sabato 22 ottobre 2011

Autunno finalmente

Amo molto le mezze stagioni, primavera e autunno, e mi sono chiesta perché.
Mi sono data anche due risposte, per ora.
La prima di natura "psicologica": temo ogni irreversibilità, anche minima, in autunno e primavera non sei mai sicura, giorno dopo giorno, della stagione in cui ti trovi.
Un giorno di primavera può sembrarti piena estate, il successivo pieno inverno, così in autunno.
Questo significa per me un trasalimento che mi trasporta fuori, anche solo per un attimo, dalla realtà che vivo nel momento.
Credo che il mio amore per la narrativa, fin da piccola, e oggi anche per i film, sia dovuto molto alla possiibilità di evasione, mi sono sempre detta che leggendo mi pare di allungare la mia breve vita di umana, vivendone molte, distanti nello spazio e nel tempo.
L'altra spiegazione è più banale, e forse è quella giusta:: all'inizio dell'autunno cominciava la scuola (cominciava in ottobre) e io non vedevo l'ora, alle elementari poi i libri  mostravano disegni di uva, mele, pere, castagne, foglie secche, gialle, rosse, marroni, mi piacevano molto quelle figure piene di colori.
All'inizio della primavera cominciava il conto alla rovescia per finire la scuola, e io non vedevo l'ora, e il tempo coincideva anche con Pasqua, che per me significava disegni di campanule, piccole uova, agnelli, tutto dominato dal bianco, azzurro, rosa.
Ma, di gran lunga cosa più importante, significava una settimana al mare, con tempi e colori da inizio del mondo: mare celeste come il ciel , spiagge assolutamente deserte e, fino ai dodici anni, nonna.

giovedì 20 ottobre 2011

Il nodo gordiano della guerra

A proposito della celebrazione della vittoria del 4 novembre nella prima guerra mondiale, celebrazione che ci cadrà sulla testa nei soliti modi e riti, non credo che la ricorrenza, con la sua vuota retorica e la pompa istituzionale, sia poi così presente nei cuori e nelle menti delle persone, soprattutto dei giovani uomini e delle giovani donne, per non parlare dei ragazzi e delle ragazze.


Si è senz'altro appannata la memoria di questa data, ma non a causa di un'evoluzione positiva dei valori e dei costumi, per cui, senza rinunciare al conflitto, anima della democrazia, si rinuncia alla guerra, in nome di altre forme di risoluzione, ma al contrario perché la guerra è ormai esperienza quotidiana, diretta o indiretta di tutti noi, abitanti di questi sciagurati tempi.

Dove poi la guerra guerreggiata non c'è, perché la si esporta altrove, si "gioca alla guerra", a causa dell'interiorizzazione di immagini belliche come pratiche indispensabili per raddrizzare torti, porre fine a ingiustizie, rafforzare identità pericolanti e ricompattare fratellanze in crisi, lusingare narcisismi, riconfermare nei rispettivi ruoli tradizionali e patriarcali uomini e donne.

Nulla infatti più della guerra rimette a posto il "disordine sociale" creatosi rispetto ai compiti e alle funzioni di genere, nulla quindi, in ultima istanza, risulta più rassicurante dinanzi ai veloci cambiamenti di mentalità, atteggiamenti, comportamenti e costumi.

Paradossalmente è proprio questo il potere ipnotico della guerra su uomini e donne, non si spiega altrimenti la facilità con la quale moltitudini di persone si lasciano manipolare dai propri governanti e condurre a guerre sanguinose, pur conoscendone i rischi e gli orrori.

Gli uomini -guerrieri- rischiano la vita per la difesa di valori, persone, beni, ideali civili e/o religiosi, riconquistando una centralità e un'autorità che sentono messa in crisi dai tentativi di sottrarsi alla permanente subordinazione sociale e culturale da parte delle donne; le donne in trepida attesa del ritorno dei loro "eroi", da curare nel fisico e nello spirito, trovano riparo in queste attività  dalle fatiche di conquistare un'autonomia di pensiero e azione e dal senso di impotenza che spesso grava sulle spalle di chi intraprende questo percorso, esterno agli schemi di genere socialmente accettati.

Il "destino femminile", interiorizzato nell'educazione di genere, ritorna a essere risorsa sociale, collettiva e individuale, fattore di esaltazione e riconoscimento sociali, altrimenti negati.

Purtroppo concorrono all'incantamento nei confronti della guerra anche le narrazioni costanti del nostro passato collettivo e individuale, che pongono l'accento soprattutto su eventi bellici, pur mostrandone gli orrori, ma presentandoli come ineliminabili, quasi fossero tratti di specie, oscurando il fatto che molti conflitti furono risolti attraverso mediazioni, dialoghi, scambio di pensieri e parole tra uomini, e anche donne.

Innamoramento per la guerra, dicevo, mi sembra sia proprio questa una delle molle che ha determinato i fatti occorsi durante la manifestazione del 15 ottobre a Roma. 



mercoledì 19 ottobre 2011

La trappola della compassione

Negli ultimi tempi c'è tutto un fiorire di discorsi che sottolineano l'indispensabilità delle donne e delle loro attività, capacità,  attitudini a "salvare il mondo".
Nell'economia, nel management, nella politica, nel sociale la risorsa per ristabilire equilibri, raddrizzare  situazioni pericolanti, ripristinare una perduta civiltà di rapporti tra persone e cose sta nel ricorrere alle donne.
I giornali economici sono pieni di statistiche e ricerche volte a dimostrare che dare qualche responsabilità direttiva  a donne migliora la qualità del lavoro e anche i profitti.
A proposito delle  vicende del 15 ottobre a Roma c'è chi sostiene che se si fossero prese in  carico  le donne della gestione della manifestazione i "disordini" non  si sarebbero verificati.
Le guerre però, con il loro corredo di stupri etnici, segnalano una realtà diversa.
Tutto un elogio quindi della potenzialità femminile -per natura e per cultura-  a rendere gentili e civili i barbari (per natura e cultura)  costumi maschili.
Salvo poi  indicare con "stupore" le ragazze colte a lanciare sassi o altro, oppure le soldate torturatrici, le kamikaze (ma per loro si sa, sono donne assoggettate all'Islam), le madri assassine (raptus, depressione...).
Non sono donne? Sono eccezioni che confermano la regola?
Di fronte a questa esaltazione delle virtù femminili qualche dubbio viene, tanto più se collegate alla  dimensione della cura, che avendo per oggetto primo le persone, l'ambiente in cui vivono, il cibo, in poche parole la sopravvivenza, dovrebbe essere il compito prioritario di tutta l'umanità, donne e uomini.
 Il 30 ottobre a Roma si terrà un convegno dal titolo La cura del vivere (http://www.facebook.com/event.php?eid=274143432616345), che si propone di rovesciare di segno questa attività, da destino femminile da fuggire a "prezioso tesoro", pratica scelta da valorizzare.
Il simbolo del convegno è la madonna.
 Io però credo che anche i simboli vadano rinnovati, proprio per la carica forte che hanno sulle persone e i meccanismi inconsci che scatenano..
La madonna, figura così soave nei quadri, anche conflittuale in certi testi e in certe analisi di storiche e teologhe, porta su di sé l'impronta della divisione sessuale del lavoro imposta dal patriarcato.
E' vero che si può rileggere rovesciandone il segno e il senso -da essenza della "natura femminile" a simbolo di quella che dovrebbe essere considerata dell'attività umana per eccellenza-, ma resta il fatto che nelle coscienze l'immagine è legata a una visione patriarcale del mondo e dei rapporti uomo donna.
Certe immagini provocano automatismi dettati dall'interiorizzazione dei valori della nostra educazione, cultura, socializzazione; automatismi difficili da controllare, e quindi pericolosi perché facilmente integrabili nell'ordine del discorso che si vuole porre in crisi.

martedì 18 ottobre 2011

Buoni e cattivi

Non ci sto a dividere in due parti i/le manifestanti: quelli/e per bene e quelli/e per male.
A parte il discorso infiltrati, che ci sono sempre stati,  poliziotti, digos, fascisti (c'è chi ha visto sventolare croci celtiche), ultrà....,  io non penso che i e le ragazze incazzati/e, che hanno tirato pietre, sfasciato vetrine e auto, e altro  siano criminali, anche se teste calde, ma credo che siano veramente esasperati/e, magari anche disperati (nel senso di senza futuro).
Il messaggio perverso che mandano credo vada raccolto. 
Quello che  contesto loro è il fatto di tenere in ostaggio persone che non vogliono ricorrere a quei mezzi di lotta, e mi inquieta  soprattutto che  invece di sforzarsi di cercare nuove forme  -insieme a quelli/e di tutto il mondo che cercano modi e strumenti incisivi e appropriati- ripieghino su forme obsolete (almeno nel nostro contesto specifico, differente dai paesi arabi , nord'africani, asiatici....!),  speculari e simmetriche  alla violenza statuale e istituzionale che combattono.
Da qui i prevedibili esiti di richieste di ordine e repressione avanzate da molti e molte: opportunisti/e, o solamente spaventati/e....

lunedì 17 ottobre 2011

Pensandoci bene

Ho  sentito tre mattine fa alla radio l'intervista a una donna di sessant'anni che esprimeva tutto il disamore per "gli italiani" (dal che potrei dedurre che invece apprezza le italiane, ma so che non è così) colpevoli di aver ridotto il nostro paese in questo stato.
Mi ha colpito quando ha detto che fa tante cose nella vita, ma quello che le piace maggiormente fare è la nonna, la cosa che la rallegra di più .
Credo di non avere mai smesso di sentirmi figlia -visto che ho perso la madre presto-, sono stata madre conflittuale, e adesso nonna felice, nel senso che mi sembra che i/le nipoti  abbiano appunto  una funzione anti tristezza, questo allora deve essere un sentimento comune alle nonne e ai nonni, la mia unica nonna conosciuta mi ha lasciato quando ero ancora bambina.
Ora che ci penso non ho avuto, in età adulta, alcun modello né di madre né di nonna, zie poi non ho mai conosciute, tranne una, che viveva lontana e avrò visto tre o quattro volte in vita mia.
La mancanza di modelli non mi sembra mi abbia nuociuto più di tanto (o forse sì?), senz'altro non ho mai pensato che il mio destino sociale in vecchiaia sarebbe stato solo l'accudimento dei/delle nipoti, così come non  lo è stato la casalinghitutine.
Anzi ho fieramente combattuto questa dimensione come  priorità delle donne, destino "naturale" dell'essere femminile, che riesco ad accettare solo se è frutto di una scelta individuale, libera e consapevole e non frutto di costrizioni esterne o vincoli interiori.
Tralascio ogni considerazione di opportunità -per il sistema a base capitalistico-patriarcale- di avere a disposizione grandi quantità di donne sulle quali scaricare i costi e le fatiche della cura di persone, ambienti, oggetti.
Proprio qualche tempo fa una mia amica, fine analista della nostra società, mi chiedeva quanto la persistenza dei modelli di organizzazione del lavoro e della "soluzione privata" nei confronti della cura sia  da addebitarsi alla "generosa dedizione di noni e nonne".
Generosa dedizione di donne e uomini? 
E qui mi si apre la contraddizione: è vero che così si sostiene in qualche modo la divisione patriarcale capitalistica del lavoro, ma  il piacere e la gioia di farlo quanto contano?
Come se ne esce? 
Non certo secondo il modello principe di lotta operaia degli ultimi duecentocinquant'anni: sciopero, blocco della (ri)produzione, per non parlare del sabotaggio (di luddistica memoria), e di altre forme di lotta.
Negli anni Settanta i collettivi femministi padovani misero a punto analisi molto  sofisticate della cura, della funzione delle donne nel privato e nel sociale, dell'accumulazione capitalistica  basata sullo sfruttamento del ruolo femminile nelle società, ma la parola d'ordine: "sciopero del lavoro domestico" non passò, non solo per una questione di sentimento di "abnegazione" interiorizzato, ma perché le prime a essere colpite da questa forma di lotta erano proprio le donne, che nelle case ci vivevano, che mangiavano ciò che cucinavano, che riordinavano i luoghi nei quali vivevano insieme alle altre e agli altri.




A proposito della manifestazione di sabato 15 ottobre

Io penso che la violenza in piazza tende a emarginare ogni forma di conflitto, criminalizzando proteste sociali-nelle varie forme in cui si esprimono, comprese le manifestazioni- collettive o individuali, organizzate o spontanee, e in questo giova sempre a chi detiene il potere in quel momento.
Non sono neppure d'accordo con la semplicistica distinzione tra "buoni manifestanti" educati che non disturbano, e cattivi (anche se so benissimo che esistono provocatori, infiltrati, o anche semplici teste calde).
Ma non penso proprio che chi ha "giocato alla guerra" sabato abbia strozzato il movimento al suo nascere, prima di tutto perché esiste già da qualche tempo (metto insieme tutte le forme di lotta espresse negli ultimi due anni, non solo le manifestazioni di piazza), poi perché la situazione è veramente  grave e gravida di conseguenze.
 Per questo penso che occorra continuare a presidiare tutti i luoghi pubblici, e nello stesso tempo inventare nuove forme di opposizione. e di lotta.
Io credo che una tra le tante possibili azioni  oggi sia proprio il confluire in "luoghi comuni" di tutti i frammenti di movimento mondiale, ciascuno con le proprie caratteristiche, tempi, modi..
Confluire per me significa, oltre che indire manifestazioni unitarie e contemporanee, mantenersi in relazione, contrastare l'ordine del discorso nazionale e internazionale in vista di nuove possibilità di convivenza.

giovedì 6 ottobre 2011

Diario

Mi piace il termine, non ho mai tenuto un diario in vita mia, anche se  nell'età canonica -adolescenza- ho provato più volte.

La pagina bianca di un quaderno ha sempre esercitato un fascino particolare (da piccola giocavo con mia sorella a fare la maestra, davanti a un quaderno che funzionava da registro, destino!!!, lei era la classe, forse da lì è iniziato il suo disamore per la scuola).
Ma davanti alla pagina bianca mi assaliva il crampo dello scrittore, pur senza esserlo ancora.
In realtà cominciavo a pensare a come farlo bene: scrivere tutto quello che mi succedeva,  quello che pensavo, che facevo durante un periodo, una giornata, mi sembrava una palla immane, e ero inoltre sicura che non avrei mai avuto la costanza necessaria a scriverlo quotidianamente.
Usarlo come brogliaccio di idee? per che cosa, se non sapevo ancora che cosa mi interessava realmente, a parte la lettura, il mondo affascinante che permetteva un'evasione in luoghi, tempi e vite diverse dalla mia.

Le mie fantasie poi erano eccitanti se vissute nella mente, sulla pagina risultavano immiserite fino alla banalità.
Come luogo di sfogo emotivo poi, non mi è mai neppure venuto in mente, per quello mi bastavano appunto le mie fantasie: storie immaginarie, con me eroica protagonista, ma sempre in veste maschile, i ruoli femminili non mi sembravano interessanti perché a mio parere non permettevano grandi azioni.

mercoledì 5 ottobre 2011

Benvenute e benvenuti

L'espressione la penna e il piccone è di Virginia Wolf che, nel saggio Una stanza tutta per sé, la usa per indicare lo strumento delle scritture letterarie a firma di donna:: quelle frutto di una mente incandescente, capace di consumare tutti gli ostacoli fino al loro dissolvimento, sono scritte con la penna; quelle ancora governate da emozioni -quali il rancore e la recriminazione- non mediate dalla dimensione artistica sono scritte con il piccone.
Wolf dichiara di preferire di gran lunga le scritture a penna.
Mi ha colpito questa metafore potente, nell'immediato mi sono trovata d'accordo con lei nel preferire le scritture di penna, ma l'immagine evocata dal piccone -vale a dire di uno strumento che demolisca idee consolidate, fantasie sedimentate nelle menti di donne e uomini, orizzonti di attesa, valori, giudizi insieme con le strutture culturali e sociali che li determinano - mi sembra interessante.
Allora il piccone non mi appare più come un elemento solo negativo, nell'ambito di una scrittura, anche a costo di entrare in contrasto con la dimensione estetica.
In questo blog mi riprometto di usare entrambi gli strumenti e invito chi dialogherà con me a fare altrettanto.