sabato 28 marzo 2015

Scritture antipatiche 4. La 'madre meccanica' di Dolores Prato

Infanzia, lingua materna e lingue straniere sono gli assi portanti del romanzo autobiografico di Dolores Prato Giù la piazza non c’è nessuno; le oltre settecento pagine del racconto costituiscono un percorso di conoscenza di sé e di riconoscimento di persone, ambienti, oggetti e paesaggi frequentati da bambina, un viaggio in un territorio ricco di insidie, di esperienze dolorose, di ricordi incerti, compiuto attraverso le tre lingue conosciute nell’infanzia in conflitto dentro di lei, perché obbligate a sostituire l’unica lingua che avrebbe dovuto accompagnare la crescita della piccola Dolores, la lingua della madre, mancatale fin dalla nascita per l’abbandono materno.

Le tre lingue sono il dialetto di Treja, conosciuto quando aveva già cinque anni, la lingua della ‘cultura’, insegnatale a scuola e la lingua parlata in casa degli zii, che differisce alquanto da quella parlata dagli altri abitanti di Treia per questioni di cultura e di classe sociale. Nulla viene detto del periodo tra la nascita e i cinque anni, nessuna lingua e quindi nessun ricordo.

Il titolo del libro è tratto da una filastrocca con cui la intratteneva la tata, è un’opera singolare, pubblicata quando l’autrice era quasi novantenne, ma ridotta a un terzo dell’originale per ragioni di fruibilità dalla curatrice per le edizioni Einaudi, una scrittrice sensibile e attenta come Natalia Ginzburg.

Dolores rifiutò la mutilazione del suo romanzo, protestò e si affrettò a redigere un nuovo dattiloscritto, corredato di un’Appendice autobiografica, che dichiarò fermamente essere l’unico autorizzato.

Fu pubblicato nella sua integrità solo dopo la sua morte, avvenuta nel 1983.

Alle rimostranze rivoltele dal direttore dell’Espresso, che l’accusa di mostrare troppo rancore nei confronti di Ginzburg, risponde nel 1980:

"Alla Ginzburg sono sempre stata, lo sono e continuerò ad esserlo, gratissima. […] Lei ha sempre amato questo libro, con quelle manomissioni voleva renderlo più accessibile. Io salto i verbi come se qualcuno mi corresse dietro; i miei passaggi sono ponti levatoi mai abbassati; lei riduceva più intellegibile il mio modo di scrivere; ma io preferivo tenermi i miei difetti. Avevamo ragione tutte e due". (1)

Divenne subito un caso letterario, soprattutto in considerazione dell’età avanzata dell’autrice, il che oscurò, come osservò allora acutamente Lalla Romano, il valore artistico dell’opera.

Non era il suo primo romanzo, Prato, insegnante di liceo, studiosa di Dante e Leopardi, aveva passato la vita a collaborare a periodici culturali e a scrivere racconti e romanzi, dopo essere stata allontanata dall’insegnamento dalle leggi razziali, ma questo è senz’altro la sua opera più importante.

La scrittura è marcata da scelte lessicali anomale, molti sono i neologismi formati da intrecci di parole tratte dalle sue tre lingue.

Nel racconto abbondano elenchi di piante, fiori, animali, descritti con puntiglio catalogatorio, liste di oggetti di uso quotidiano, nonché descrizioni di paesaggi e di persone, adulte e bambine/i, tutti elementi collegati a episodi particolari della sua vita di bambina, parole che attivano i ricordi, momenti di improvvisa illuminazione, di paura, di gioia, di sofferenza, di speranza, di illusione e delusione.

L’affastellarsi di parole- immagini serve a Prato per evocare e rappresentarsi la propria infanzia, segnata irrimediabilmente dal marchio dell’abbandono materno.

Chi legge è coinvolto/a nella ricerca dell’autrice, che tiene a bada in questo modo il pericolo di smarrimento soggettivo indotto dal sentimento di inappartenenza e di mal-aimé provocato dall’esclusione dalla famiglia di origine, osserva l’autrice nell’Appendice:

“Non mi fu dimostrato amore, non imparai a dimostrarlo. Ho diffidato dell’amore dopo, perché non lo ebbi allora”. (2)


Prato nasce nel 1892 da una relazione extramatrimoniale della madre, che nei primi giorni non vuole neppure essere citata nel documento dell’anagrafe, qualche giorno dopo la riconoscerà dandole il proprio cognome, ma la metterà per un breve periodo in brefotrofio, fino ad affidarla a una famiglia di contadini.

Viene poi mandata a cinque anni a Treja, dagli zii, già anziani, che la ospiteranno fino ai diciotto anni, lo zio prete, di mentalità aperta, anticonformista, di formazione illuministica, in conflitto con la ristrettezza mentale del luogo e la sorella che gli fa da perpetua, donna fredda, che le presta le cure indispensabili, con distacco, misto a fastidio, senza affetto, le uniche carezze saranno quelle delle domestiche.

L’autrice dice di sé nell’appendice al romanzo:

“E io che fui? Una bambina un po’ dolorosa, un po’ curiosa[…]una bastarda, dirà chi la guarda dal disincanto. Bastarda integrale dico io, non solo per il concepimento, per la nascita in un nascondiglio segreto[…]non solo per la mia dimora, sia pure breve al brefotrofio, ma per tante altre cose. Intanto preparata da un illuminista quale era mio zio, per formarmi a modo suo, fui invece soffocata dall’educazione cattolica. Spuntata da un ramo di antichissima nobiltà, innestato con un poderoso ramo israelita, io che sono? […] Quel bocciolo di melanconia che era dentro di me sin da piccina, spuntava dal plurimillenario dolore ebraico. Io sono una commistione di ebraismo e cristianesimo […] sono una bastarda anche religiosamente: cresimata ma non battezzata”. (3)

L’infanzia è il tempo in cui si formano le categorie di interpretazione e di attribuzione di senso al mondo e a se stessi, categorie solitamente mediate dalla lingua materna.

Sostituto della lingua materna è il dialetto di Treja, che per altro Dolores conosce a cinque anni, un dialetto parlato dai piccoli amici e amiche, dalle domestiche che l’hanno coccolata, tra cui quella che Dolores chiama “Scolastica delle scantafavole”.

Lingua materna di seconda scelta, quindi, tuttavia sorgiva di parole-casa, parole-mondo, nelle quali avvolgersi come in un manto caldo e protettivo.

Quando entra in collegio Dolores è obbligata a parlare l’italiano scolastico, la lingua conforme al modello adottato (con miopia) dal nuovo Stato, una lingua imbalsamata rispetto all’espressività dei dialetti e del parlare comune, che vive nei libri piuttosto che nelle menti delle persone.

Ecco un esempio di come Prato fa interagire tra loro le parole appartenenti alle diverse lingue:

“Per me poi sulla parlata c’era un altro confine, un vallato profondo, ed era la nostra casa dove si parlava così bene come in nessun’altra casa[…] Solo Eugenia dentro casa nostra diceva prescia, noi dicevamo fretta, […]Noi dicevamo quercia, poveri e contadini dicevano cerqua; per me era più facile dire quercia e non capivo quella loro fatica inutile”. (4)

Eventi linguistici e abbandono da parte della madre diventano l'asse intorno al quale ruota l'intero romanzo. Basti qui rammentare le frasi di apertura:

”Sono nata sotto un tavolino Mi ci ero nascosta perché il portone aveva sbattuto, dunque lo zio rientrava. Lo zio aveva detto ‘Rimandala a sua madre, non vedi che ci muore in casa?’ Ambiente non c’era intorno, visi neppure, solo quella voce. Madre, muore, nessun significato, ma rimandala sì, rimandala voleva dire mettila fuori della porta. Rimandala voleva dire mettermi fuori del portone e richiuderlo. Pur protetta dal tappeto che con le frange sfiorava il pavimento, ascoltavo fitto fitto: tante volte venissero a cercarmi per mettermi fuori”. (5)

Qualche pagina dopo questa riflessione la scrittrice parla del suo rapporto con la madre:

“Madre è quella che smette di leggere per rispondere ai perché, madre è unicità, sicurezza e appoggio fisiologico […] Con lei dovevo restare. Invece un sollecito trasferimento mi portò tra i neonati ripudiati, un biberon diventò il mio elemento materno […] Quando la madre meccanica mi riprese, dissi 'mamma' a lei. Però mi aveva ripresa non per tenermi, ma per ripulirmi e portarmi a Treja dove, era convenuto, mi avrebbe appiccicata agli zii […] Madre è realtà fisiologica e affettiva; io ebbi lo stridio di una tastiera di elementi materni, tutti discordi tra loro. La parola[mamma]trionfò sui libri di lettura della scuola, uno smammolato termine letterario. Meglio le 'guerre puniche' e l’inno di Garibaldi”. (6)

Alla madre meccanica, pura e semplice 'facitrice' come dice Prato, si aggiunsero la balia e la zia. Tre persone diverse da dover nominare con la parola mamma. L'esito, nella soggettività in formazione della piccola Dolores, fu quello 'stridio di elementi materni', che la resero straniera all'intero mondo nominato nella confusione di tre lingue diverse; infatti Prato definisce con le seguenti parole la distanza tra dialetto e lingua degli zii: “Per la pronunzia, per la scelta dei vocaboli, eravamo quello che è la Repubblica di San Marino: uno stato a parte”. (7)

Il romanzo proverà a mettere ordine in questo caos.

Per 741 pagine Dolores racconta, descrive, ricorda ( e lei stessa riflette ironicamente sulla arbitrarietà della ricostruzione dei ricordi) fatti, episodi, sensazioni, personaggi che hanno popolato il suo mondo di bambina.

Il suo procedere nella ricerca è caratterizzato da un ritmo e un respiro più poetici che narrativi, a causa delle frequenti illuminazioni improvvise, che si accumulano ossessivamente alla ricerca di un senso.

Non fu colta, neppure al momento della pubblicazione integrale, la cifra stilistica così originale se non da pochi e poche critici/che, e non si può certo dire che la sua scrittura abbia attirato grandi simpatie tra lettori e lettrici.

Troppo azzardata, troppo complessa, troppo raffinata, troppo lunga, in qualche modo antipatica.

Prato conobbe così un'ulteriore condizione di straniera perché si verificò anche per lei quello che è sovente capitato alle scrittrici italiane, le cui scelte stilistiche e tematiche, consapevolmente al di fuori delle categorie interne alle convenzioni letterarie, sono state scambiate da un pubblico disattento per inadeguatezza.

Dentro quelle convenzioni non è facilmente accettabile che sia una donna a intraprendere percorsi di ricostruzione della propria soggettività, soprattutto se lo fa attraversando il linguaggio, perché nello stereotipo del sistema letterario, almeno fino alla prima metà del Novecento (ma anche oltre), le donne scrittrici sono confinate nella sfera espressiva del mondo dei sentimenti, in qualche modo escluse dal territorio delle invenzioni e novità stilistiche e formali.

 

Note

1 Elena Frontaloni, Giù la piazza non c’è nessuno, in “Quodlibet”, http://www.quodlibet.it/schedap.php?id=1831#.VRZWiJOG98B

2 Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno, Milano, Mondadori, 2001, p. 739

3 Giù la piazza, cit. p. 741.

4 Giù la piazza, cit. p.195

5 Giù la piazza, cit. p. 3

6 Giù la piazza, cit. p. 23

7 Giù la piazza, cit. p.195

mercoledì 4 marzo 2015

Memorie di una femminista non pentita (XII)

Credo di non avere mai smesso di sentirmi figlia, forse perché ho perso la madre presto, sono stata madre conflittuale, e adesso nonna felice, nel senso che mi sembra che i/le nipoti  abbiano anche una funzione anti tristezza, antidepressiva si dice oggi, con espressione semplificante.
Non ho avuto in età adulta alcun modello né di madre né di zie, non ne ho mai conosciute, tranne una, che viveva lontana e avrò visto tre o quattro volte in vita mia.
La mancanza di modelli non mi sembra mi abbia nuociuto più di tanto, senz'altro non ho mai pensato che il mio destino sociale in vecchiaia sarebbe stato solo l'accudimento dei/delle nipoti, così come non  lo è stato la casalinghitutine nel corso della mia vita.
Anzi ho fieramente combattuto questa dimensione come realizzazione prioritaria delle donne, destino "naturale" dell'essere femminile.
Qualche tempo fa una mia amica femminista, fine analista della nostra società, mi chiedeva quanto la persistenza dei modelli vigenti di organizzazione del lavoro e della "soluzione privata" nei confronti della cura sia  da addebitarsi alla "generosa dedizione di noni e nonne".
Generosa dedizione di donne e uomini? 
E qui mi si apre la contraddizione: è vero che così si mantiene e si sostiene la divisione sessuale del lavoro imposta dal capitalismo patriarcale, ma  non si può trascurare la dimensione di piacere e gioia che la cura dei nipoti comporta.
Come si esce da questa contraddizione?
Non certo secondo il modello di lotta operaia vincente negli ultimi duecentocinquanta anni: scioperi, blocco della (ri)produzione, per non parlare del sabotaggio (di luddistica memoria), e di altre forme di lotta.
Negli anni Settanta alcuni collettivi femministi veneti, milanesi e emiliani, riuniti nel gruppo Lotta femminista, misero a punto analisi molto sofisticate della funzione delle donne nel privato e nel sociale,  funzione fondata sullo sfruttamento del ruolo femminile naturalizzato e base principale dell'accumulazione capitalistica. L'analisi del lavoro domestico, affettivo, relazionale, di sostegno psicologico, sessuale e sentimentale, erogato dalle donne in nome dell'Amore, quello che oggi chiamiamo cura, e che attualmente investe in quote sempre maggiori sia la produzione che la riproduzione, era importante, ebbe anche una buona diffusione in libri e documenti che circolarono anche in fabbriche e scuole, ma la pratica non raggiunse i risultati sperati. Ad esempio l'iniziativa dello sciopero del lavoro domestico non ebbe successo, non solo per il sentimento di "abnegazione" interiorizzato dalle donne, ma perché le prime a essere colpite da questa forma di lotta sarebbero state proprio le donne, che nelle case ci vivono, mangiano, ci cucinano, che riordinano i luoghi nei quali vivono insieme alle altre e agli altri.  
La ricchezza e la complessità delle analisi fu semplificata e troppo presto liquidata nel movimento stesso a causa della parola d'ordine "salario al lavoro domestico", strumentalmente fraintesa non solo dagli oppositori e dalle oppositrici al femminismo, ma anche da molte donne del movimento. Inoltre fu considerata sinonimo di pensione alle casalinghe  e in quanto tale combattuta come strumento non solo inadeguato economicamente ma come fissatore del ruolo femminile. 
Il femminismo italiano si avviò piuttosto sul percorso dell'analisi delle complicità delle donne con l'ordine del discorso, alla ricerca delle immagini di genere interiorizzate, delle implicazioni, consce e inconsce con il sistema che si voleva combattere. 
L'errore fu la contrapposizione dei due momenti, che, ugualmente importanti, avrebbero dovuto procedere parallelamente, e non escludersi a vicenda. 
Ricademmo in questo modo nella contrapposizione dualistica che mettevamo in discussione in altri campi.
Il discorso del lavoro invisibile delle donne si diffuse in altre aree dell'Europa e degli USA.
Oggi penso che per l'Italia il discorso fosse troppo anticipatore, non a caso  torna prepotentemente alla ribalta in questa temperie politica, sociale e culturale.  

lunedì 22 dicembre 2014

Memorie di una femminista non pentita (XI)


Un inizio di femminismo a Milano

Mi sento senza storia.
Parlo della storia della mia famiglia d'origine, del radicamento in una comunità di affetti e destini; molteplici sono le ragioni di questa mancanza, ragioni personali dei miei genitori, ragioni sociali e politiche. 
Sono figlia di due genitori emigrati a Milano dalle rispettive città, in rotta con famiglie, delle quali non parlavano volentieri. Entrambi formatisi ai valori fascisti, e, in quanto tali, frustrati per essere dalla parte parte dei "vinti", non parlavano in casa neppure dei fatti storici vissuti, se non  per deplorare come erano raccontate le cose da parte dei "vincitori", con una sfumatura rancorosa nei confronti del presente "ingiusto".
Mia madre ha sofferto per la separazione dei suoi genitori, "colpa" di un padre socialista che non solo ha abbandonato la moglie in nome del "libero amore", ma non ha permesso alla figlia di frequentare le superiori per non mandarla a scuola "insieme con i maschi".
Mio padre, di famiglia modesta e allevato con i fratelli dalla madre vedova, è venuto su un po' sbandato, a suo dire aveva davanti a sé solo un 'alternativa: o poliziotto o delinquente, ha scelto la prima opzione. 
Conosco poco altro della loro storia, unica eccezione la mia nonna materna, che ha accompagnato mia madre nella fuga, quasi clandestina, a Milano; entrambe avrebbero portato il peso di questo gesto di fronte alle loro famiglie, che le considerarono donne per male. Ma neanche lei ha mai parlato della sua famiglia d'origine.
Non ho frequentato se non sporadicamente, e quando ero molto piccola cugini/e  e zii/e, così metto insieme frammenti di notizie che ricordo da osservazioni di mia madre quando ero bambina, o da suoi discorsi con conoscenti. 
Mentre scrivo mi chiedo se questi ricordi sono reali o costruiti da me.
E' disorientante non sapere nulla di chi ci ha preceduto, nomi, occupazioni, interessi, paure e speranze.
Per questo forse ho studiato Storia, mi sono laureata in Storia medievale e tra le mie discipline universitarie preferite c'erano archivistica e paleografia.
Forse la conseguenza psicologica più importante di questo mio sentirmi senza storia personale consiste nel fatto che non do mai importanza a quello che ho fatto, ricomincio sempre da capo, trascurando il recente passato.
Così non ho mai accennato nelle mie ricostruzioni scritte e orali ai miei inizi nel femminismo. 
Nel 1970, dopo la militanza di qualche anno in uno dei gruppi extraparlamentari di Milano, ho cominciato a interessarmi a quella che allora era chiamata "la questione femminile".
Non avevo mai partecipato alle attività dell'UDI, neppure a nessuna delle commissiono femminile dei partiti, infatti non sono mai stata iscritta ad alcun partito.
Nel 1970 si respirava un'aria nuova tra molte donne, ci incontravamo a casa mia, la sera a parlare di noi, a redigere volantini sul doppio lavoro, domestico e extradomestico da distribuire davanti alle fabbriche.
C'erano donne conosciute durante il lavoro politico svolto precedentemente, alcune studentesse, qualche sindacalista, conosciuta durante il lavoro di volantinaggio. 
Alcune delle sindacaliste ottennero il permesso di farci entrare con loro nella mensa della fabbrica durante la pausa pranzo, in una sorta di breve assemblea, per parlare con le operaie dei problemi  di quella che si chiamava la "condizione delle donne". 
Ricordo anche qualche riunione serale in casa di qualche operaia della Pirelli, in zona Bicocca, su iniziativa di Serena Nozzoli, che stava ultimando la sua tesi di laurea, che sarebbe diventata tre anni dopo il libro Donne si diventa, titolo mutuato da Simone de Beauvoir.
Proprio tra il 1970 e il 1974 nascevano e operavano a Milano circa trenta gruppi di donne, con un nome, una sede, per lo più una casa privata, e una produzione di brevi documenti e volantini.
Tutti quanti in polemica, a volte anche aspra, con l'emancipazionismo portato avanti dai gruppi  dalle commissioni femminili dei partiti, e soprattutto dall'UDI. 
Ci fu anche un periodo di frequentazione tra gruppi, alcune andavano "in visita" alle riunione di altri gruppi. 
Ricordo a casa mia le visite di Elena Medi e Silvia Motta (Il cerchio spezzato di Trento, trasferitosi a Milano), di Daniela Pellegrini (Demau), di alcune di Anabasi (il gruppo fondato da Serena Castaldi, che aveva portato materiale dal movimento di donne negli USA). 
Io stessa partecipai un paio di volte alle riunioni in via Brera di Carla Lonzi, sottovalutandone ahimè il discorso, tutta imbevuta com'ero di operaismo.
Quando si costituì finalmente la sede di via Cherubini i collettivi confluirono in una riunione settimanale di tutti i gruppi di Milano, nella quale continuò per qualche tempo il confronto tra le varie posizioni. 
Il mio gruppo aveva inizialmente una presenza maschile, un nome che ricordava i collettivi di matrice operaista e marxista che agivano  sul territorio, si chiamava Collettivo politico milanese per la liberazione della donna.
La militanza nei gruppi misti ci aveva convinto che non era possibile una politica dei due tempi, che un cambiamento radicale, rivoluzione si diceva allora, del sistema sociale e politico non avrebbe contemporaneamente modificato il rapporto tra donne e uomini, sia nei luoghi di lavoro che all'interno delle case.
Le donne operaie erano individuate nel mio gruppo come tra le più oppresse, a causa del doppio lavoro in fabbrica e a casa.
Anche noi avevamo direttamente sperimentato nei nostri gruppi la situazione di subordinazione ai nostri compagni, in qualità di angeli del ciclostile, pulitrici di sedi, cuoche nelle riunioni, oggetti della loro liberazione sessuale. 
Quella a cui davamo vita nelle riunioni a casa mia non poteva chiamarsi ancora autocoscienza, già praticata da qualche collettivo,  quanto piuttosto "presa di coscienza", come si diceva allora, di una condizione di subalternità agli uomini, materiale e culturale, che accomunava tutte le donne, indipendentemente dalla loro posizione sociale, secondo la divisione dei compiti prevista dalla codificazione dei ruoli sessuali vigente.
Anche nella presa di coscienza  si metteva al centro del discorso  la scoperta degli specifici bisogni, desideri, frustrazioni, in casa e nei luoghi di lavoro. Si provava a costruire relazioni di fiducia e solidarietà tra donne, fuori della tradizionale rivalità, la parola d'ordine era "sorellanza", che veniva rinsaldata anche dai momenti esaltanti di feste e cene tra donne, nelle quali si scopriva la libertà di sottrarsi allo sguardo -e conseguente valutazione- maschili.
L'apporto ulteriore dell'autocoscienza sarebbe stato, di lì a poco, la consapevolezza di aver interiorizzato lo sguardo maschile anche noi donne, e di attivarlo, più o meno inconsapevolmente,  nelle nostre relazioni.
Un scoperta fondamentale fu la sottrazione del corpo e dei suoi eventi fisiologici alla medicalizzazione, comprese gravidanza e parto, non più considerati malattie e quindi ricondotte al governo delle singole donne, di qui la parola d'ordine dell'autodeterminazione, che comportava l'esigenza di una maternità cosciente, e non imposta e/o subita. 
Ma autodeterminazione significava anche poter disporre liberamente degli anticoncezionali, ancora proibiti in Italia a causa dei divieti imposti dalla Chiesa (la pillola si andava a comprare in Svizzera),  una delle prime campagne, gestita attraverso volantini, distribuiti davanti alle fabbriche e nei mercati, luoghi frequentati dalle donne, riguardò proprio la richiesta di liberalizzazione degli anticoncezionali. 
Quando di lì a poco si pose a livello politico la questione dell'interruzione di gravidanza, partiti e sindacati parlarono di diritto di aborto, ma nessun collettivo femminista adottò questa espressione, che riduceva la questione a un solo aspetto del problema, semplificando il discorso. Anche se diverse furono le posizioni tra i gruppi, tra chi chiedeva la semplice depenalizzazione, per evitare l'ingerenza della legge nelle scelte personali, e chi invece sosteneva la necessità di una regolamentazione, sempre si mise l'accento sulla maternità cosciente, perché il discorso si estendeva contemporaneamente anche alla lotta contro gli aborti bianchi causati dalle condizioni di lavoro e di precarietà, oltre che alla libertà di usare anticoncezionali sicuri.
Il discorso completo riguardava la scelta libera di una donna di avere o no figli, disponendo di tutte le risorse per i controllo delle nascite, avendo la sicurezza di condurre felicemente a termine le gravidanze desiderate.
In questo modo Il "privato", che cosa c'era di più privato del corpo delle donne, si scopriva "politico". 


lunedì 1 dicembre 2014

Memorie di una femminista non pentita (X)

Una valigia di carbone 



Valigia di carbone, 3 giorni senza uscire di casa, una poesia,  che ricordo si concludeva con un “viva Adriana”.


Tre espressioni che hanno accompagnato, da quando ne ho memoria, i racconti di mia nonna e mia madre a proposito della mia nascita, insieme all’osservazione che raggiungevo a fatica due kili di peso, ma ero ugualmente molto carina, in quanto neonata, mentre mia sorella, che sarebbe nata un anno e mezzo dopo, era invece brutta.

Non so molto altro,  mia madre è morta quando avevo vent'anni, non ero ancora interessata agli eventi della gravidanza, del parto, e dell’ allattamento e non ho fatto in tempo a rivolgerle domande in proposito quando ne avrei avuto bisogno. Mi accorgo con stupore, ora che ne scrivo, che non mi sono neanche sognata di chiedere invece notizie a mio padre, morto solo pochi anni fa.

Del resto neanche lui ha mai accennato alla nascita mia o di mia sorella, come se la cosa non l’avesse riguardato per nulla, neanche al tempo delle mie due gravidanze, o  dei miei parti.

La divisione dei compiti e la distinzione dei ruoli hanno operato nel profondo della mia psiche, oltre che della sua.

Eppure ricordo che fino all’età di sette /otto anni mi compiacevo di dire a chiunque che mio papà era stato così contento della mia venuta al mondo che non era uscito di casa per tre giorni di seguito.
Questo ritornello, che mi riempiva d’orgoglio quale segno di elezione, mi si chiarì nel suo significato quando appresi, più tardi, dell’abitudine paterna di stare fuori casa la sera, gioco e forse donne (? ) tanto da costringere mia madre a passare lunghe ore seduta sugli scalini davanti alla porta, per la paura di stare in casa da sola, salvo rientrare precipitosamente al suono dell’ascensore.
La valigia piena di carbone, per tenermi al caldo in un inverno molto freddo e la poesia erano regali del mio padrino di battesimo, al quale ho voluto molto bene, che è stato un’assidua presenza nella nostra vita familiare, fino al momento in cui si è sposato, abbastanza avanti negli anni.
Sono nata il 3 febbraio di sabato, verso le dieci di mattina. Nei primi 13 giorni di febbraio 1945 a Milano ci sono stati gli  ultimi attacchi aerei, 14; Milano era  allo stremo, al freddo e alla fame, con il Comune che organizza mense collettive. 
In questo stesso mese Stalin e Roosevelt si incontravano a Yalta, nella storica conferenza,  per decidere l’assetto dell’Europa nel dopoguerra, il nuovo ordine mondiale che avrebbe avuto tanta importanza per donne e uomini, già provati da anni di guerra e dittature.

venerdì 3 ottobre 2014

Memorie di una femminista non pentita (IX)

E' dura per una vecchia femminista come me rendersi di come sia difficile liberarsi delle immagini di genere interiorizzate, malgrado anni di femminismo.
Ad esempio, quando mi accorgo che alcune giovani donne con le quali sono in rapporti amicali, affettivi o di lavoro praticano apertamente e con spregiudicatezza un certo utilitarismo nei miei confronti, quasi affermassero un loro diritto, vengo colpita in modo particolare.
Ma non come si viene colpiti normalmente, quando si incontrano comportamenti del genere, in coetanei e coetanee, ma più a fondo, mi scopro improvvisamente senza difese.
Mi trovo allora a vivere in una dimensione oscillante tra un ragionamento giustificatorio - l'emergenza del momento di crisi generale, la pressione degli impegni...-  e un sentimento di delusione acuta.
E' dura per molte ragioni, e non parlo solo dei colpi al mio ego, ma per la consapevolezza che, malgrado l'attenzione e i discorsi fatti e ascoltati, la strada verso l'uscita dal patriarcato è ancora lunga, prima di tutto dentro di me.
Se è stata una battaglia femminista affermare la necessità per le donne di dotarsi di autostima, di conquistare indipendenza di giudizio e autonomia di comportamenti, al di fuori di attese sociali e stereotipi di genere, di contrastare insomma le aspettative di oblatività affettiva e pratica, che sono ritenute caratteristiche "naturali" della femminilità compiuta, trovarsi di fronte a atteggiamenti e conseguenti comportamenti improntati ad un'economia di scambio e null'altro, mi spiazza. 
Mentre sono preparata ad aspettarmi trattamenti analoghi da parte di uomini, e donne della mia età, qualcosa mi fa velo di fronte a donne più giovani e dalle quali mi aspetto una sorta di "riconoscenza" per le battaglie, anche dolorose, intraprese nel corso della vita.
Ma è proprio questo l'imbroglio, quasi un residuo di fiducia in una sorellanza intesa come "dato di natura", per il solo fatto di essere donne, in aperto contrasto con la convinzione e il desiderio di essere riconosciute come persone complesse, più o meno disponibili verso gli/le  altri/e, più o meno concentrate su se stesse, più o meno prepotenti, in altre parole donne valutate per  le caratteristiche soggettive, e non per appartenenza di genere. 

lunedì 29 settembre 2014

Memorie di una femminista non pentita (VIII)

Una delle maggiori difficoltà, e conseguente delusione, per chi come me ha vissuto i primi momenti del neofemmimnismo in Italia -fine anni Sessanta e anni Settanta- è stata il rendersi conto che tutta una serie di comportamenti, attribuiti alle modalità maschili di competere, erano stati interiorizzati da noi donne come utili per conquistare posizioni all'interno di certi ambienti, e erano praticati come "normali".
Le poche che li criticavano rischiavano spesso di essere liquidate con l'accusa di vittimismo.
Certo che l'autocoscienza aveva avuto il primo obiettivo di scovare le immagini di genere e la complicità con l'ordine sociale e culturale interiorizzato anche da noi, ma  non tutte le femministe hanno praticato l'autocoscienza, alcune l'hanno considerata un'inutile perdita di tempo, rispetto alle lotte da condurre nel sociale; altre, che pure l'hanno praticata, non l'hanno applicata ai propri comportamenti.
Il contraccolpo si è avvertito nella seconda metà degli anni '80, al tempo che venne chiamato "del riflusso", quando, esauritasi la spinta al cambiamento del decennio precedente, in seguito agli attacchi alle lotte operaie e studentesche, e  ai movimenti antagonisti al sistema, ci si è trovat* su una posizione difensiva. 
I movimenti femministi hanno dato vita a Centri, Librerie, Archivi, Case delle donne, Riviste e giornali, tutti luoghi dove incontrarsi e riflettere come portare avanti i discorsi, sono stati raccolti documenti, per impedirne la dispersione, sono stati scritti e pubblicati testi, si sono organizzati convegni e seminari, nazionali e internazionali, anche se già da allora i giornali strillavano che il movimento era morto, il femminismo era finito. 
Il pensiero critico ha continuato, si è raffinato, ma tutto questo lavorio restava confinato nel circuito dei Centri, Archivi, Librerie e case delle donne, il momento di coordinamento fu costituito dalla Rete Lilith, e dalla sua base dati, consultabile in rete.
Nei luoghi del sapere deputati, l'Accademia, questo lavoro culturale non era tenuto in considerazione, si attingeva al patrimonio elaborato nei vari centri, si utilizzava il consenso delle femministe, che assicurava una buona circolazione ai testi prodotti, ma non si dava il riconoscimento di "maternità" dovuto.
Quello che era stata riflessione collettiva poteva essere saccheggiata impunemente, perché non era proprietà di nessuna.
Parlo delle accademiche che negli anni '80 hanno iniziato la carriera nelle università.
Non tutte, per fortuna, ma la maggior parte di loro ha trascurato di riconoscere il lavoro collettivo dal quale ha avuto origine, o ha preso spunti, la ricerca individuale. 
E' pur vero che, data l'arretratezza generale della nostra Accademia, risultava difficile farle accettare fonti considerate poco rigorose e poco scientifiche, ma non mi sembra ci siano state tante battaglie, da parte di donne aspiranti a cattedre universitarie, per cambiare la situazione.
Il risultato è stato spesso la cancellazione, all'interno del fenomeno di marginalizzazione generale del pensiero e delle esperienze femministe, dei nomi di chi non aveva visibilità, non ricopriva posti di potere - grande o piccolo che fosse-  nell'Accademia, nella cultura, ma soprattutto nella politica dei partiti.
In altre parole di chi non poteva in qualche modo fare gioco di scambio di favori.
Se in qualche modo si è preparate alla cancellazione da parte di chi è complice consapevole del sistema donna o uomo che sia, non si è mai abbastanza preparate, secondo me, a essere completamente ignorate, quando si sono magari impiegati anni di lavoro comune.
Per molte donne e molti uomini, estern* al femminismo, il maggior contributo alla svalutazione delle pratiche e delle teorie femministe deriva, oltre che dall'opera sistematica dei grandi mezzi di comunicazione, proprio dai comportamenti di femministe di potere, nei vari ambiti di attività

martedì 16 settembre 2014

Memorie di una femminista non pentita (VII puntata)


Una socialità nuova tra donne si è in qualche modo costituita, inedita rispetto al periodo pre-femminista, quando le donne si incontravano in luoghi deputati al lavoro di cura (mercati, giardini, scuole) in assenza degli uomini "al lavoro", e parlavano prevalentemente di questioni relative alla cura o alla relazione con i loro partner, oggi molte donne cercano altre donne per studiare, divertirsi, viaggiare, condividere vita e tempo per sé.

Le condizioni generali della società, però, continuano a richiedere alle donne, e anche agli uomini negli ultimi anni, un impegno  sempre più intenso nella cura dei/delle nipoti, quando non richiedono anche  contributi economici per aiutare situazioni di lavoro precario.
La contraddizione tra le proprie convinzioni, maturate in anni di riflessione individuale e collettiva, e le urgenze del presente  si fa stridente, soprattutto per le donne, ma anche qualche uomo, che hanno dato vita e forma al femminismo degli anni Settanta, e ora si ritrovano nonne -e nonni - felici, ma in conflitto con il modello prevalente ereditato dalle proprie madri e nonne.
Quanto la persistenza di certi modelli di organizzazione del lavoro -che sembrano peggiorare sempre più per la crisi- e la permanenza di "soluzioni private" nei confronti della cura dei e delle bambine, nonché delle inabilità temporanee e/o permanenti, è da addebitarsi alla "generosa dedizione di nonni e nonne", che in tal modo contribuiscono a mantenere uno stato di cose funzionale alla divisione patriarcale e capitalistica del lavoro?
E che cosa c'è dietro questa generosa dedizione di donne e uomini, e se se ne volesse superare la costrittività in nome di una libera scelta, come fare?
Si affaccia così il dubbio che, oltre al piacere e alla gioia che procura accudire ai propri nipotini e nipotine, giochi l'interiorizzazione di immagini di genere collegate al destino sociale delle donne e degli uomini non più "produttivi" (cioè in pensione).
Sono stata madre conflittuale con il modello di "oblatività imposta" ereditato da mia madre, e adesso sono nonna in conflitto con quello ereditato da mia nonna, modello ancora attivo per molte donne, e anche uomini, a quanto vedo
Per ora niente e nessuno può sollevare i singoli e le singole dalla  negoziazione continua  tra le proprie esigenze e i bisogni di figli,  figlie e nipoti, negoziazione che a volte provoca scontenti e fraintendimenti reciproci.
L'unica dimensione collettiva per liberarsi da questo retaggio patriarcale è mettere al centro di ogni collettività, qui e in tutto il pianeta, la cura di persone, ambienti e relazioni quale  attività fondamentale di ciascuno e ciascuna, attorno alla quale riorganizzare lavoro e vita.