non farete mica autocoscienza? Non sarete mica uno di quei terribili collettivi femministi, perché se no non vengo, mio marito non mi lascia'. E noi dicevamo: 'No, siamo un gruppo di donne del quartiere". 
E cominciavano così le riunioni di autocoscienza anche loro.

venerdì 17 aprile 2015

Memorie di una femminista non pentita (XIV) Gli inizi, II puntata




Riprendo dal Convegno all'Umanitaria del giugno 1971 perché fu fondamentale, sia per la costruzione del movimento a Milano, sia per il cambiamento che provocò in me.

Dal momento che con le altre avevo tanto lavorato all'organizzazione dell'evento fui molto contenta del "successo" quanto a affluenza di donne, ma nello stesso tempo mi resi conto che stava entrando in crisi in crisi il mio modo di partecipare al movimento fino ad allora.

Certo si respirava l'entusiasmo all' idea di lavorare tutte insieme a un progetto, ancora molto nebuloso, ma di radicale modificazione della vita individuale e collettiva di donne e uomini, ma risultarono evidenti le diversità tra noi, forse fino ad allora mitigate dal calore ambientale delle riunioni casalinghe.

Vi parteciparono circa 70 donne, di Milano, Padova, Ferrara, Pisa, Trento, Firenze, Bologna e Torino.

Con l'eccezione di Torino e di Milano, quasi tutte le partecipanti delle altre città avrebbero costituito di lì a poco Lotta Femminista; le donne di Torino facevano parte del gruppo Collettivo Rivoluzionario, avevano cominciato a riunirsi separatamente dai compagni, il loro primo documento era stato stilato nel settembre del 1970, in seguito alcune di loro avrebbero dato vita al Gruppo femminista di Via Petrarca.

Anche se non era stato ancora teorizzato il separatismo, il Convegno era riservato alle sole donne.

Il tema fondamentale in discussione era il doppio lavoro, domestico e per il mercato, e le condizioni delle lavoratrici e delle casalinghe, le modalità di intervento ricalcavano, come ho già scritto, quelle tipiche delle assemblee dei movimenti: tavolo di presidenza, relazioni strutturate, interventi delle presenti.

L'invito provocatorio di Serena di Castaldi, del gruppo Anabasi, a scendere in giardino, abbandonando una situazione di convegno tradizionale, con relazioni e interventi successivi, per parlare di sé in modo informale, anche se poco seguito, introduceva già quella che sarebbe stata la divisione, deleteria, tra due dimensioni del femminismo milanese a lungo considerate inconciliabili, quella prevalentemente autocoscienziale, che si sarebbe in parte orientata all'analisi del profondo, e quello orientato anche all'intervento nel sociale, intervento interno e intervento esterno, si diceva allora.

L'errore fu, ma lo dico col senno di poi, la divaricazione tra due momenti che avrebbero dovuto procedere strettamente connessi, vale a dire da un lato l'analisi dell' interiorizzazione dell'ordine costituito attraverso l'esame delle immagini di genere, delle complicità di noi donne con il patriarcato, dei vantaggi e delle nicchie di potere che questo garantisce, dall'altro l'analisi dei processi economici e sociali messi in atto dal sistema capitalistico, una volta assunta e utilizzata la gerarchizzazione dei ruoli imposta dal patriarcato, in particolare l'artificiosa separazione tra produzione e riproduzione.

Diverse furono di conseguenza le pratiche politiche: puntare sulla trasformazione delle relazioni tra donne, per prima cosa, e quindi tra donne e uomini per cambiare lo stato delle cose nel primo caso; intervenire nelle situazioni di maggiore sfruttamento del lavoro e della vita delle donne con l'intenzione di alimentare conflitti e costruire alleanze, nell'altro.

I due filoni procedettero separatamente, producendo entrambi un consistente patrimonio teorico che negli anni '80 fu raccolto e organizzato negli Archivi, Centri, Librerie e Case delle donne.

Se la riflessione di chi privilegiava l'intervento esterno mancava dello sguardo dentro le soggettività, in merito agli schemi di relazioni, alle fantasie, alle paure, ai desideri, alle aspettative, indispensabile motore di un reale cambiamento di paradigma, il lavoro di riflessione, derivante dal movimento dell'autocoscienza e della pratica dell'inconscio, che in Italia sarebbe stato poi considerato il "vero femminismo", avrebbe prodotto mutamenti rilevanti nelle vite e nelle coscienze delle donne del movimento, ma sarebbe risultato alla lunga circoscritto appunto alle donne del movimento, o a questo contigue, con minore penetrazione nelle donne più esterne, anche per ragioni anagrafiche, una volta concluso il fermento sociale degli anni Settanta.

Comunque al Convegno del 1971 prese corpo l’idea di trovare una

sede comune ai vari collettivi, al di fuori delle case private.

Ho già scritto delle riunioni del Collettivo Milanese che si tenevano a casa mia dall'autunno del 1970 al giugno 1971, non si poteva parlare ancora di autocoscienza, quanto piuttosto di presa di coscienza della subalternità-materiale e culturale- agli uomini, che accomunava tutte le donne, indipendentemente dalla loro posizione sociale, anche se poi si tendeva a distinguere tra chi sembrava "privilegiata" comunque, la moglie di Agnelli, per disponibilità economica maggiore rispetto alle operaie, impiegate, contadine.

Le parole ricorrenti nella riflessione erano oppressione, in tutti gli aspetti collettivi e individuali, pubblici e privati e sorellanza.


Gli obiettivi erano di carattere prevalentemente economico, si analizzava la posizione delle donne sia all'interno delle società capitalistiche che di quelle socialiste.


Studiavamo documenti, statistiche sull'occupazione femminile, sulla segregazione orizzontale e verticale nei luoghi di lavoro, sul doppio lavoro a casa e fuori, sulla presenza o meno di servizi sociali, non solo in Italia ma anche in altre realtà europee e extraeuropee.


Il primo effetto degli scambi e delle visite reciproche fu senz'altro l'allontanamento degli uomini dal gruppo; in realtà erano solo due e più ascoltatori che interventisti, ma la loro presenza divenne subito imbarazzante.

Dopo il convegno niente per me fu come prima, il confronto con le elaborazioni e le pratiche degli altri gruppi mi fece avvertita del rischio di cadere in un atteggiamento paternalistico, in quanto "politica" nei confronti delle altre; la maternità, intrecciata con il lavoro, mi toglieva energie psicofisiche, dal momento che mio marito e io potevamo contare solo sulle nostre forze, senza aiuti parental, per questo concorso di cose rallentai l'impegno femminista e restai un po' alla finestra.

domenica 12 aprile 2015

Memorie di una femminista non pentita ((XIII). Gli inizi, I puntata

Questa volta inizio a scrivere del mio percorso femminista  in prospettiva cronologica, contrariamente a quanto ho fatto finora parlando di me. 
Ripeterò quindi qualche dettaglio di vita.
L'inizio coincide con l'incontro con un gruppo che alla fine degli anni Sessanta ha dato vita a due riviste di movimentoLa Classe e Potere Operaio, periodici operaisti, con impostazione teorica marxiana. 
Nel gruppo politico io con un'altra donna, Claudia Capurso, mi occupavo del collegamento con alcune fabbriche di riferimento per le nostre analisi e pratiche politiche, la Siemens e la Farmitalia; altri e altre tenevano i rapporti con altre realtà operaie di Milano, tra cui la Pirelli e l'Innocenti. 
Quando nel 1970 sono maturati alcuni discorsi relativi alle nostre vite di donne nelle relazioni politiche, sociali, familiari con i nostri uomini, prevalentemente compagni della sinistra extraparlamentare, le prime con le quali mi sono confrontata su tematiche femminili sono state proprio alcune operaie sindacaliste della Siemens e alcune casalinghe, mogli di operai della Pirelli, prima ancora che parlarne con donne del mio stato sociale e culturale.
Unica eccezione Antonella Nappi, la prima che diede vita con me al gruppo che chiamai Collettivo Politico milanese, che in alcune riunioni registrò la presenza di alcuni uomini.
Negli incontri tra donne, pur diverse per cultura, età, esperienza di vita e di lavoro, per prima cosa veniva fuori il problema del doppio lavoro, quello in fabbrica, per le operaie e le impiegate-  ricordo un vivace e combattivo  collettivo all’Eni-  caratterizzato dalla segregazione verticale e orizzontale, quello a casa, non considerato lavoro, ma funzione naturale, particolarmente impegnativa in termini di tempi e energie.
Molte lamentavano il fatto che i compiti familiari impedissero loro di partecipare alle riunioni politiche, quando poi non dovevano occuparsi di cucinare, magari improvvisamente, per gli amici e i compagni dei rispettivi mariti, che portavano persone a cena.
Io, Antonella,  Sisa Arrighi, e qualche altra che si era aggiunta nel frattempo, eravamo le "politiche" professioniste, ma la comunicazione circolava con facilità, anche perché pur nella differenza di situazioni, c'erano tratti di esperienza comune.
Ad esempio, nel nostro gruppo extraparlamentare, quando si dovevano redigere volantini da distribuire si decidevano collettivamente i punti fondamentali da comunicare e noi donne di regola dovevamo materialmente stenderli e ciclostilarli (ironicamente ci definimmo gli angeli del ciclostile). Se si inaugurava una sede, tutte ci trovavamo "con entusiasmo"a pulirla, renderla vivibile, con grande elogio per la nostra creatività da parte dei compagni, visto che date le magre risorse si trattava sempre di case vecchie e malmesse.
Nell'estate del 1970 ero rimasta incinta del mio primo figlio, e mi sentivo piena dell'energia e dell'entusiasmo che mi avrebbero accompagnato durante tutta la gravidanza, e nei primi mesi dopo la sua nascita. 
Nelle riunioni femministe ero una delle prime a essere madre, ricordo che portavo mio figlio e lo allattavo durante gli incontri. 
Contemporaneamente nel 1970 a Milano erano sorti altri gruppi di donne, Serena Castaldi aveva portato in Università documenti delle donne del Movimento USA, resoconti di Convegni e Seminari, che confluirono in un opuscolo intitolato Donna è bello, mutuato da nero è bello, del Movement USA.
Ricordo l'importante articolo di  Margareth Benston sull’economia politica del lavoro domestico.
Da Torino venne a prendere contatto con il mio gruppo una donna del Collettivo Cr, che traduceva, stampava e diffondeva  documenti del movimento afro-americano negli Stati Uniti, nei quali si assimilava la posizione delle donne nella società a quella dei neri in USA.
Nel settembre del 1970 uscimmo con un volantino intitolato Basta con il doppio lavoro, scritto da me insieme  a sindacaliste della della Siemens. 
Anni più tardi, in occasione della ricerca sui collettivi femministi di Milano e Lombardia negli anni Settanta del Centro di studi storici sul movimento di liberazione della donna in Italia, fondato alla fine del 1979 da Pierrette Coppa e Elvira Badaracco, le due ricercatrici del Centro,  su mia segnalazione, presero contatto con la sindacalista Cisl  della Siemens per chiederle della attività del Collettivo Politico Milanese ma era ancora fresco il trauma del 7 aprile 1979, con l'incarcerazione di chi aveva fatto parte del gruppo Potere Operaio, la Siemens era nell'occhio del ciclone perché Moretti, coinvolto nel rapimento e uccisione di Moro, era stato uno dei suoi tecnici, credo sia stata questa la ragione che ha indotto la sindacalista a negare di avermi mai conosciuto e di aver mai fatto parte del Collettivo.
Rimasi molto turbata, ma capii la sua paura, ricordo benissimo il nome della donna, ma non lo riporto per rispetto della sua volontà. 
Del Collettivo Politico Milanese faceva parte anche una giovane, allora diciottenne, Grazia Colombo, che frequentava  la scuola per assistenti sociali, molto interessata al tema dei servizi sociali, iscritta all'UDI, ma in posizione critica nei confronti di quell'organizzazione. 
Nello stesso anno avevo conosciuto Carla Lonzi che aveva fondato Rivolta Femminile, ricordo un paio di riunioni alle quali partecipai nella sua bella mansarda in via Brera, ma non colsi allora l'importanza del suo discorso. Eppure di lì a poco avrei letto e diffuso con molto interesse i primi libretti verdi: Sputiamo su Hegel, il Manifesto, Donna clitoridea e donna vaginale, e qualche altro.
C'era in quei primi anni un fervore di scambi, un piacere di incontrarsi e confrontarsi, con la sensazione che veramente si iniziava qualcosa di inedito tra donne.
Io non ebbi neanche il problema della doppia militanza perché proprio dal 1970, non appena mi occupai di temi di donne, smisi di appartenere al gruppo extraparlamentare di riferimento, anche perché nel frattempo si era avviato su un percorso politico che non condividevo più.
Nel 1971 arrivarono a Milano le compagne del Cerchio Spezzato, che avevano pubblicato il libro  La coscienza di sfruttata, ricordo in particolare che venivano a casa Elena Medi e Silvia Motta.
Proprio in seguito alle loro osservazioni il Collettivo eliminò la presenza di uomini, anche se pochi e sporadici, e diventò di sole donne.
Intervenne a qualche riunione anche Lea Melandri, che lavorava alla rivista L’Erba Voglio con Luisa Muraro. 
Portate da Antonella, parteciparono inizialmente alle riunione anche Daniela Pellegrini e un'altra donna del Demau, gruppo che si riuniva già da cinque o sei anni.
Uno degli incontri per me determinante fu la visita di Selma James a casa mia, con grande generosità parlo a lungo a me e alle altre del mio gruppo, Sisa Arrighi sbobinò e tradusse  la lunga registrazione che facemmo, Selma qualche tempo dopo mi scrisse anche alcune lettere.
Certo erano diversi i gradi di maturazione personale di tutte noi che ci incontravamo frequentemente; io mi ero avvicinata alla politica alla fine degli anni ’60 con una grande tensione libertaria, l’antiautoritarismo è stato il sentimento che mi ha formato, l’insofferenza verso ogni forma di autoritarismo sia patriarcale che capitalistico, un autoritarismo presente nelle realtà che si volevano già liberate o in via di liberazione. 
Questa è stata la forte discriminate rispetto a alle donne dell'UDI di allora, prima del 1982, e alle donne delle Commissioni femminili del Pci, e della DC, con le quali avevamo anche rapporti e scambio, ma ci divideva la loro convinzione che la soluzione di quella che allora era chiamata "la questione femminile" risiedesse nella emancipazione economico sociale e politica delle donne, da attuarsi mediante l'accesso al lavoro e la "promozione" delle donne alle cariche politiche e sociali, in altri termini alla parità. 
Di lì a poco la questione del separatismo sarebbe stata dirimente, non solo separatismo fisico nei gruppi, ma anche psicologico, contemporaneamente  molte di noi dovettero fare i conti con la presa di distanza, nelle riunioni intergruppi e nei seminari di studio, da modalità di intervento esperite nei gruppi politici frequentati precedentemente.
La questione divenne evidente nel convegno organizzato nel giugno del 1971 all'Umanitaria.
Ricordo che alcuni uomini tenevano i bambini nel bel cortile, mio marito teneva mio figlio di pochi mesi, un altro teneva Andrea, figlio di Sisa, di cinque anni.
Durante  l'Assemblea, particolarmente affollata, di fronte al susseguirsi di Relazioni (modo tradizionale di rapportarsi nei convegni), si alzò una donna, credo, ma non sono sicura Serena Castaldi, a denunciare il suo malessere di fronte a una modalità così tradizionale e ingessata di relazione tra donne, e disse che sarebbe uscita in giardino a parlare con chi volesse seguirla in un modo nuovo.
Poche la seguirono, ma fu una prima forte rottura. 

sabato 28 marzo 2015

Scritture antipatiche 4. La 'madre meccanica' di Dolores Prato

Infanzia, lingua materna e lingue straniere sono gli assi portanti del romanzo autobiografico di Dolores Prato Giù la piazza non c’è nessuno; le oltre settecento pagine del racconto costituiscono un percorso di conoscenza di sé e di riconoscimento di persone, ambienti, oggetti e paesaggi frequentati da bambina, un viaggio in un territorio ricco di insidie, di esperienze dolorose, di ricordi incerti, compiuto attraverso le tre lingue conosciute nell’infanzia in conflitto dentro di lei, perché obbligate a sostituire l’unica lingua che avrebbe dovuto accompagnare la crescita della piccola Dolores, la lingua della madre, mancatale fin dalla nascita per l’abbandono materno.

Le tre lingue sono il dialetto di Treja, conosciuto quando aveva già cinque anni, la lingua della ‘cultura’, insegnatale a scuola e la lingua parlata in casa degli zii, che differisce alquanto da quella parlata dagli altri abitanti di Treia per questioni di cultura e di classe sociale. Nulla viene detto del periodo tra la nascita e i cinque anni, nessuna lingua e quindi nessun ricordo.

Il titolo del libro è tratto da una filastrocca con cui la intratteneva la tata, è un’opera singolare, pubblicata quando l’autrice era quasi novantenne, ma ridotta a un terzo dell’originale per ragioni di fruibilità dalla curatrice per le edizioni Einaudi, una scrittrice sensibile e attenta come Natalia Ginzburg.

Dolores rifiutò la mutilazione del suo romanzo, protestò e si affrettò a redigere un nuovo dattiloscritto, corredato di un’Appendice autobiografica, che dichiarò fermamente essere l’unico autorizzato.

Fu pubblicato nella sua integrità solo dopo la sua morte, avvenuta nel 1983.

Alle rimostranze rivoltele dal direttore dell’Espresso, che l’accusa di mostrare troppo rancore nei confronti di Ginzburg, risponde nel 1980:

"Alla Ginzburg sono sempre stata, lo sono e continuerò ad esserlo, gratissima. […] Lei ha sempre amato questo libro, con quelle manomissioni voleva renderlo più accessibile. Io salto i verbi come se qualcuno mi corresse dietro; i miei passaggi sono ponti levatoi mai abbassati; lei riduceva più intellegibile il mio modo di scrivere; ma io preferivo tenermi i miei difetti. Avevamo ragione tutte e due". (1)

Divenne subito un caso letterario, soprattutto in considerazione dell’età avanzata dell’autrice, il che oscurò, come osservò allora acutamente Lalla Romano, il valore artistico dell’opera.

Non era il suo primo romanzo, Prato, insegnante di liceo, studiosa di Dante e Leopardi, aveva passato la vita a collaborare a periodici culturali e a scrivere racconti e romanzi, dopo essere stata allontanata dall’insegnamento dalle leggi razziali, ma questo è senz’altro la sua opera più importante.

La scrittura è marcata da scelte lessicali anomale, molti sono i neologismi formati da intrecci di parole tratte dalle sue tre lingue.

Nel racconto abbondano elenchi di piante, fiori, animali, descritti con puntiglio catalogatorio, liste di oggetti di uso quotidiano, nonché descrizioni di paesaggi e di persone, adulte e bambine/i, tutti elementi collegati a episodi particolari della sua vita di bambina, parole che attivano i ricordi, momenti di improvvisa illuminazione, di paura, di gioia, di sofferenza, di speranza, di illusione e delusione.

L’affastellarsi di parole- immagini serve a Prato per evocare e rappresentarsi la propria infanzia, segnata irrimediabilmente dal marchio dell’abbandono materno.

Chi legge è coinvolto/a nella ricerca dell’autrice, che tiene a bada in questo modo il pericolo di smarrimento soggettivo indotto dal sentimento di inappartenenza e di mal-aimé provocato dall’esclusione dalla famiglia di origine, osserva l’autrice nell’Appendice:

“Non mi fu dimostrato amore, non imparai a dimostrarlo. Ho diffidato dell’amore dopo, perché non lo ebbi allora”. (2)


Prato nasce nel 1892 da una relazione extramatrimoniale della madre, che nei primi giorni non vuole neppure essere citata nel documento dell’anagrafe, qualche giorno dopo la riconoscerà dandole il proprio cognome, ma la metterà per un breve periodo in brefotrofio, fino ad affidarla a una famiglia di contadini.

Viene poi mandata a cinque anni a Treja, dagli zii, già anziani, che la ospiteranno fino ai diciotto anni, lo zio prete, di mentalità aperta, anticonformista, di formazione illuministica, in conflitto con la ristrettezza mentale del luogo e la sorella che gli fa da perpetua, donna fredda, che le presta le cure indispensabili, con distacco, misto a fastidio, senza affetto, le uniche carezze saranno quelle delle domestiche.

L’autrice dice di sé nell’appendice al romanzo:

“E io che fui? Una bambina un po’ dolorosa, un po’ curiosa[…]una bastarda, dirà chi la guarda dal disincanto. Bastarda integrale dico io, non solo per il concepimento, per la nascita in un nascondiglio segreto[…]non solo per la mia dimora, sia pure breve al brefotrofio, ma per tante altre cose. Intanto preparata da un illuminista quale era mio zio, per formarmi a modo suo, fui invece soffocata dall’educazione cattolica. Spuntata da un ramo di antichissima nobiltà, innestato con un poderoso ramo israelita, io che sono? […] Quel bocciolo di melanconia che era dentro di me sin da piccina, spuntava dal plurimillenario dolore ebraico. Io sono una commistione di ebraismo e cristianesimo […] sono una bastarda anche religiosamente: cresimata ma non battezzata”. (3)

L’infanzia è il tempo in cui si formano le categorie di interpretazione e di attribuzione di senso al mondo e a se stessi, categorie solitamente mediate dalla lingua materna.

Sostituto della lingua materna è il dialetto di Treja, che per altro Dolores conosce a cinque anni, un dialetto parlato dai piccoli amici e amiche, dalle domestiche che l’hanno coccolata, tra cui quella che Dolores chiama “Scolastica delle scantafavole”.

Lingua materna di seconda scelta, quindi, tuttavia sorgiva di parole-casa, parole-mondo, nelle quali avvolgersi come in un manto caldo e protettivo.

Quando entra in collegio Dolores è obbligata a parlare l’italiano scolastico, la lingua conforme al modello adottato (con miopia) dal nuovo Stato, una lingua imbalsamata rispetto all’espressività dei dialetti e del parlare comune, che vive nei libri piuttosto che nelle menti delle persone.

Ecco un esempio di come Prato fa interagire tra loro le parole appartenenti alle diverse lingue:

“Per me poi sulla parlata c’era un altro confine, un vallato profondo, ed era la nostra casa dove si parlava così bene come in nessun’altra casa[…] Solo Eugenia dentro casa nostra diceva prescia, noi dicevamo fretta, […]Noi dicevamo quercia, poveri e contadini dicevano cerqua; per me era più facile dire quercia e non capivo quella loro fatica inutile”. (4)

Eventi linguistici e abbandono da parte della madre diventano l'asse intorno al quale ruota l'intero romanzo. Basti qui rammentare le frasi di apertura:

”Sono nata sotto un tavolino Mi ci ero nascosta perché il portone aveva sbattuto, dunque lo zio rientrava. Lo zio aveva detto ‘Rimandala a sua madre, non vedi che ci muore in casa?’ Ambiente non c’era intorno, visi neppure, solo quella voce. Madre, muore, nessun significato, ma rimandala sì, rimandala voleva dire mettila fuori della porta. Rimandala voleva dire mettermi fuori del portone e richiuderlo. Pur protetta dal tappeto che con le frange sfiorava il pavimento, ascoltavo fitto fitto: tante volte venissero a cercarmi per mettermi fuori”. (5)

Qualche pagina dopo questa riflessione la scrittrice parla del suo rapporto con la madre:

“Madre è quella che smette di leggere per rispondere ai perché, madre è unicità, sicurezza e appoggio fisiologico […] Con lei dovevo restare. Invece un sollecito trasferimento mi portò tra i neonati ripudiati, un biberon diventò il mio elemento materno […] Quando la madre meccanica mi riprese, dissi 'mamma' a lei. Però mi aveva ripresa non per tenermi, ma per ripulirmi e portarmi a Treja dove, era convenuto, mi avrebbe appiccicata agli zii […] Madre è realtà fisiologica e affettiva; io ebbi lo stridio di una tastiera di elementi materni, tutti discordi tra loro. La parola[mamma]trionfò sui libri di lettura della scuola, uno smammolato termine letterario. Meglio le 'guerre puniche' e l’inno di Garibaldi”. (6)

Alla madre meccanica, pura e semplice 'facitrice' come dice Prato, si aggiunsero la balia e la zia. Tre persone diverse da dover nominare con la parola mamma. L'esito, nella soggettività in formazione della piccola Dolores, fu quello 'stridio di elementi materni', che la resero straniera all'intero mondo nominato nella confusione di tre lingue diverse; infatti Prato definisce con le seguenti parole la distanza tra dialetto e lingua degli zii: “Per la pronunzia, per la scelta dei vocaboli, eravamo quello che è la Repubblica di San Marino: uno stato a parte”. (7)

Il romanzo proverà a mettere ordine in questo caos.

Per 741 pagine Dolores racconta, descrive, ricorda ( e lei stessa riflette ironicamente sulla arbitrarietà della ricostruzione dei ricordi) fatti, episodi, sensazioni, personaggi che hanno popolato il suo mondo di bambina.

Il suo procedere nella ricerca è caratterizzato da un ritmo e un respiro più poetici che narrativi, a causa delle frequenti illuminazioni improvvise, che si accumulano ossessivamente alla ricerca di un senso.

Non fu colta, neppure al momento della pubblicazione integrale, la cifra stilistica così originale se non da pochi e poche critici/che, e non si può certo dire che la sua scrittura abbia attirato grandi simpatie tra lettori e lettrici.

Troppo azzardata, troppo complessa, troppo raffinata, troppo lunga, in qualche modo antipatica.

Prato conobbe così un'ulteriore condizione di straniera perché si verificò anche per lei quello che è sovente capitato alle scrittrici italiane, le cui scelte stilistiche e tematiche, consapevolmente al di fuori delle categorie interne alle convenzioni letterarie, sono state scambiate da un pubblico disattento per inadeguatezza.

Dentro quelle convenzioni non è facilmente accettabile che sia una donna a intraprendere percorsi di ricostruzione della propria soggettività, soprattutto se lo fa attraversando il linguaggio, perché nello stereotipo del sistema letterario, almeno fino alla prima metà del Novecento (ma anche oltre), le donne scrittrici sono confinate nella sfera espressiva del mondo dei sentimenti, in qualche modo escluse dal territorio delle invenzioni e novità stilistiche e formali.

 

Note

1 Elena Frontaloni, Giù la piazza non c’è nessuno, in “Quodlibet”, http://www.quodlibet.it/schedap.php?id=1831#.VRZWiJOG98B

2 Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno, Milano, Mondadori, 2001, p. 739

3 Giù la piazza, cit. p. 741.

4 Giù la piazza, cit. p.195

5 Giù la piazza, cit. p. 3

6 Giù la piazza, cit. p. 23

7 Giù la piazza, cit. p.195

mercoledì 4 marzo 2015

Memorie di una femminista non pentita (XII)

Credo di non avere mai smesso di sentirmi figlia, forse perché ho perso la madre presto, sono stata madre conflittuale, e adesso nonna felice, nel senso che mi sembra che i/le nipoti  abbiano anche una funzione anti tristezza, antidepressiva si dice oggi, con espressione semplificante.
Non ho avuto in età adulta alcun modello né di madre né di zie, non ne ho mai conosciute, tranne una, che viveva lontana e avrò visto tre o quattro volte in vita mia.
La mancanza di modelli non mi sembra mi abbia nuociuto più di tanto, senz'altro non ho mai pensato che il mio destino sociale in vecchiaia sarebbe stato solo l'accudimento dei/delle nipoti, così come non  lo è stato la casalinghitutine nel corso della mia vita.
Anzi ho fieramente combattuto questa dimensione come realizzazione prioritaria delle donne, destino "naturale" dell'essere femminile.
Qualche tempo fa una mia amica femminista, fine analista della nostra società, mi chiedeva quanto la persistenza dei modelli vigenti di organizzazione del lavoro e della "soluzione privata" nei confronti della cura sia  da addebitarsi alla "generosa dedizione di noni e nonne".
Generosa dedizione di donne e uomini? 
E qui mi si apre la contraddizione: è vero che così si mantiene e si sostiene la divisione sessuale del lavoro imposta dal capitalismo patriarcale, ma  non si può trascurare la dimensione di piacere e gioia che la cura dei nipoti comporta.
Come si esce da questa contraddizione?
Non certo secondo il modello di lotta operaia vincente negli ultimi duecentocinquanta anni: scioperi, blocco della (ri)produzione, per non parlare del sabotaggio (di luddistica memoria), e di altre forme di lotta.
Negli anni Settanta alcuni collettivi femministi veneti, milanesi e emiliani, riuniti nel gruppo Lotta femminista, misero a punto analisi molto sofisticate della funzione delle donne nel privato e nel sociale,  funzione fondata sullo sfruttamento del ruolo femminile naturalizzato e base principale dell'accumulazione capitalistica. L'analisi del lavoro domestico, affettivo, relazionale, di sostegno psicologico, sessuale e sentimentale, erogato dalle donne in nome dell'Amore, quello che oggi chiamiamo cura, e che attualmente investe in quote sempre maggiori sia la produzione che la riproduzione, era importante, ebbe anche una buona diffusione in libri e documenti che circolarono anche in fabbriche e scuole, ma la pratica non raggiunse i risultati sperati. Ad esempio l'iniziativa dello sciopero del lavoro domestico non ebbe successo, non solo per il sentimento di "abnegazione" interiorizzato dalle donne, ma perché le prime a essere colpite da questa forma di lotta sarebbero state proprio le donne, che nelle case ci vivono, mangiano, ci cucinano, che riordinano i luoghi nei quali vivono insieme alle altre e agli altri.  
La ricchezza e la complessità delle analisi fu semplificata e troppo presto liquidata nel movimento stesso a causa della parola d'ordine "salario al lavoro domestico", strumentalmente fraintesa non solo dagli oppositori e dalle oppositrici al femminismo, ma anche da molte donne del movimento. Inoltre fu considerata sinonimo di pensione alle casalinghe  e in quanto tale combattuta come strumento non solo inadeguato economicamente ma come fissatore del ruolo femminile. 
Il femminismo italiano si avviò piuttosto sul percorso dell'analisi delle complicità delle donne con l'ordine del discorso, alla ricerca delle immagini di genere interiorizzate, delle implicazioni, consce e inconsce con il sistema che si voleva combattere. 
L'errore fu la contrapposizione dei due momenti, che, ugualmente importanti, avrebbero dovuto procedere parallelamente, e non escludersi a vicenda. 
Ricademmo in questo modo nella contrapposizione dualistica che mettevamo in discussione in altri campi.
Il discorso del lavoro invisibile delle donne si diffuse in altre aree dell'Europa e degli USA.
Oggi penso che per l'Italia il discorso fosse troppo anticipatore, non a caso  torna prepotentemente alla ribalta in questa temperie politica, sociale e culturale.