martedì 29 dicembre 2020

Care amiche, compagne, conoscenti, femministe e non

Siamo alla fine di un anno definito più volte tragico, funesto, ma anche particolare e per qualche aspetto positivo per molte. Non sottovaluto i risvolti psicologici negativi che i comportamenti obbligati dalla pandemia ci hanno procurato, ma neppure mi abbandono allo sgomento, che colgo in alcune, causato dal timore di danni permanenti, specie per bambine/i e adolescenti.

Tuttavia non posso fare a meno di notare un fenomeno per me inquietante, forse l'isolamento sociale forzato sta producendo un inasprimento delle tendenze ampiamente diffuse a attaccare, in modo anche violento, chi non è della stessa opinione su questioni rilevanti. 

Avevo già avvertito, circa sei mesi fa, che il timore diffuso in molte di noi di perdere di vista la specificità delle lotte delle donne a causa della partecipazione a battaglie comuni non solo generava conflitti tra femministe, che sarebbe il meno, visto che dagli inizi del femminismo ci sono diversi modi di intendere e cercare di risolvere le questioni, ma rischiava di indebolire quello  che in molti casi potrebbe essere un terreno collettivo di lotte, pur nelle differenze contestuali di pratiche e teorie, lasciando campo libero alle interferenze di forze che presidiano fortemente il patriarcato, sottolineando e insistendo sulle divisioni tra femministe, 

Le resistenze patriarcali non sanno più come combattere la marea di movimento  di donne che sta avanzando in tutto il mondo, per questa ragione mi sembra un'inutile perdita di tempo  dedicare energie e intelligenze a combattere tra femministe senza cercare possibili obiettivi comuni, che secondo me esistono, al di là di suddivisioni e suggestioni politiche e ideologiche.

Eppure, forse perché quest'anno ho dedicato più tempo agli interventi in rete, noto un'acrimonia tra donne che non mi sembrava di avere mai colto nei miei 52 anni ormai  di femminismo -ho conosciuto il femminismo a 23 anni, ora ne ho 75-. 

Nella mia esperienza di pratiche, analisi, teorizzazioni femministe ho assistito a contrapposizioni,  proposte politiche contrastanti tra loro, critiche anche dure, tentativi di istituire normative femministe, alle quali d'altronde era facile sottrarsi, ma c'era una forma di rispetto, nei confronti delle donne che avevano opinioni diverse, il che permetteva un confronto comunque, un'attenzione a quanto veniva detto, scritto, e  quindi una scelta di adesione o di critica.

Oggi mi sembra che sia ritenuto più vantaggioso attaccare altre donne e affermare -credo prima di tutto  a se stesse- la propria purezza "femminista" piuttosto che interrogarsi  sulle contraddizioni e i tormenti che gli aspetti molteplici della nostra individualità ci pongono continuamente dinanzi. 

Forse questa sì  che è una conseguenza della fragilità indotta dalla pandemia in molte di noi, un'insicurezza di sé, delle proprie convinzioni, temuta così fortemente da esorcizzarla rifiutando ogni possibile confronto con opinioni diverse dalle proprie.   

 

giovedì 5 novembre 2020

patriarcato e neoliberismo

Dai commenti a caldo sulle elezioni USA emerge che la comunità latina, contrariamente alle aspettative, avrebbe votato Trump attratta dal suo machismo, esibito come un trofeo; tra le donne bianche, che già quattro anni fa votarono in massa per lui, sono aumentati i consensi nei suoi riguardi. Anche in questo caso le voci che parlavano di un allontanamento da parte soprattutto delle "casalinghe di provincia", .avevano indotto Trump a rivolgere loro un disperato appello, sono state smentite.

 Le donne polacche hanno riportato una vittoria sul loro governo che vuole abolire quasi  completamente il diritto di interruzione di gravidanza, una vittoria parziale, che potrebbe essere purtroppo invalidata dalla proclamazione di un prossimo lockdown, che impedirebbe le grandi manifestazioni che si susseguono da giorni. 

Questi eventi  rimandano al modello ancora egemone della relazione donne uomini nelle nostre società e fanno riflettere che, se non si mette mano a questo modello, cancellandolo ovunque  si presenti, se non si scende su questo terreno in tutti i settori della nostra comune esperienza di vita, di lavoro, di studio,  non è possibile alcun cambiamento reale. 

E' pur vero che nel caso dei consensi per Trump giocano anche come concause fattori di natura economica, molti e molte della seconda generazione di immigrati latini temono l'afflusso di migranti dai loro paesi d'origine, che potrebbero mettere a rischio le posizioni acquisite; il consenso delle donne bianche della provincia è spiegato con la paura di un aumento delle tasse, dal momento che sono in gran parte proprietarie di case, ma la dimensione economico-sociale di stampo neoliberista non baserebbe a spiegare certi comportamenti se non si alimentasse e non poggiasse sul modello patriarcale della relazione donne uomini.

Quando i maschi latini si identificano nel machismo del presidente, loro che appartengono a una comunità comunque sfruttata nel lavoro, spesso svilita, a parte i casi di cooptazione che sono una minoranza, dimostrano che l'unica risorsa per attingere forza di continuare e di resistere alle ingiustizie subite da un sistema sociale ingiusto è mantenere il comando e l'autorità sulle loro donne.

Quando le donne di una classe media, sempre più impoverita e marginalizzata dai luoghi di potere, accettano di perdere in prospettiva i diritti civili e sociali acquisiti nei decenni precedenti, per paura di sprofondare nella miseria, dimostrano di sottovalutare il rischio di consegnarsi inermi, senza possibilità di scampo, a un futuro di frustrazione e impotenza, quale quello sperimentato dalle donne che hanno lottato prima di loro per ottenere quei diritti.

Quando un regime autocrate in un momento così grave e rischioso come l'attuale si ostina a inimicarsi parte delle sue cittadine, in questa lotta aiutate anche da uomini, per togliere loro un diritto acquisito, mostra l'importanza che attribuisce a un'azione di "messa in riga"delle donne, che nella sua idea dovrebbe forse preludere a altre azioni di ridime.nsionamento di diritti libertà.

Forse è arrivato il momento di prendere in considerazione quale potenziale di cambiamento è a nostra disposizione oggi non solo per dare una spallata al modello patriarcale, ma anche per far crollare un sistema sociale, economico, culturale iniquo nei confronti di persone, animali, piante,  che su questo si basa

mercoledì 2 settembre 2020

Il Covid19 e la metafora della guerra

Dal momento che usiamo le metafore per dare senso alle nostre esperienze, agite o patite, è il caso di soffermarsi sulla metafora della guerra, adottata da molte e molti per descrivere  il nostro rapporto con il virus che ci  angustia da sei mesi.

Ho finora letto e ascoltato con fastidio tutte le dichiarazioni in merito, pronunciate o scritte da persone comuni e da rappresentanti istituzionali, fino a quando il paragone mi è diventato insopportabile. 

A che cosa serve, infatti, presentarci la lotta al virus come una guerra -dove o si vince o si muore- se non a ingenerare in noi quel senso di ineluttabilità, di impotenza, quasi rassegnazione al peggio e nello stesso tempo a indurci a mobilitare energie psicofisiche per limitare il più possibile i danni che coglieranno tutte/i noi ? Chi può opporsi - a scapito della vita propria e altrui- ai provvedimenti che i e le responsabili politiche /ci utilizzano per preservarci dalla rovina? Chi può osare "mettere i bastoni tra le ruote" in un processo di faticosa ricostruzione dopo  una catastrofe come una guerra? 

Poi a poco a poco nei discorsi gli ambiti di emergenza si sono  moltiplicati, dal settore medico-sanitario a quello politico-sociale, proprio come avviene in guerra, e si si sono avanzate proposte "dolorose" ma "inevitabili" per far fronte al presente e al futuro. 

Lentamente, in mezzo a affanni personali e preoccupazioni più o meno motivate, viene il dubbio che questa metafora sottintenda direzioni e obiettivi ben chiari nella mente di chi ci guida e /o di chi intenda farlo.

Nulla più della guerra rimette a posto, ad esempio, il disordine sociale rispetto ai compiti e alle funzioni di di classe e di genere;  nulla chiama in causa la questione delle relazioni tra gli uomini e le donne come le guerre, guerreggiate, minacciate, mascherate, ignorate, nulla quindi, in ultima istanza, risulta più rassicurante per arginare indesiderati cambiamenti di mentalità, atteggiamenti, comportamenti e costumi.

Gli uomini -guerrieri- rischiano la vita per la difesa di valori, persone, beni, ideali civili e/o religiosi, riconquistando una centralità e un'autorità che sentono messa in crisi dai tentativi delle donne di sottrarsi alla permanente subordinazione sociale e culturale.

Le donne, in sostegno dei loro eroi, da curare nel fisico e nello spirito, trovano una pausa dalle quotidiane fatiche di conquistare un'autonomia di pensiero e azione, nonché dal senso di impotenza e dalla delusione che spesso gravano sulle spalle di chi intraprende un percorso esterno agli schemi di genere socialmente accettati.

Il destino femminile di cura e accudimento, interiorizzato nell'educazione di genere, ritorna a essere risorsa sociale, collettiva e individuale, fattore di esaltazioni e riconoscimenti altrimenti negati. 

Concorrono all'incantamento nei confronti della guerra anche le narrazioni costanti del nostro passato collettivo e individuale, che pongono l'accento soprattutto su eventi bellici, pur mostrandone gli orrori, ma presentandoli come ineliminabili, quasi fossero tratti di specie, oscurando il fatto che molti conflitti furono risolti attraverso mediazioni, dialoghi, scambio di pensieri e parole tra uomini, e anche tra donne.

la Storia insegnata, ricordata, trasmessa è prevalentemente storia di guerre, resistenze, lotte di oppressione e liberazione a cominciare dal fondamento della cultura occidentale, l’Iliade, osserva una scrittrice: " "La letteratura dell’Occidente comincia con la glorificazione di una guerra di rapina" (1),

Le moderne tecnologie hanno sovvertito molte delle immagini interiorizzate rispetto alle guerre conosciute fino a cinquant’anni fa,  hanno fatto  saltare la separazione tra chi combatteva, gli uomini, e chi subiva. donne, vecchi bambini, coinvolgendo tutti e tutte;  cinquant'anni di teorie e pratiche antagoniste a un sistema politico-sociale sempre più cinico e crudele verso persone e animali hanno modificato le  coscienze di uomini e donne, diffuso consapevolezze sulla storicità delle guerre, sulle responsabilità di chi le scatena sotterraneamente o apertamente, per fini individuali o collettivi di asservimento di popolazioni, di rapina di risorse, di dominio del vivente in ogni sua forma, eppure certe motivazioni di fondo non sono cambiate del tutto, i ruoli si sono solo modernizzati, non cambiati alle radici.

La guerra, reale o richiamata, continua  a produrre i suoi effetti sulle menti di donne e uomini.

Allora oggi ci si chiede: le donne che in maggioranza si sono dedicate, durante il lockdown,  a accudire figli e mariti, forse in futuro lasceranno il lavoro?

Le persone che hanno lavorato in remoto, senza più distinzioni di orario tra vita e lavoro, dovranno in qualche modo continuare a farlo, perché c'è stata la guerra e bisogna ricostruire?

Provvedimenti nel campo del lavoro, del welfare, che  da anni si tentava di far passare, scontrandosi con le dalle lotte e le resistenze di lavoratori e lavoratrici  saranno considerati inevitabili, perché si è qppena usciti da una guerra, peraltro non ancora conclusa?

Colgo certe avvisaglie, in discorsi ufficiali, poco tranquillizzanti.







[1] Christa Wolf, Premesse a Cassandra. Quattro lezioni su come nasce un racconto, Roma, edizioni e/o, 1984, p. 22.


mercoledì 8 luglio 2020

Sulle polemiche tra femministe

Una delle preoccupazioni maggiori di molte che hanno maturato una coscienza femminista è quella di vedere, un'ennesima volta, il sessismo, con il suo corollario di violenze di vari livelli e gradi agite dagli uomini sulle donne,  riassorbito nelle lotte comuni contro il razzismo, lo sfruttamento di corpi e menti delle fasce impoverite delle popolazioni mondiali, il dispotismo culturale, sociale, religioso e politico su persone, animali e cose, ambiente.
Questo timore di perdere di vista la specificità delle lotte delle donne non solo genera conflitti tra femministe, che sarebbe il meno, visto che dagli inizi del femminismo ci sono diversi modi di intendere e cercare di risolvere le questioni, ma rischia di indebolire quello che in molti casi potrebbe essere un terreno collettivo di lotte, malgrado le differenze, lasciando campo libero alle interferenze di forze che presidiano fortemente il patriarcato, sottolineando e insistendo sulle divisioni tra femministe, proponendo alleanze strumentali con settori  del movimento, arrivando a cogliere e fare proprie le istanze più superficiali e modernizzatrici, pur di non intaccare le fondamenta sulle quali si fonda l'ordine patriarcale, la divisione sessuale del lavoro, e quindi lo scambio sessuo-economico tra donne e uomini.
Infatti, anche se poi le trasformazioni sociali modernizzano ruoli e funzioni -le donne studiano e lavorano sovente meglio degli uomini, spesso portano a casa soldi più degli uomini- la struttura di fondo e quindi la mentalità che fa del "femminile" la sfera della riproduzione come ambito prioritario di ogni donna, resta nel profondo di ogni donna e di ogni uomo come residuo antropologico, da riconoscere e combattere. 
Si spiegano in tal modo le stucchevoli esaltazioni del valore femminile nel sociale, simmetriche alle accuse di provocare  la sconvolgente fragilità degli uomini, nel tentativo di dare giustificazioni psicologiche individuali ai misfatti compiuti da uomini, che sarebbero annichiliti da problemi sociali, di salute, omettendo che si tratta di comportamenti legati alla struttura patriarcale della nostra civiltà, alla base dell'educazione di donne e uomini. da millenni.
Analogamente si spiega tentativo, in atto da qualche tempo, di mettere in guardia  contro "il femminismo", spesso accompagnato dal termine neo-liberale, che sarebbe oggettivamente alleato, quando non direttamente subordinato, al sistema neo-capitalistico, grazie a una sorta di emancipazionismo selvaggio, competitivo con gli uomini, in questo senso comincia ad affacciarsi la semplicistica equivalenza femminismo- maschilismo.
Il timore del quale ho parlato all'inizio non è di per sé infondato, l'abbiamo sperimentato in molte, ai tempi della militanza comune nelle lotte di liberazione dalla metà del Novecento in poi, quando ad esempio il conflitto capitale/lavoro era considerato prioritario e determinante la "condizione" delle donne, ma il concetto di patriarcato, con le analisi relative, nazionali e internazionali,  hanno aperto gli occhi a molte e molti di noi. 
Infatti in tutto il patrimonio di analisi, teorie e pratiche espresso dai movimenti di liberazione mondiali solo il femminismo è arrivato alla radice ultima di ogni prevaricazione e sfruttamento individuale e collettivo, nelle forme che conosciamo. 
Oggi si sono fatti passi avanti nella coscienza e nelle sensibilità di donne e uomini segnate/i da consapevolezze femministe, questo dovrebbe darci la fiducia di non ricadere in vecchi errori. 
Purtroppo con il moltiplicarsi dei femminicidi, a tutte le età, condizioni culturali e sociali compiuti dagli uomini, si manifesta sempre più la determinazione di oscurare (da parte di l'ha capito) e continuare a ignorarlo (e da parte di chi non l'ha ancora capito e non si sforza di capirlo) che non si tratta di "fallimenti individuali" di uomini fragili, annichiliti da problemi sociali, di salute..., ma di comportamenti legati alla struttura della nostra civiltà patriarcale. 
Le resistenze patriarcali non sanno più come combattere questa marea di movimento  di donne, pur nelle differenze contestuali di pratiche e teorie, che sta avanzando in tutto il mondo, per questa ragione mi sembra un'inutile perdita di tempo  dedicare energie e intelligenze a combattere tra femministe senza cercare  i possibili obiettivi comuni, che secondo me esistono, al di là di suddivisioni e suggestioni politiche e ideologiche.














mercoledì 15 aprile 2020

Una riflessione a due su paura e sgomento al tempo del coronaviru



di Adriana Perrotta e Paolo Rabissi




L'emergenza da coronavirus in corso ci mette di fronte a episodi che non tranquillizzano per niente sul futuro. Le tentazioni autoritarie nel nostro paese hanno una storia lunga ma l'emergenza in corso fa temere a molte/i una loro presa maggiore, cosa che non poche delle forze politiche in gioco non mascherano più di tanto nei loro proclami e inviti, che vengano dall'opposizione di destra o da certi settori del governo.
Soprattutto si teme che le necessarie misure, prese di autorità dal governo per contenere il contagio, possano residuare sul lungo periodo imposizioni e diminuzione di libertà civili. Una realtà che avrà purtroppo la sua legittimazione tecnica se è vero come sembra che gli effetti del corona virus possono durare anche uno o due anni, se è vero come sembra che i coronavirus mutano e che già nel prossimo autunno potrebbero ripresentarsi sotto altre forme.
Tuttavia quello che ci preme, e dovrebbe premere a chiunque, è di non contribuire in alcun modo a diffondere smarrimento e paure, alimentare isterie individuali e collettive, per cui sentiamo l'obbligo di prendere posizione contro coloro che invece lo fanno. Di fronte a quattro cretini in divisa, che investiti finalmente di un po' di autorità ne approfittano per vessare i cittadine/i, certune/i finiscono col denunciare come inutili i provvedimenti di restrizione alla nostra vita quotidiana e col sollecitare alla ribellione in nome dell'antiautoritarismo dal quale la nostra generazione e le successive provengono. Posizione ambigua, soprattutto perché paladini strenui delle libertà democratiche oggi sono i partiti di destra. Ma posizione anche isterica perché gridare al lupo al lupo in questo caso è semplicismo politico, occorrerebbe spiegare se si è convinte/i che la diffusione del virus avviene per contagio oppure per sfiga o per dannazione dei Sapientes all'autodistruzione. Siccome avviene per vicinanza e contatto l'unica cosa da fare è stare alla larga dal prossimo tuo. Certo si possono suggerire, e qui i social i centri di controinformazione la rete ecc. possono fare molto, modifiche, attenuazioni, priorità. Senza disinvolte pressioni della pancia.
Poi ci sono certe/i intellettuali che farebbero meglio a stare zitte/i.
In rete, nei fogli on line, abbondano. Abbondano anche altrove. Hanno purtroppo il piglio moralistico con il quale ci si accusa di non renderci conto dell'abisso di inciviltà in cui avremmo accettato di piombare ubbidendo alle restrizioni: crediamo sia da respingere in toto, è una posizione che non riconosce gli affanni, i tentativi di andare avanti, malgrado paure e insicurezze in agguato, le riflessioni condotte da molte/i e le pratiche e le iniziative messe in atto, anche nell'attuale situazione, per trarre da questa sciagurata emergenza, perché di questo si tratta e non di una invenzione dell'orrido Potere, insegnamenti per evitare di tornare tout court alla "normalità" precedente, che non ci piaceva e che già combattevamo culturalmente, socialmente, politicamente. Non so se ci riusciremo, o saremo stroncate/i, ma forse occorrerebbero parole di incoraggiamento, piuttosto che altezzose reprimende da parte di chi "ha capito tutto".
Ci sono anche quelle/i che sostengono che il paese di fronte al virus è crollato eticamente e politicamente. Lasciamo stare che a buona ragione uno potrebbe dire che è da mo' che è crollato, epperò la maggior parte delle/dei cittadine/i ha accettato le misure di sicurezza, la Confindustria ha continuato a fare la Confindustria, le/gli operaie/i che hanno dovuto lavorare hanno continuato anche a scioperare per ottenere maggiori garanzie, compresi i driver. Che poi il governo ci provi a fare il di più c'era da aspettarselo, continuiamo comunque nel parere che in casa bisogna restare: ma davvero non c'è più nessuna fiducia che se dovesse esagerare e approfittarne troppo una buona parte del paese non gli scatenerebbe addosso una reazione (noi vecchietti compresi)? Non ci crediamo. L'unico problema sarà che prima a farla sarà la destra, in nome delle libertà morali, etiche e costituzionali di cui è diventata depositaria. Grazie anche alla fu sinistra
Si parla di aggressioni e delazioni da parte di vicine/i di casa? di caccia agli untori? di abusi di forze dell'ordine?...Non è che siano proprio delle novità! Sarà che queste cose si sono intensificate da quando una sciagurata destra al potere economico, finanziario, culturale - e ci mettiamo dentro certa parte della "sinistra istituzionale" - ha occupato i posti dirigenziali di questo sfortunato paese. Lavoratori non italiani uccisi, non italiani accusati di essere stupratori in quanto etnia... E poi Carlo Giuliani, Cucchi, Aldrovandi, Varalli e Zibecchi..., Genova, con i responsabili premiati, arresti di chi manifesta contro il Tav, migranti lasciati morire in mare... Questo e molto altro è il recente nostro passato repressivo, da quando si è lacerato il tessuto sociale e democratico egemonico in Italia fino a qualche decennio fa. Non parliamo dell'austerità, della disgregazione della sanità pubblica a favore della privata.
Se si vuol dire che questa mentalità repressiva e barbara coglie l' occasione per manifestarsi più liberamente oggi, grazie all'emergenza, siamo d'accordo. Se si vuol dire che i e le responsabili della distruzione del tessuto democratico vogliono e tenteranno di approfittare anche loro per dare un colpo a espressione e iniziativa di pensiero critico e dissenso, è una paura che abbiamo tutte e tutti. Ma appunto occorre non solo vigilare, ma incoraggiare e rendere il più possibile pubbliche tutte le riflessioni e pratiche che comunque si mettono in atto per fare argine a questa ondata autoritaria e regressiva (pensiamo ad esempio che in Polonia stanno approfittando per dare un colpo all'interruzione volontaria di gravidanza, mentre le donne non possono manifestare per il lock down, e hanno tentato anche qui). Iniziative che comunque esistono, basta cercarle.
In ultimo: ci sono addirittura coloro che accusano di ignavia e subalternità chi (e sono la maggior parte del paese) si attiene alle disposizioni. Pensiamo che non sia giusto né produttivo, che sia deprimente lanciare solo allarmi senza avanzare ipotesi plausibili: ribellarsi alle misure imposte, rischiando contagi. A meno che non si pensi che non sia una pandemia, ma un semplice strumento esagerato per imporre il controllo.





giovedì 6 febbraio 2020

La reazione alle lotte delle donne si fa dura anche in Italia



Mi sono tenuta accuratamente estranea alle polemiche relative al Festival di San Remo commentate in rete, perché secondo me hanno avuto e continuano a avere lo scopo di pubblicizzarlo ancora di più e renderlo l'avvenimento principale italiano già venti giorni prima dell'inizio.
Io non lo guardo non per snobismo e/o motivi ideologici, ma perché mi annoia, non mi piacciono il tipo di canzoni presentate, le battute di chi interviene.....la trasmissione in sé, la avverto come qualcosa di stantio.
Ho visto, in face book. il monologo di Rula Jebreal, peraltro mandato in onda a mezzanotte, non sia mai che lo vedano in troppe, e adesso vedo in rete il commento di Giorgia Meloni, in una trasmissione televisiva, la quale si lamenta che una persona "politicamente schierata", suppongo a sinistra, vada a fare un monologo di mezz'ora pagata con i soldi pubblici senza contraddittorio, mentre se l'avesse fatto, al tempo del governo di centro-destra, una persona come Giordano ad esempio (?) sarebbero stati  chiamati i "caschi blu" (?????)
La mia prima reazione è stata una risata, da quando una persona che va a parlare in televisione contro crimini deve avere il contraddittorio di criminali?
Faccio un appello contro la pedofilia, laica o sacerdotale, e deve esserci il pedofilo di turno a difenderla; parlo contro il furto e le rapine, e devono esserci i rapinatori a spiegare le proprie ragioni; condanno la violenza degli uomini sulle donne, e deve esserci il violentatore di turno a giustificare violenze e femminicidi.
Poi ho riflettuto che la questione è più sottile di quanto può apparire, non si tratta dell'emerita scemenza, tanto più insopportabile perché pronunciata da una donna, ma di una strategia politica volta a dissimulare e a mascherare la portata eversiva di un conflitto che mina la base stessa dell'ordine patriarcale, sgretolandola, vale a dire la messa in discussione delle relazioni tra donne e uomini, costruite sulla divisione sessuale del lavoro e di conseguenza sullo scambio sessuo- economico.
La reazione da parte del patriarcato e dei suoi sostenitori, uomini patriarcali, che ne godono i privilegi, e delle sostenitrici, donne complici e perciò ammesse a godere briciole di privilegi, purché si mantengano in posizioni subordinata, si fa dura, in considerazione della rilevanza crescente delle 
 lotte delle donne in Italia e nel mondo.
Che si tratti dello sciopero generale dell'Otto marzo, piuttosto che delle varie manifestazioni, prese di posizione pubbliche, o dichiarazioni da parte delle alte cariche dello Stato e delle Istituzioni politiche sui  femminicidi, ormai l'emergenza della violenza degli uomini sulle donne non è più nascosta nelle pieghe di un sociale malato, moralistico e familistico. Occorre combattere in tutti i modi la diffusione della  consapevolezza, sia con l'intensificarsi degli atti di violenza, per intimidire ee donne e  fiaccarne le resistenze delle donne, sia con operazioni di  dissimulazione, normalizzazione, minimizzazione, riduzione a momenti episodici. da parte di opinion maker,  giornalisti/e, politici/che.
Se analizziamo il senso dell'operazione della signora Meloni notiamo alcuni aspetti paradigmatici di questa reazione:
1) nessun accenno al tema trattato, all'argomento del monologo, è presentato come un comizio politico di mezz'ora, che in quanto tale richiede un contraddittorio. 
Si avverte la stessa opera di disinformazione attuata da giornaliste/i  nel riportare i femminicidi come effetto di "troppo amore", "raptus" "gelosia", basta non si accenni esplicitamente a violenza degli uomini sulle donne,
2) l'argomento in questione è reso pertanto  come un tema di schieramento politico, in quanto tale sempre opinabile, appunto un'opinione, non una realtà in atto con una rilevanza particolare, non ha dimensione sociale, si può pensare che esista o no.
3) il fatto che lo dica una donna, che osserva tra l'altro, en passant, che Rula Jebreal è una "bellissima donna", da un lato dimostra come la mentalità-lingua dei maschi  patriarcali sia interiorizzata in donne all'apice di carriere politiche, istituzionali, culturali come unica lingua del potere, dall'altro rivela la miseria intellettuale e psicologica della Meloni, cosa della quale non varrebbe la pena occuparsi, se non ricoprisse il ruolo politico attuale.
Di donne così non abbiamo proprio bisogno, né noi donne, né gli uomini.

mercoledì 8 gennaio 2020

Per iniziare a cambiare radicalmente lo stato di cose presente

Il pretesto per questa riflessione mi è offerto da una serie di rilievi su fb. suscitati da una mio post che riporto:
"So bene che il giudizio estetico è soggettivo e non si può recriminare se un premio è dato a un'opera, piuttosto che a un'altra. Ma mi chiedo come mai sia la Palma d'oro di Cannes che il Golden Globe (per quello che valgono questi premi) siano stati assegnati a Parasite, oppure all'attore di Joker, mentre sia stato ignorato Ritratto di una giovane in fiamme.
Dà fastidio a qualcuno?"
Qualcuna ha concordato con me, attribuendo la scarsa considerazione  all'omofobia, qualcun'altra ha osservato che il film ha ricevuto a Cannes un premio importante, ma quelli che mi hanno colpito sono altri commenti: che i  tre film non sono comparabile tra loro, che Joker e Parasite sono molto  più belli per "densità artistica", "complessità di contenuti", "potenza strutturale".
Io non sono in grado di obiettare sulla densità artistica e la potenza strutturale, ma sulla complessità di contenuti ho da dire qualcosa:

Parasite è un bel film sulla lotta di classe in Corea del Sud, regione fortemente orientata ai valori occidentali,  i protagonisti sono due famiglie, una alto borghese e ricca, in un contesto caratterizzato da forti diseguaglianze sociali, una famiglia apparentemente aperta e ben disposta verso le classi impoverite, in realtà infarcita di pregiudizi, che emergono in momenti di emergenza.
L'altra è una famiglia "operaia", tutti i componenti svolgono lavori precari, malpagati, abitano in uno scantinato fatiscente, sognando la possibilità di sottrarsi con lavori dignitosi a quel destino sociale.
L'emergenza farà  piazza pulita delle apparenze in entrambe le famiglie.
Joker ha dato il via a un acceso dibattito sul grado di conflittualità nella capitale dell'Occidente e sui possibili esiti di una ribellione da parte delle persone meno garantite economicamente e socialmente.

Certo che questi sulle diseguaglianze e le ingiustizie sociali sono temi complessi, aggravati dalla spietata voracità delle  classi dominanti di tutto il mondo, in questo momento storico di apparente vittoria nel conflitto di classe.
Certo che ogni prodotto artistico può essere più o meno apprezzato, e nulla autorizza a mettere in dubbio scelte estetiche, ma il fatto che possa essere considerato un contenuto più importante la denuncia delle ingiustizie economico-sociali e politiche di un sistema rispetto alla denuncia del rapporto patriarcale  che regola le relazioni tra uomini e donne nelle società, modello di relazione che è alla base dei sistemi finora conosciuti, mi sembra opinabile.
In Ritratto di una giovane in fiamme, secondo me, non c'è solo la bella storia d'amore, non c'è solo l'amore tra due donne, dimensione ormai più accettata nel nostro mondo occidentale rispetto a altri tempi e altri luoghi, a causa delle battaglie decennali condotte per i diritti civili,  c'è anche forte la denuncia della condanna patriarcale, alla quale la figlia maggiore si sottrae con il suicidio, e la minore si sottomette, sostenuta dalla forza e dalla consapevolezza di sé acquisite nella sua relazione con la donna amata, in un'epoca, il Settecento, nella quale le difficoltà di conquistare un'autonomia dalle convenzioni sociali erano maggiori di oggi.
Questo contenuto, forse messo in ombra dal discorso della "passione" tra le due donne, mi sembra forte e complesso, e non dovrebbe essere sottovalutato, pena l'impossibilità di cambiare  radicalmente lo stato di cose presente.


sabato 4 gennaio 2020

Donne e guerre. Visibilità/invisibilità delle donne nelle guerre



Riporto parte di una riflessione su Donne e guerre che ho scritto in occasione di un Convegno tenutosi in Colombia a Baranquilla nel settembre del 2019, in corso di pubblicazione negli Atti del Convegno.
Lo pubblico ora, quando soffiano impetuosi nuovi venti di guerra vicino a noi, mentre non hanno mai smesso di soffiare in luoghi più distanti.
Gli ultimi avvenimenti politici hanno riportato in primo piano il pericolo di guerre che possono coinvolgerci direttamente,
L'effetto immediato oltre allo sgomento e al timore, è stato di cancellare dalle prime pagine dei giornali e dai servizi televisivi ogni notizia della vita quotidiana, di riferire tutto a guerre possibili e incombenti, vendette immaginate, ritorsioni, tutte illustrate da competenti, rigorosamente uomini, perché ufficialmente è "affare loro".
E' pure vero che in anni recenti abbiamo avuto due donne Segretarie di Stato in USA, ma per l'appunto si è trattato di due eccezioni che confermano la regola, "sorelle degli uomini", cooptate da loro e fedeli alle loro strategie politiche degli uomini che le hanno promosse.
 Anche se le moderne tecnologie hanno sovvertito molte delle immagini interiorizzate rispetto alle guerra conosciute fino a 50 anni fa, con l'impiego orribile di droni, guidati come in un videogiochi,  e il conseguente sterminio di civili, certe motivazioni di fondo, soprattutto riguardo alle relazioni tra donne e uomini di fronte alle guerre, non sono cambiate di tanto, si sono solo modernizzati i ruoli. 

"La letteratura dell’Occidente comincia con la glorificazione di una guerra di rapina" (Christa Wolf) 1,
"Gli uomini hanno paura che le donne raccontino tutta un'altra guerra" (Svetlana Aleksievic) 2

Premessa  
Le donne non spariscono nelle guerre, come a volte si è portate/i a pensare, ma nella narrazione che ne è fatta. Anche quando sono le donne a raccontare, spesso il modello di ricostruzione è quello unico, secondo un paradigma maschile, apparentemente neutrale, fatto di ideali, eroismi, sacrifici. Quando si parla di donne nelle guerre queste ultime sono rappresentate o come vittime di stupri e aggressioni, oppure affannate a districarsi nelle mille difficoltà per portare avanti la vita propria, e quelle che dipendono da loro. Nel caso poi ci si riferisca a combattenti, una minoranza comunque, ad esempio nella Resistenza, si esaltano le doti di coraggio, l’’eroismo, lo spirito di sacrificio comuni agli uomini.
Le ragioni dell’uniformità di modelli narrativi affondano nella patriarcale divisione sessuale del lavoro, secondo la quale agli uomini è attribuita la sfera delle relazioni pubbliche (politica, guerre, lavoro) e della presa di parola pubblica, alle donne quella delle relazioni private e dei sentimenti.
Dimensione che offre loro il massimo di potenza immaginaria e il massimo di impotenza reale.

Nel mito
Eco e Medusa, due figure che simboleggiano l’obbligo delle donne al silenzio pubblico, rappresentando un monito severo per quelle che abbandonano la sicurezza confortevole dei luoghi a loro assegnati dal patriarcato, vale a dire il mondo degli affetti, della cura alle persone e agli animali, della manutenzione e riparazione di ambienti e oggetti per avventurarsi nei territori infidi della produzione culturale, del sociale e del politico, trascurando così la funzione prioritaria del femminile, storicamente determinata, ma naturalizzata da millenni di pratica.
La loro vicenda segnala i rischi più comuni che si corrono: la ripetizione balbettante di cose già dette da altri o il silenzio.
Eco perde il corpo per un eccesso di passione, poco importa che ne sia l’oggetto -nel mito meno conosciuto è fatta a pezzi mentre sfugge a Pan- o il soggetto -si consuma fino a confondersi con la roccia della montagna nell’amore non corrisposto per Narciso- di lei resta solo la voce, Giunone le ha inflitto un terribile destino: non può prendere l’iniziativa di parlare per prima, deve limitarsi a ripetere frammenti disarticolati, le sillabe finali delle parole altrui.
Ha voce, ma non la dignità del dire, del parlare in prima persona.
Medusa perde anch’essa il proprio corpo, è una bellissima donna punita dalla dea Atena per averne la sfidato bellezza, è presente nel nostro immaginario come testa terrificante, la bocca spalancata in un urlo muto e disperato e lo sguardo che ha il potere di pietrificare chi la guarda. La sua testa mozzata andrà ad adornare lo scudo di Atena, la vergine saggia, fedele alleata di eroi, uscita dal capo di Giove, nascita che l’ha liberata dall’umiliazione di nascere da un corpo di donna. Medusa non ha voce, la sua cifra è il silenzio, solo lo guardo comunica, è di orrore e terrorizza, che cosa ha visto? Che cosa sa? Non ha voce per dirlo, per avvertirci.
In entrambi i miti la punizione è inflitta per mano di altre due donne, peraltro dee, Giunone e Atena, che incarnano nella nostra cultura due modelli conformi al destino sociale delle donne, la prima è la madre, potente e fiera del suo potere, anche se comunque subordinata al marito Giove, orgogliosa e gelosa delle sue prerogative, protettrice dell’istituzione familiare. L’altra è la sorella, savia e forte, protettrice della guerra e delle tecnologie produttive, vera donna emancipata, che ha assunto i modelli di parola e azione maschili.
Due ruoli pacificati e pacificanti, che mantengono l’ordine sociale costituito.
Nello stesso tempo Eco e Medusa segnalano l’insopprimibile passione a infrangere gli interdetti reali
o immaginari, auto o etero imposti, anche a rischio di perdere un’interezza-il corpo-.

Nulla chiama in causa la questione delle relazioni tra gli uomini e le donne come le guerre, guerreggiate, minacciate, mascherate, ignorate; la Storia insegnata, ricordata, trasmessa è prevalentemente storia di guerre, resistenze, lotte di oppressione e liberazione a cominciare dal fondamento della cultura occidentale, l’Iliade.
Nulla più della guerra rimette a posto il disordine sociale rispetto ai compiti e alle funzioni di genere, nulla quindi, in ultima istanza, risulta più rassicurante dinanzi ai veloci cambiamenti di mentalità, atteggiamenti, comportamenti e costumi.
Gli uomini -guerrieri- rischiano la vita per la difesa di valori, persone, beni, ideali civili e/o religiosi, riconquistando una centralità e un'autorità che sentono messa in crisi dai tentativi delle donne di sottrarsi alla permanente subordinazione sociale e culturale
Le donne, in trepida attesa del ritorno dei loro eroi, da curare nel fisico e nello spirito, trovano una pausa dalle quotidiane fatiche di conquistare un'autonomia di pensiero e azione, nonché dal senso di impotenza e dalla delusione che spesso gravano sulle spalle di chi intraprende un percorso esterno agli schemi di genere socialmente accettati.
Il destino femminile di cura e accudimento, interiorizzato nell'educazione di genere, ritorna a essere risorsa sociale, collettiva e individuale, fattore di esaltazioni e riconoscimenti altrimenti negati.

Concorrono all'incantamento nei confronti della guerra anche le narrazioni costanti del nostro passato collettivo e individuale, che pongono l'accento soprattutto su eventi bellici, pur mostrandone gli orrori, ma presentandoli come ineliminabili, quasi fossero tratti di specie, oscurando il fatto che molti conflitti furono risolti attraverso mediazioni, dialoghi, scambio di pensieri e parole tra uomini, e anche donne.

Nella storia
Tre scrittrici testimoni loro malgrado delle guerre e degli orrori del Novecento, si sono interrogate sul significato attuale dei miti fondativi della nostra civiltà occidentale, Christa Wolf, Svetlana Aleksievich e Marguerite Yourcenar,  Wolf e Yourcenar indagano due figure principali del nostro immaginario, Cassandra e Clitennestra, sovvertendone le immagine trasmessaci dalla tradizione di una Cassandra profeta inascoltata da chi avrebbe dovuto crederle per evitare la rovina e di una Clitennestra, mostro sanguinario, fedifraga e assassina spietata. 

Nella rappresentazione di Wolf Cassandra inizialmente vuole per sé il potere destinatole per nascita in quanto figlia amatissima di Priamo, sacerdotessa, e quindi con un ruolo di prestigio nella sua comunità, quando si accorge del disinganno, delle menzogne relative alla guerra, dell’ipocrisia che regna nel Palazzo e anche tra i suoi familiari, arriva a ipotizzare che Elena sia un pretesto, e non esista, si ammala, rinunciando a ruolo e vita a Palazzo.
Quando, portata da Agamennone schiava a Micene, incontra Clitennestra, ha un moto di pietà, intuisce che al di fuori della guerra degli uomini avrebbero potuto anche essere amiche:

"Prima, quando la regina uscì dalla porta, lasciai che mi nascesse dentro un'ultima esilissima speranza, poterle strappare la vita dei bambini. Poi ho dovuto solo guardarla negli occhi: lei faceva quel che doveva. Non ha fatto lei le cose. Si adegua allo stato delle cose. O si sbarazza dell'uomo, quella testa vuota, completamente, oppure rinuncia a sé: alla vita, alla reggenza, all'amante, che del resto se interpreto bene la figura sullo sfondo, è ugualmente una testa vuota innamorata di sé, solo più giovane, più bello, di carne liscia. Con una scrollata di spalle mi fece capire che quel che accadeva non era rivolto direttamente contro di me. Niente in altri tempi avrebbe potuto impedire di chiamarci sorelle, questo lessi sul viso dell'avversaria, dove Agamennone, l'imbecille, avrebbe dovuto vedere amore devozione e gioia di rivederlo, questo vide. Perciò inciampò su per il rosso tappeto, come il bue che va al macello, lo pensammo entrambe, e agli angoli della bocca di Clitennestra apparve lo stesso sorriso che a quelli della mia. Non crudele. Doloroso. Perché il destino non ci ha posto dalla stessa parte". 3

Clitennestra, donna di maschio volere secondo l’espressione di Eschilo, nel racconto di Yourcenar acquista progressivamente negli anni consapevolezza del proprio valore e della propria forza, esercitando la funzione di capo durante l’assenza di Agamennone, così come molte donne durante le guerre suppliscono alle assenze degli uomini. Si sente anche più capace e meritevole di quel ruolo a cui non vuole rinunciare del marito e di altri uomini dai quali è circondata, quale ad esempio il pauroso Egisto, ma soprattutto si rende conto della falsità di una vita, programmata fin dalla nascita dai genitori, aspettata con ansia nell’adolescenza, destinata ad amare, servire, onorare un uomo senza particolari qualità, tutto preso dalle vicende della guerra e dai piaceri sessuali con le donne incontrate in guerra. L’amore folle tradito e il disincanto la portano a organizzarne l’uccisione.
La Clitennestra di Yourcenar non può provare empatia per la schiava di suo marito, anzi la dipinge con parole di disgusto, la chiama la sua gialla schiava turca abituata a giocare con le ossa dei morti:

"Ero in attesa sotto la Porta dei Leoni; un parasole rosa imbellettava il mio pallore. Le ruote della vettura scricchiolavano sull'irta salita; la gente del villaggio si attaccò alle stanghe per alleviare la fatica ai cavalli. Alla svolta della strada potei finalmente intravedere la carrozza un po' più alta della cima delle siepaglie, e mi accorsi che ìl mio uomo non era solo. Gli stava accanto quella specie di maga turca che si era scelta come parte del bottino, benché fosse un pochino guasta, forse, dai giochi dei soldati. Era quasi una bambina; aveva dei begli occhi cupi in un viso giallo tatuato di ferite; lui le accarezzava il braccio per impedirle di piangere. L'aiutò e scendere dalla carrozza; mi abbracciò freddamente, mi disse che contava sulla mia generosità per far buona accoglienza a quella ragazza orfana di padre e di madre" 4

Due forme opposte, quella di Cassandra e quella di Clitennestra, e reali di relazioni tra donne vittime della stessa violenza maschile, la violenza strutturale della società patriarcale, della quale la guerra è l’esempio più significativo. Uno degli effetti più deleteri delle guerre è la divisione tra donne che la guerra degli uomini comporta, anche quando sarebbe necessaria la solidarietà.

Osserva Wolf a proposito della guerra e delle donne:

"…Europa [era] la figlia del re fenicio, che il dio Zeus, in sembianze di toro, rapì dalla fenicia portandola a creta, dove lei partorì, tra gli altri figli, il futuro re
Minosse. Un atto di violenza contro una donna fonda, nel mito greco, la storia dell'Europa" 5

Riporta poi l’osservazione di un giovane uomo che ascolta una sua conferenza:

"…bisognava smetterla di piangere sulla sorte della donna in passato. Che lei si assoggettasse all’ uomo, che lo curasse, che lo servisse – esattamente questa era stata la condizione perché l’uomo potesse concentrarsi sulla scienza, o anche sull’arte, e dare risultati di altissimo livello in entrambi i settori. Il progresso era stato e era impossibile in altro modo." 6

Svetlana Aleksievich fa un’operazione singolare, scrive un libro di narrazione di guerra femminile.

"La ricerca è durata sette anni, il libro è stato pubblicato quasi vent'anni dopo la sua stesura al tempo della perestrojka di Gorbaciov, perché prima era censurato con il pretesto che la guerra che raccontava era troppo spaventosa, troppi orrori e troppi dettagli naturalistici, in una parola non era la guerra giusta, da tramandare, bisognava invece parlare dei gesti eroici, non infangare tutto rimestando nel sudiciume e nella biancheria intima, in questo modo si sminuivano le donne, riducendole a donne comuni, a femmine."

Avverte Aleksievich:

“Scrivo un libro sulla guerra… Io che non ho mai amato leggere i libri di guerre benché per tutta la mia infanzia e adolescenza fossero le letture preferite di tutti…E non c'era niente di strano: non eravamo forse i figli della Vittoria? I figli dei vincitori? … c'erano già state migliaia di guerre, grandi e piccole, note meno notte. E libri e libri che le avevano narrate erano ancora più numerosi. Ma… erano libri scritti da uomini che parlavano di uomini… Tutto quello che sapevamo sulla guerra c'era trasmesso da voci "maschili". Siamo tutti prigionieri di una rappresentazione "maschile" della guerra. … nelle narrazioni delle donne non c'è, o non c'è quasi mai, ciò che siamo abituati a sentire…i racconti femminili parlano d'altro. La guerra "femminile" ha i propri colori, odori. una sua interpretazione dei fatti ed estensione dei sentimenti. E anche parole sue.… E a soffrir non sono solo loro (le persone!), ma anche i campi, e gli uccelli, e gli alberi" 7


Note

1) Christa Wolf, Premesse a Cassandra. Quattro lezioni su come nasce un racconto, Roma, edizioni e/o, 1984, p. 22

2) Svetlana Aleksievich, La guerra non ha un volto di donna, Milano, Bompiani, 2015, p. 20

3 Christa Wolf, Cassandra, Roma, e/o edizioni, 1984, p. 57

4 Marguerite Yorcenaur, Clitennestra o del crimine, http://www.i-libri.com/opere/clitennestra-o- del-crimine-di-m-yourcenar/

5 Christa Wolf, Premesse, p.98

6 ibidem, pp.147-148

7 Svetlana Aleksievich, La Guerra, pp 7-10