Proprio il discorso della complicità di noi donne con l'ordine costituito ha imposto di fatto la pratica dell'autocoscienza, l'unico modo per scoprire, collettivamente, le interiorizzazioni delle immagini di genere prodotte dalla cultura patriarcale trasmesse a donne e uomini con le rispettive educazioni di genere, immagini accettate e riproposte, a volte inconsapevolmente.
I primi anni del femminismo (1969-1973) mi avevano visto animatrice di gruppi di analisi e confronto sui temi dell'oppressione delle donne, della loro marginalità rispetto ai luoghi di potere (il tetto di cristallo), del carico del doppio lavoro, delle difficoltà dell'autodeterninazione rispetto al proprio corpo e alla salute, degli ostacoli e dei vincoli opposti alle donne nei loro tentativi di conquistare indipendenza economica e autonomia dalla norma sociale.
Gli anni dell'autocoscienza mi ammutolirono; non appena mi resi conto di continuare a parlare un linguaggio ancora interno a un'ottica emancipazionista, ispirata al progetto di valorizzazione e promozione delle attitudini, capacità e competenze delle donne in tutti i settori della cultura, della politica e della vita sociale, mi trovai letteralmente senza parole, ma molto interessata a ascoltare chi mi sembrava più esperta nelle analisi delle complicità.
Era veramente disorientante mettere in discussione consapevolezze e certezze acquisite in anni di militanza politica, ritrovarsi quasi senza rete di protezione, senza sapere bene dove si sarebbe andate a parare.
L'unico luogo dove si pensava, e ci si illudeva, di essere al riparo da scossoni affettivi e emotivi sembrava essere il proprio gruppo di autocoscienza, dove si era comprese, perché si parlava una lingua comune, che si allontanava sempre più dagli altri linguaggi, e dove si era sostenute.
Successivamente ci si sarebbe accorte che anche tra donne si potevano riproporre i meccanismi consueti di potere, "l'occhio e la logica maschile" erano state interiorizzate da molte di noi, e non si poteva eliminare semplicemente allontanando gli uomini concreti dalle nostre riunioni, a quel punto molti gruppi di autocoscienza si sciolsero, spesso con lacrime e lacerazioni di relazioni.
Il separatismo, funzionale all'analisi dei meccanismi culturali e sociali determinanti delle identità maschili e femminili tradizionali, sconvolgeva anche equilibri nelle relazioni personali, specie con i propri uomini, equilibri magari raggiunti a fatica precedentemente, scompaginava anche alleanze sentimentali e politiche, fino ad allora coese.
Molte furono le crisi di relazioni in quel tempo, fiorivano battute sulle coppie che scoppiavano alla luce delle nuove consapevolezze maturate dalle donne su se stesse e sui propri desideri; al di là dei drammi che questo processo comportò, ebbe luogo per molte e molti una funzione chiarificatrice in merito alle ambiguità e ambivalenze sottese a molte relazioni d'amore.
I miei problemi con il materno, una certa inesperienza delle relazioni amicali e d'amore, e soprattutto l'ignoranza di quello che avrei voluto io da queste relazioni, provocarono in me una certa confusione, e una deriva ideologica, provocata da una sorta di scissione, lo dico con il senno di poi, che mi impedì di applicare alla mia realtà più profonda le analisi che andavo studiando e sperimentando nel gruppo.
Devo anche dire che erano anni per me molto affollati di impegni, lavoro, figli, ai quali accudire io e mio marito senza alcuna rete parentale di sostegno, riunioni, studi, con poco tempo per riflettere e metabolizzare eventi e discorsi.
Comunque fu un periodo molto ricco e entusiasmante per quanto di nuovo si stava elaborando da parte delle donne dei collettivi e dei gruppi di autocoscienza che costituirono il Movimento, ma anche da parte di studiose di varie discipline che, senza far parte attiva del Movimento, coglievano gli stimoli che provenivano dalle sue pratiche e teorizzazioni.
Divennero sempre più numerose e sofisticate le analisi dei modelli di organizzazione sociale, delle modalità affettive praticate, dei linguaggi disciplinari e scientifici dominanti.
La grande grande vivacità intellettuale di donne di tutte le età si traduceva anche immediatamente in momenti di lotta autorganizzati, creativi, progettuali nelle scuole, nelle fabbriche, nelle case.
Forte era poi il sentimento comune di dar vita a una socialità fino ad allora inedita.
Scorze di Adriana Perrotta Rabissi, un libro composto da miei brevi racconti e mie letture critiche di scrittrici amate. Alcuni romanzi mi hanno interpellato emotivamente e affettivamente, mi sono impossessata di temi, sentimenti, emozioni espressi dalle autrici, le ho filtrate attraverso la mia esperienza di vita e pensiero, e le ho restituite ai racconti
domenica 29 giugno 2014
venerdì 27 giugno 2014
Memorie di una femminista non pentita (V puntata)
Il discorso della complicità delle donne con l'ordine sociale e culturale costruito a dominanza maschile è stato dirimente tra l'emancipazionismo e il femminismo anni Settanta.
Non mi è stato facile abbandonare la dimensione di condanna della posizione di subalternità culturale e sociale delle donne rispetto agli uomini, a suo modo consolatoria perché legittimava ogni comportamento individuale e collettivo come reazione alla situazione, per avviare un'analisi di quanto fossimo anche noi donne responsabili, perché adattate nelle nicchie di contropotere, sicurezze, tutele, costruite nel corso del tempo, e che non volevamo perdere.
Un conto era trovarsi insieme a tante donne, e anche agli uomini sensibili ai temi, a lottare contro le discriminazioni salariali, l'isolamento nelle case a esercitare il lavoro domestico o la costrizione a sobbarcarsi il doppio lavoro, contro la mancanza di asili nido e servizi sociali, contro la medicalizzazione di ogni fase fisiologica, la mancanza di contraccezione sicura e di libertà di scegliere se essere o no madri. Tutte battaglie portate avanti in alleanza con le commissioni femminili dei partiti, con i sindacati e le Associazioni storiche dell' emancipazionismo, un altro conto era affrontare, necessariamente in piccoli gruppi e tra sole donne, l' analisi delle nostre relazioni con donne e uomini, delle complicità e dei compromessi messi in gioco per sopravvivere allo sconforto e ai sentimenti di fallimento individuale.
Fu per molte di noi il passaggio dalla presa di coscienza di una sorellanza nella comune oppressione di genere, quella che veniva chiamata istituzionalmennte la "questione femminile", all'autocoscienza.
Il periodo della sorellanza mi aveva aperto inedite prospettive di rapporti con le donne (più anziane di me o coetanee, della mia stessa condizione sociale e culturale o di condizione totalmente diversa), rapporti improntati alla fiducia, alla comprensione, alla possibilità di divertirsi, conoscere, sperimentare insieme, tra sole donne.
Erano sensazioni nuove e esaltanti per me, stretta com'ero tra l'ingiunzione materna di non fidarmi mai delle eventuali amiche, che prima o poi avrebbero cercato di tradirmi in qualche modo, e la curiosità che invece provavo nei confronti delle altre donne, mista a una forte dose di competitività.
Il rapporto con mia madre aveva rasentato pericolosamente la simbiosi, non ho mai cercato amiche del cuore, con le quali confidarmi, perché mi bastava lei, con la sua oblatività, potevo parlare di tutto, certa della sua comprensione e del suo incoraggiamento.
Giungevo a leggerle e commentare le lettere che qualche amica occasionale o compagna di classe mi scrivevano, durante i mesi estivi, lettere alle quali poi finivo per non rispondere, appagata dal confronto con lei.
Oltre al desiderio di controllo che mia madre ha esercitato fortemente su me, preoccupata della mia integrità psico-fisica, dato che sono stata una ragazzina molto precoce, c'era in lei il desiderio, questa volta dichiarato e programmato, di vivere attraverso di me un'adolescenza serena e "normale", che le sue vicende familiari le avevano impedito (triste vita in uno dei collegi delle sue zie suore dalla separazione dei genitori fino a 14 anni, rifiuto di continuare gli studi, suo grande desiderio, oppostole dal padre socialista con la scusa che non voleva mandarla in una scuola "insieme con i maschi").
Non credo che la mia esperienza sia diversa da quella vissuta da altre adolescenti dei miei tempi, il guaio èche mi è mancato il confronto allora con altre donne e/o ragazze, che mi avrebbero un po' aperto gli occhi, e che la morte di mia madre ha congelato la situazione dentro di me, non ho avuto sufficiente accortezza e intelligenza per analizzarla, anche se proprio il femminismo a un certo punto mi ha messo a disposizione gli strumenti di di analisi per farlo.
L'esperienza della nuova socialità tra donne si confuse ben presto nella mia storia personale con la mia ricerca di madre accogliente e consolatoria, quale era l'immagine che mi portavo dentro della mia madre reale.
Non mi è stato facile abbandonare la dimensione di condanna della posizione di subalternità culturale e sociale delle donne rispetto agli uomini, a suo modo consolatoria perché legittimava ogni comportamento individuale e collettivo come reazione alla situazione, per avviare un'analisi di quanto fossimo anche noi donne responsabili, perché adattate nelle nicchie di contropotere, sicurezze, tutele, costruite nel corso del tempo, e che non volevamo perdere.
Un conto era trovarsi insieme a tante donne, e anche agli uomini sensibili ai temi, a lottare contro le discriminazioni salariali, l'isolamento nelle case a esercitare il lavoro domestico o la costrizione a sobbarcarsi il doppio lavoro, contro la mancanza di asili nido e servizi sociali, contro la medicalizzazione di ogni fase fisiologica, la mancanza di contraccezione sicura e di libertà di scegliere se essere o no madri. Tutte battaglie portate avanti in alleanza con le commissioni femminili dei partiti, con i sindacati e le Associazioni storiche dell' emancipazionismo, un altro conto era affrontare, necessariamente in piccoli gruppi e tra sole donne, l' analisi delle nostre relazioni con donne e uomini, delle complicità e dei compromessi messi in gioco per sopravvivere allo sconforto e ai sentimenti di fallimento individuale.
Fu per molte di noi il passaggio dalla presa di coscienza di una sorellanza nella comune oppressione di genere, quella che veniva chiamata istituzionalmennte la "questione femminile", all'autocoscienza.
Il periodo della sorellanza mi aveva aperto inedite prospettive di rapporti con le donne (più anziane di me o coetanee, della mia stessa condizione sociale e culturale o di condizione totalmente diversa), rapporti improntati alla fiducia, alla comprensione, alla possibilità di divertirsi, conoscere, sperimentare insieme, tra sole donne.
Erano sensazioni nuove e esaltanti per me, stretta com'ero tra l'ingiunzione materna di non fidarmi mai delle eventuali amiche, che prima o poi avrebbero cercato di tradirmi in qualche modo, e la curiosità che invece provavo nei confronti delle altre donne, mista a una forte dose di competitività.
Il rapporto con mia madre aveva rasentato pericolosamente la simbiosi, non ho mai cercato amiche del cuore, con le quali confidarmi, perché mi bastava lei, con la sua oblatività, potevo parlare di tutto, certa della sua comprensione e del suo incoraggiamento.
Giungevo a leggerle e commentare le lettere che qualche amica occasionale o compagna di classe mi scrivevano, durante i mesi estivi, lettere alle quali poi finivo per non rispondere, appagata dal confronto con lei.
Oltre al desiderio di controllo che mia madre ha esercitato fortemente su me, preoccupata della mia integrità psico-fisica, dato che sono stata una ragazzina molto precoce, c'era in lei il desiderio, questa volta dichiarato e programmato, di vivere attraverso di me un'adolescenza serena e "normale", che le sue vicende familiari le avevano impedito (triste vita in uno dei collegi delle sue zie suore dalla separazione dei genitori fino a 14 anni, rifiuto di continuare gli studi, suo grande desiderio, oppostole dal padre socialista con la scusa che non voleva mandarla in una scuola "insieme con i maschi").
Non credo che la mia esperienza sia diversa da quella vissuta da altre adolescenti dei miei tempi, il guaio èche mi è mancato il confronto allora con altre donne e/o ragazze, che mi avrebbero un po' aperto gli occhi, e che la morte di mia madre ha congelato la situazione dentro di me, non ho avuto sufficiente accortezza e intelligenza per analizzarla, anche se proprio il femminismo a un certo punto mi ha messo a disposizione gli strumenti di di analisi per farlo.
L'esperienza della nuova socialità tra donne si confuse ben presto nella mia storia personale con la mia ricerca di madre accogliente e consolatoria, quale era l'immagine che mi portavo dentro della mia madre reale.
giovedì 26 giugno 2014
Memorie di una femminista non pentita (IV puntata)
Non so se mi fa bene andare a risvegliare certi ricordi, da un lato è la prima volta che li analizzo senza l'incalzare di una emozione contingente, in una dimensione più conoscitiva che compensatoria, come è la scrittura per me. Dall'altro però mi accorgo di procurarmi un'agitazione imprevista e un sotterraneo disorientamento, pericoloso per la mia fragilità emotiva di donna "anziana".
Non è neppure del tutto vero che abbia cominciato questa riflessione in una dimensione di atarassia -stato al quale aspiro da una vita, che non raggiungo mai, e nemmeno mi ci avvicino- in realtà sono spinta dal desiderio di capire una buona volta, arrivata a questo punto della mia vita, qualcosa del mio rapporto con le donne, passato, presente e futuro.
Non posso che partire da due eventi: il rapporto interrotto bruscamente con mia madre, l'esperienza di vita e di pensiero del femminismo.
Il nodo è apparso da subito stretto quando, dopo qualche tempo di pratica di autocoscienza condotta con il mio collettivo ininterrottamente per cinque anni (1973-1978), ho fatto un sogno ancora vivido nella mia memoria e alquanto terrorizzante, ho sognato mia madre, in figura di morta, che mi inseguiva in un corridoio con un pugnale in mano per colpirmi alle spalle.
Non ho mai fatto analisi o colloqui psicologici, non ho mai molto indagato la mia interiorità, neanche nell'età canonica dell'adolescenza, nella quale peraltro ho sofferto di un eccesso di fantasia compensativa, pari all'impotenza della quale mi sentivo preda. Un'attività fantastico-ossessiva che mi faceva preferire l'isolamento alla dimensione collettiva amicale, eccesso che mi si è puntualmente ripresentato altre volte nel corso della vita in situazioni di forte frustrazione emotiva.
Gli unici momenti di riflessione sul mio mondo interiore sono stati quelli dell'autocoscienza, in quegli incontri confrontavamo il nostro vissuto nelle relazioni, nella sessualità, nel lavoro, nella rappresentazione del mondo e nella autorappresentazione, mai però, nel mio gruppo, scendevamo a considerare qualcosa di più profondo, sia perché, consapevoli della nostra inesperienza nel campo psicologico, temevamo i possibili disastri derivanti da arbitrarie interpretazioni, sia perché volevamo evitare momenti di "sfogo emotivo", pratica largamente agita nelle tradizionali situazioni amicali tra donne, consuetudine che serviva senz'altro a a sollevare il morale al momento, ma non incrementava per niente la conoscenza delle responsabilità personali, individuali e collettive nel mantenere l'ordine simbolico vigente e rischiava di incrementare il vittimismo comune, accettato come dato ineluttabile, smorzando ogni volontà di modificazione all'interno di sé e all'esterno.
La pratica dell'autocoscienza ha significato molto per me in termini di comprensione del mondo e di me, mi ha aiutato a uscire dalla dimensione claustrofobica nella quale ero stata -e mi ero- rinchiusa, ma la mancanza di abitudine ad una pacata autoriflessione (sostituita da fantasie compensative esasperate che hanno agito da barriera difensiva) ha inciso in qualche modo sulla deriva ideologica che a un certo punto del percorso ha preso il mio femminismo.
Non è neppure del tutto vero che abbia cominciato questa riflessione in una dimensione di atarassia -stato al quale aspiro da una vita, che non raggiungo mai, e nemmeno mi ci avvicino- in realtà sono spinta dal desiderio di capire una buona volta, arrivata a questo punto della mia vita, qualcosa del mio rapporto con le donne, passato, presente e futuro.
Non posso che partire da due eventi: il rapporto interrotto bruscamente con mia madre, l'esperienza di vita e di pensiero del femminismo.
Il nodo è apparso da subito stretto quando, dopo qualche tempo di pratica di autocoscienza condotta con il mio collettivo ininterrottamente per cinque anni (1973-1978), ho fatto un sogno ancora vivido nella mia memoria e alquanto terrorizzante, ho sognato mia madre, in figura di morta, che mi inseguiva in un corridoio con un pugnale in mano per colpirmi alle spalle.
Non ho mai fatto analisi o colloqui psicologici, non ho mai molto indagato la mia interiorità, neanche nell'età canonica dell'adolescenza, nella quale peraltro ho sofferto di un eccesso di fantasia compensativa, pari all'impotenza della quale mi sentivo preda. Un'attività fantastico-ossessiva che mi faceva preferire l'isolamento alla dimensione collettiva amicale, eccesso che mi si è puntualmente ripresentato altre volte nel corso della vita in situazioni di forte frustrazione emotiva.
Gli unici momenti di riflessione sul mio mondo interiore sono stati quelli dell'autocoscienza, in quegli incontri confrontavamo il nostro vissuto nelle relazioni, nella sessualità, nel lavoro, nella rappresentazione del mondo e nella autorappresentazione, mai però, nel mio gruppo, scendevamo a considerare qualcosa di più profondo, sia perché, consapevoli della nostra inesperienza nel campo psicologico, temevamo i possibili disastri derivanti da arbitrarie interpretazioni, sia perché volevamo evitare momenti di "sfogo emotivo", pratica largamente agita nelle tradizionali situazioni amicali tra donne, consuetudine che serviva senz'altro a a sollevare il morale al momento, ma non incrementava per niente la conoscenza delle responsabilità personali, individuali e collettive nel mantenere l'ordine simbolico vigente e rischiava di incrementare il vittimismo comune, accettato come dato ineluttabile, smorzando ogni volontà di modificazione all'interno di sé e all'esterno.
La pratica dell'autocoscienza ha significato molto per me in termini di comprensione del mondo e di me, mi ha aiutato a uscire dalla dimensione claustrofobica nella quale ero stata -e mi ero- rinchiusa, ma la mancanza di abitudine ad una pacata autoriflessione (sostituita da fantasie compensative esasperate che hanno agito da barriera difensiva) ha inciso in qualche modo sulla deriva ideologica che a un certo punto del percorso ha preso il mio femminismo.
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mercoledì 25 giugno 2014
Memorie di una femminista non pentita (III puntata)
Forse ci fu un affollarsi troppo repentino di eventi personali, idee, scoperte di dimensioni diverse da quelle un po' claustrofobiche nelle quali ero vissuta fino ad allora, ne avrei scontato anni dopo la precipitosità e la mancanza di assimilazione emotiva e intellettiva, però furono tempi caotici anche per molti e molte della mia generazione.
La mia adolescenza era trascorsa nel chiuso di un piccolo nucleo familiare, i miei genitori erano entrambi emigrati a Milano, rompendo in modo più o meno definitivo con la propria famiglia d'origine, non ho frequentato né zie/i, né cugine/i, se non per brevi incontri occasionali, tranne che la mia nonna materna, "fuggita" a Milano con la figlia poco più che ventenne e per questo messa al bando dalla propria famiglia d'origine.
Ricordo vagamente che mia madre mi parlò di un discorso tra uomini, tra mio padre e mio nonno materno, che non ho mai conosciuto e che non era neanche intervenuto al matrimonio dei miei, discorso nel quale sembra che mio padre si sia fatto un dovere di avvertire il suocero che aveva trovato mia madre "a posto".
Questo ricordo mi affiora per la prima volta alla memoria, non so più neppure se l'ho costruito io o se è reale, fatto sta che mia madre e mia nonna, scappate a Milano da Genova, da sole, furono considerate dai e dalle loro parenti (famiglia patriarcale, infarcita di suore e preti) alla stregua di puttane.
D'altronde mio nonno era socialista e antifascista -il più giovane di di undici tra fratelli e sorelle, a sua volta pecora nera della famiglia benestante, ultracattolica e clericale- mio padre era un proletario, poliziotto e fascista, non si potevano vedere. Pur essendo socialista poi, mio nonno era anche razzista dato che sembra su sia scandalizzato all'idea che sua figlia sposasse un poliziotto per di più meridionale! (dai pochi accenni che mia madre ha fatto alla mia storia familiare quando avevo quindici o sedici anni).
Gli eventi fondamentali per me nel giro di un paio d'anni, dai venti ai ventuno, furono la morte di mia madre, l'innamoramento e l'impegno politico-sociale.
Tre episodi che fecero cambiare completamente la direzione del mio futuro, provocando rotture drastiche con il percorso personale e professionale che mi ero prefigurata fino a quel momento.
Matrimonio a ventitré anni, addirittura prima di discutere la tesi di laurea; l'ultima concessione al mio cattolicesimo, velato da una sfumatura di misticismo, fu proprio il matrimonio, che volli celebrare in chiesa (fedeltà al messaggio materno, dato che mia madre era morta?) di lì a poco avrei perso la fede, in maniera molto tranquilla, da un giorno all'altro mi parve tutto una bella favola (la struttura della chiesa l'avevo già messa in discussione da anni), non ho più creduto nella divinità di Gesù, mio eroe, fratello maggiore fin da quando ero bambina; mi è crollato tutto, anche se ho continuato per decenni a sognarmi il giudizio universale.
Abbandono dell'Istituto di Storia dell'Università, frequentato fin dal secondo anno con la prospettiva di intraprendere la carriera universitaria, situazione che mi aveva anche dato un piccolo stipendio mensile per un lavoro nell'ambito del CNR; erano sorte in me divergenze politiche con il mio professore di riferimento, avevo cambiato opinione io, non lui, alla sua richiesta di continuare opposi un gentile e netto rifiuto.
Di lì a poco scoppiò dentro e fuori di me il femminismo a sovvertire gli ultimi residui delle mie convinzioni e credenze e a rimescolare le mie carte..
La mia adolescenza era trascorsa nel chiuso di un piccolo nucleo familiare, i miei genitori erano entrambi emigrati a Milano, rompendo in modo più o meno definitivo con la propria famiglia d'origine, non ho frequentato né zie/i, né cugine/i, se non per brevi incontri occasionali, tranne che la mia nonna materna, "fuggita" a Milano con la figlia poco più che ventenne e per questo messa al bando dalla propria famiglia d'origine.
Ricordo vagamente che mia madre mi parlò di un discorso tra uomini, tra mio padre e mio nonno materno, che non ho mai conosciuto e che non era neanche intervenuto al matrimonio dei miei, discorso nel quale sembra che mio padre si sia fatto un dovere di avvertire il suocero che aveva trovato mia madre "a posto".
Questo ricordo mi affiora per la prima volta alla memoria, non so più neppure se l'ho costruito io o se è reale, fatto sta che mia madre e mia nonna, scappate a Milano da Genova, da sole, furono considerate dai e dalle loro parenti (famiglia patriarcale, infarcita di suore e preti) alla stregua di puttane.
D'altronde mio nonno era socialista e antifascista -il più giovane di di undici tra fratelli e sorelle, a sua volta pecora nera della famiglia benestante, ultracattolica e clericale- mio padre era un proletario, poliziotto e fascista, non si potevano vedere. Pur essendo socialista poi, mio nonno era anche razzista dato che sembra su sia scandalizzato all'idea che sua figlia sposasse un poliziotto per di più meridionale! (dai pochi accenni che mia madre ha fatto alla mia storia familiare quando avevo quindici o sedici anni).
Gli eventi fondamentali per me nel giro di un paio d'anni, dai venti ai ventuno, furono la morte di mia madre, l'innamoramento e l'impegno politico-sociale.
Tre episodi che fecero cambiare completamente la direzione del mio futuro, provocando rotture drastiche con il percorso personale e professionale che mi ero prefigurata fino a quel momento.
Matrimonio a ventitré anni, addirittura prima di discutere la tesi di laurea; l'ultima concessione al mio cattolicesimo, velato da una sfumatura di misticismo, fu proprio il matrimonio, che volli celebrare in chiesa (fedeltà al messaggio materno, dato che mia madre era morta?) di lì a poco avrei perso la fede, in maniera molto tranquilla, da un giorno all'altro mi parve tutto una bella favola (la struttura della chiesa l'avevo già messa in discussione da anni), non ho più creduto nella divinità di Gesù, mio eroe, fratello maggiore fin da quando ero bambina; mi è crollato tutto, anche se ho continuato per decenni a sognarmi il giudizio universale.
Abbandono dell'Istituto di Storia dell'Università, frequentato fin dal secondo anno con la prospettiva di intraprendere la carriera universitaria, situazione che mi aveva anche dato un piccolo stipendio mensile per un lavoro nell'ambito del CNR; erano sorte in me divergenze politiche con il mio professore di riferimento, avevo cambiato opinione io, non lui, alla sua richiesta di continuare opposi un gentile e netto rifiuto.
Di lì a poco scoppiò dentro e fuori di me il femminismo a sovvertire gli ultimi residui delle mie convinzioni e credenze e a rimescolare le mie carte..
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martedì 24 giugno 2014
Memorie di una femminista non pentita (II puntata)
Sono stata cattolica convinta, a quindici anni insegnavo catechismo alle bambine del mio oratorio, sono cresciuta in una famiglia nostalgica del fascismo e tradizionalista nei costumi e nelle relazioni, ma con una madre che cercava di motivare fortemente le sue figlie all'emancipazione economica, anche e soprattutto da un eventuale marito, un' emancipazione che a lei era mancata.
In questo senso si è battuta perché continuassimo gli studi, evitandoci il corso per "segretaria d'azienda" che, sosteneva mio padre, era il più adatto alla nostra situazione economico-familiare.
La storia imparata al liceo, la filosofia, i classici greci e latini mi aprirono orizzonti sconosciuti nel mio ambiente familiare, nel quale mio padre si vantava di non aver mai letto un libro in vita sua (ma leggeva regolarmente tutti giorni il Corriere dalla prima all'ultima pagina) e gli unici libri in casa erano la collezione di mia madre dei libri di Delly, che comunque ho letto anch' io, insieme a quelli che prendevo numerosi, divorandoli, nelle biblioteche scolastiche.
Le spese per i libri non erano contemplate nel ménage familiare; a nove anni, al tempo della cresima, chiesi come regalo alla mia madrina I promessi sposi. Mi regalò il romanzo in edizione Salani, con la copertina di cartone rosso, lo lessi tutto d'un fiato e lo rilessi più volte, era l'unico "classico" che allora possedevo.
Quando andai in IV ginnasio la professoressa di Italiano, Latino, Greco, Storia e Geografia (allora l'ordinamento scolastico prevedeva questo) chiese se avessimo in casa un'edizione dei Promessi sposi, io orgogliosamente mostrai la mia e fui irrisa e presa in giro perché era un'edizione di romanzetti rosa, imparai da allora a riconoscere il sadismo di certi insegnanti e la loro impreparazione pedagogica.
Gli studi universitari, mi occupai da subito di Storia, continuarono ad alimentare la mia cultura iniziale così modesta, e mi portarono a posizioni e a sensibilità politiche e sociali ben lontane dai valori coltivati in famiglia, ma fu il femminismo che diede una svolta radicale, perché la sua critica rovesciava il presupposto su cui si fondava l'ordine simbolico dominante, la "naturalità" dei ruoli sociali basati sull'appartenenza di sesso.
Questo presupposto, dal quale conseguono la divisione del lavoro, l'organizzazione delle famiglie, del mondo produttivo, della società e degli Stati, non era mai stato messo in dubbio, né dalla sinistra, né dall'emancipazionismo, tanto meno dalla religione, che poneva l'accento sulla complementarità dei due ruoli.
Io personalmente provavo una allora inspiegabile insofferenza nei confronti del mio destino biologico-sociale tradizionale. Anche se avevo davanti agli occhi esempi di matrimoni riusciti e famigliole felici, a cominciare dalla mia, mi sembrava che con il matrimonio sarebbe finita "la mia vita" libera e avventurosa, allora ricorsi a uno stratagemma fin dalla prima adolescenza: fantasticavo sul fatto che non mi sarei mai sposata perché il mio grande amore moriva in un incidente, in seguito all'evento drammatico avrei maturato la decisione di restare fedele alla sua memoria, date le mie convinzioni religiose non si poneva neppure il discorso di relazioni extraconiugali!
In un solo colpo mi liberavo di una "gabbia" verso la quale mi sentivo destinata dalla mia formazione familiar-religiosa, ma mi mettevo a posto la coscienza con la mia dimensione di "vera donna" che metteva l'amore davanti a tutto, anche alla realizzazione personale.
Così potevo contemporaneamente continuare a coltivare il mio romanticismo, un po' esagerato, leggendo e commovendomi davanti a storie d'amore -era il tempo di Guerra e pace e Anna Karenina-, senza rischiare di caderci di persona.
Allo scadere del ventesimo anno di età mi sono innamorata -colpo di fulmine- di un mio compagno di Università, e mi si è rivoluzionata la vita.
In questo senso si è battuta perché continuassimo gli studi, evitandoci il corso per "segretaria d'azienda" che, sosteneva mio padre, era il più adatto alla nostra situazione economico-familiare.
La storia imparata al liceo, la filosofia, i classici greci e latini mi aprirono orizzonti sconosciuti nel mio ambiente familiare, nel quale mio padre si vantava di non aver mai letto un libro in vita sua (ma leggeva regolarmente tutti giorni il Corriere dalla prima all'ultima pagina) e gli unici libri in casa erano la collezione di mia madre dei libri di Delly, che comunque ho letto anch' io, insieme a quelli che prendevo numerosi, divorandoli, nelle biblioteche scolastiche.
Le spese per i libri non erano contemplate nel ménage familiare; a nove anni, al tempo della cresima, chiesi come regalo alla mia madrina I promessi sposi. Mi regalò il romanzo in edizione Salani, con la copertina di cartone rosso, lo lessi tutto d'un fiato e lo rilessi più volte, era l'unico "classico" che allora possedevo.
Quando andai in IV ginnasio la professoressa di Italiano, Latino, Greco, Storia e Geografia (allora l'ordinamento scolastico prevedeva questo) chiese se avessimo in casa un'edizione dei Promessi sposi, io orgogliosamente mostrai la mia e fui irrisa e presa in giro perché era un'edizione di romanzetti rosa, imparai da allora a riconoscere il sadismo di certi insegnanti e la loro impreparazione pedagogica.
Gli studi universitari, mi occupai da subito di Storia, continuarono ad alimentare la mia cultura iniziale così modesta, e mi portarono a posizioni e a sensibilità politiche e sociali ben lontane dai valori coltivati in famiglia, ma fu il femminismo che diede una svolta radicale, perché la sua critica rovesciava il presupposto su cui si fondava l'ordine simbolico dominante, la "naturalità" dei ruoli sociali basati sull'appartenenza di sesso.
Questo presupposto, dal quale conseguono la divisione del lavoro, l'organizzazione delle famiglie, del mondo produttivo, della società e degli Stati, non era mai stato messo in dubbio, né dalla sinistra, né dall'emancipazionismo, tanto meno dalla religione, che poneva l'accento sulla complementarità dei due ruoli.
Io personalmente provavo una allora inspiegabile insofferenza nei confronti del mio destino biologico-sociale tradizionale. Anche se avevo davanti agli occhi esempi di matrimoni riusciti e famigliole felici, a cominciare dalla mia, mi sembrava che con il matrimonio sarebbe finita "la mia vita" libera e avventurosa, allora ricorsi a uno stratagemma fin dalla prima adolescenza: fantasticavo sul fatto che non mi sarei mai sposata perché il mio grande amore moriva in un incidente, in seguito all'evento drammatico avrei maturato la decisione di restare fedele alla sua memoria, date le mie convinzioni religiose non si poneva neppure il discorso di relazioni extraconiugali!
In un solo colpo mi liberavo di una "gabbia" verso la quale mi sentivo destinata dalla mia formazione familiar-religiosa, ma mi mettevo a posto la coscienza con la mia dimensione di "vera donna" che metteva l'amore davanti a tutto, anche alla realizzazione personale.
Così potevo contemporaneamente continuare a coltivare il mio romanticismo, un po' esagerato, leggendo e commovendomi davanti a storie d'amore -era il tempo di Guerra e pace e Anna Karenina-, senza rischiare di caderci di persona.
Allo scadere del ventesimo anno di età mi sono innamorata -colpo di fulmine- di un mio compagno di Università, e mi si è rivoluzionata la vita.
lunedì 23 giugno 2014
Memorie di una femminista non pentita (I puntata)
Negli anni Sessanta del '900 il benessere che cominciava a interessare anche l'Italia ha permesso a generazioni di ragazzi e soprattutto ragazze di origini modeste di studiare e progettare un futuro lavorativo migliore rispetto a quello dei propri genitori, bastavano l'ambizione e molto impegno nello studio.
Certo non era ancora diffusa come oggi la mentalità di fare sacrifici per investire sugli studi dei figli, specie delle figlie -ancora si sosteneva che il destino delle ragazze fosse di trovare un buon partito e sistemarsi, io stessa ho incontrato compagne all'Università di Milano che confessavano candidamente di non sapere se avrebbero concluso gli studi nel caso si fossero sposate- comunque anche se le condizioni economiche non permettevano di essere mantenute agli studi, si poteva contare su strumenti che aiutavano, borse di studio, presalario, e lavoretti saltuari assegnati dai professori agli/alle studenti volonterosi/e e con ottimi voti agli esami.
Iniziava il processo che avrebbe condotto alla scuola di massa di lì a un decennio, con i suoi lati positivi (accesso all'istruzione e quindi possibilità di promozione sociale di fasce della popolazione fino ad allora escluse) negativi (dequalificazione politicamente perseguita della scuola pubblica in Italia).
Alla fine del decennio gli avvenimenti politici che hanno scosso l'Occidente e non solo hanno mutato il quadro di riferimento e impresso un'accelerazione a trasformazioni culturali che forse avrebbero richiesto un tempo maggiore per essere metabolizzate.
Per quanto riguarda il femminismo il primo esito del conflitto con l'identità femminile tradizionale fu la rottura dell'universo simbolico di riferimento, in altre parole con quello che era stato inteso fino ad allora come destino biologico-sociale inevitabile per una donna: realizzarsi prioritariamente nell'ambito familiare e semmai in quello lavorativo, a patto di assolvere la sua funzione "naturale" e quindi primaria, secondo quanto anche recita la nostra Costituzione all'articolo 37, comma I :
"La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione" .
Il neo-femminismo, come si chiamò per distinguerlo da movimenti storici precedenti, si caratterizzò per la messa in discussione dell'emancipazionismo, inteso come processo di promozione delle donne al mondo maschile del lavoro, delle professioni, della cultura e della politica, fatte salve le prerogative della "femminilità", necessarie al mantenimento dell'ordine sociale.
Non che non ci siano stati casi di donne che si sono ribellate a questo destino, nel passato recente e remoto, ma si è sempre trattato appunto di casi individuali, spesso pagati con sofferenze e patimenti di varia natura, frutto di soggettività eccezionali per coraggio e determinazione.
In fondo la scelta di Franca Viola, che nel 1965 a soli diciassette anni, d'accordo con i familiari, rifiutò il matrimonio riparatore propostole dal fidanzato dopo il rapimento e lo stupro, scelta fatta individualmente, senza il conforto di reti sociali di consenso, prefigurava in qualche modo quello che di lì a pochi anni sarebbe stato teorizzato dai movimenti delle donne.
Ricordo ancora l'ammirazione che provai a quel tempo per il suo coraggio.
Sembrano cose lontanissime, e infatti appartengono al secolo scorso.
Rompere con l'identità femminile tradizionale significava mettere in crisi la codificazione vigente dei ruoli sociali, assegnati in base al sesso, quindi la divisione del lavoro considerata naturale -quello di produzione agli uomini e quello di riproduzione alle donne- con lei tutta una serie di vantaggi che le donne si erano ritagliate nella situazione, così come di contropoteri reali e/o immaginari nell'ambito degli affetti familiari.
Mi riferisco a un senso di onnipotenza affettiva, esercitata prevalentemente su figli e figlie, che pareva compensare per molte donne l'insignificanza reale, sentimento quello dell'onnipotenza derivante dall'esaltazione della figura materna, condotta in accoppiata da religione e senso comune.
Esaltazione accentuata fino alla santificazione dal cattolicesimo, con la proposta della madonna come modello (giustamente inarrivabile come tutti i modelli) e dalla cultura popolare della madre, centro degli affetti e unica detentrice dell'unità familiare, come documentato -e opportunamente criticato- in Rocco e i suoi fratelli (1960).
Mettere in discussione tutto questo però per alcune giovani donne non ha significato solo affacciarsi sulla scena pubblica senza più certezze e consolidate nicchie protettive, ma anche sovente mettere in crisi le scelte delle proprie madri, amate, odiate, ma comunque interiorizzate come modello, da imitare, da combattere, da modificare, ma pur sempre modello.
Quelle più fortunate poterono aprire direttamente conflitti e discussioni, a volte con esiti positivi, pur dopo contrasti e lacerazioni.
Chi non aveva più la madre reale dovette accontentarsi di confliggere con la figura interiorizzata, rischiando anche cantonate, senza possibilità di smentita.
Credo che questa sia stata una delle battaglie più dure per molte donne di vent'anni che parteciparono ai momenti di presa di coscienza, e in seguito di autocoscienza, agli inizi degli anni Settanta.
Certo non era ancora diffusa come oggi la mentalità di fare sacrifici per investire sugli studi dei figli, specie delle figlie -ancora si sosteneva che il destino delle ragazze fosse di trovare un buon partito e sistemarsi, io stessa ho incontrato compagne all'Università di Milano che confessavano candidamente di non sapere se avrebbero concluso gli studi nel caso si fossero sposate- comunque anche se le condizioni economiche non permettevano di essere mantenute agli studi, si poteva contare su strumenti che aiutavano, borse di studio, presalario, e lavoretti saltuari assegnati dai professori agli/alle studenti volonterosi/e e con ottimi voti agli esami.
Iniziava il processo che avrebbe condotto alla scuola di massa di lì a un decennio, con i suoi lati positivi (accesso all'istruzione e quindi possibilità di promozione sociale di fasce della popolazione fino ad allora escluse) negativi (dequalificazione politicamente perseguita della scuola pubblica in Italia).
Alla fine del decennio gli avvenimenti politici che hanno scosso l'Occidente e non solo hanno mutato il quadro di riferimento e impresso un'accelerazione a trasformazioni culturali che forse avrebbero richiesto un tempo maggiore per essere metabolizzate.
Per quanto riguarda il femminismo il primo esito del conflitto con l'identità femminile tradizionale fu la rottura dell'universo simbolico di riferimento, in altre parole con quello che era stato inteso fino ad allora come destino biologico-sociale inevitabile per una donna: realizzarsi prioritariamente nell'ambito familiare e semmai in quello lavorativo, a patto di assolvere la sua funzione "naturale" e quindi primaria, secondo quanto anche recita la nostra Costituzione all'articolo 37, comma I :
"La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione" .
Il neo-femminismo, come si chiamò per distinguerlo da movimenti storici precedenti, si caratterizzò per la messa in discussione dell'emancipazionismo, inteso come processo di promozione delle donne al mondo maschile del lavoro, delle professioni, della cultura e della politica, fatte salve le prerogative della "femminilità", necessarie al mantenimento dell'ordine sociale.
Non che non ci siano stati casi di donne che si sono ribellate a questo destino, nel passato recente e remoto, ma si è sempre trattato appunto di casi individuali, spesso pagati con sofferenze e patimenti di varia natura, frutto di soggettività eccezionali per coraggio e determinazione.
In fondo la scelta di Franca Viola, che nel 1965 a soli diciassette anni, d'accordo con i familiari, rifiutò il matrimonio riparatore propostole dal fidanzato dopo il rapimento e lo stupro, scelta fatta individualmente, senza il conforto di reti sociali di consenso, prefigurava in qualche modo quello che di lì a pochi anni sarebbe stato teorizzato dai movimenti delle donne.
Ricordo ancora l'ammirazione che provai a quel tempo per il suo coraggio.
Sembrano cose lontanissime, e infatti appartengono al secolo scorso.
Rompere con l'identità femminile tradizionale significava mettere in crisi la codificazione vigente dei ruoli sociali, assegnati in base al sesso, quindi la divisione del lavoro considerata naturale -quello di produzione agli uomini e quello di riproduzione alle donne- con lei tutta una serie di vantaggi che le donne si erano ritagliate nella situazione, così come di contropoteri reali e/o immaginari nell'ambito degli affetti familiari.
Mi riferisco a un senso di onnipotenza affettiva, esercitata prevalentemente su figli e figlie, che pareva compensare per molte donne l'insignificanza reale, sentimento quello dell'onnipotenza derivante dall'esaltazione della figura materna, condotta in accoppiata da religione e senso comune.
Esaltazione accentuata fino alla santificazione dal cattolicesimo, con la proposta della madonna come modello (giustamente inarrivabile come tutti i modelli) e dalla cultura popolare della madre, centro degli affetti e unica detentrice dell'unità familiare, come documentato -e opportunamente criticato- in Rocco e i suoi fratelli (1960).
Mettere in discussione tutto questo però per alcune giovani donne non ha significato solo affacciarsi sulla scena pubblica senza più certezze e consolidate nicchie protettive, ma anche sovente mettere in crisi le scelte delle proprie madri, amate, odiate, ma comunque interiorizzate come modello, da imitare, da combattere, da modificare, ma pur sempre modello.
Quelle più fortunate poterono aprire direttamente conflitti e discussioni, a volte con esiti positivi, pur dopo contrasti e lacerazioni.
Chi non aveva più la madre reale dovette accontentarsi di confliggere con la figura interiorizzata, rischiando anche cantonate, senza possibilità di smentita.
Credo che questa sia stata una delle battaglie più dure per molte donne di vent'anni che parteciparono ai momenti di presa di coscienza, e in seguito di autocoscienza, agli inizi degli anni Settanta.
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