martedì 4 giugno 2013

Speranze e illusioni

Quando si parla delle difficoltà che vivono oggi le giovani donne e i giovani uomini si mette l'accento sopratutto sulle condizioni materiali di vita: precarietà del lavoro, che si traduce nell'impossibilità di fare progetti a medio e lungo termine, nel caso poi il lavoro lo si trovi, oltre alla precarietà impieghi umilianti e non rispondenti alle competenze e conoscenze maturate nella formazione. 
Situazioni che generano insicurezze e instabilità anche affettive, che richiedono molta forza di volontà e senso di responsabilità per superarle.
Ma oltre a questi aspetti ce ne sono altri, magari meno evidenti, ma secondo me ugualmente importanti, di natura culturale-psicologica.
A chi abbia la speranza di modificare lo stato di cose presenti, nel senso di maggiore giustizia sociale, solidarietà intrageneri e intragenerazioni, di trasformazione  radicale dell'organizzazione del lavoro e della produzione, smantellando una volta per tutte un sistema basato sullo sfruttamento intensivo di persone, animali, piante e cose in ragione dell'ottenimento del profitto, a chi abbia dunque  intenzione di agire in questo senso non si presenta alcun modello realizzato- seppure parzialmente- come è stato per noi negli anni della nostra giovinezza.
Il fatto che quei modelli fossero in qualche modo sbagliati, o erroneamente interpretati, non significava nulla per noi, perché a livello simbolico il "credere" che da qualche parte del mondo fosse stato possibile ci induceva a agire perché fosse possibile anche nella nostra realtà.
Era una promessa di realizzazione.
In fondo questa è stata anche la ragione per la quale i primi cristiani considerarono il regno dei cieli come qualcosa di molto concreto, che si sarebbe affermato di lì a poco, che la seconda venuta del cristo avrebbe sconfittto i vari potentati e re del tempo, rendendolo appunto re dei re, e instaurando il regno dell'amore universale, della giustizia e della bontà.
Questa ferma convinzione, unita alla predicazione del superamento della schiavitù e dell'avvento della uguaglianza tra gli uomini, ha costituito l'elemento di forza di una religione che ha travolto tutte le altre con le quali è venuta in contatto.
Noi, anche una volta appurato come distorti fossero i modelli ai quali avevamo creduto -ricordo come negli anni Sessanta ormai preso atto del completo fallimento dell'Unione Sovietica i nostri sguardi si rivolsero alla Cina, ricordo i testi degli anni Settanta sulla condizione delle donne cinesi, da alcune di noi vissuta come raggiunta emancipazione dalla subordinazione e dalla subalternità- abbiamo in qualche modo goduto allora dell'illusione che effettivamente fosse stato possibile realizzare un mondo migliore, speranza oggi negata, così da giustificare sentimenti di fatalismo e rassegnazione. 
Anche le difese di certe situazioni mi generano un sospetto, se leggo un'intervista di una economista e personalità di governo ad esempio cubana, che presenta le ultime decisioni  prese dal partito in ordine alla razionalizzazione del mercato interno come modello di giustizia sociale mi chiedo subito dove sta il trucco e che cosa non si vuole vedere e dire.
Se è comunque positivo il disincanto verso la realtà, che probabilmente eviterà gli errori di interpretazione e le tragedie provocate da questi, è un po' inquietante il muoversi in assenza di riferimenti e modelli concreti, ma solo sulla base di convinzioni e teorizzazioni.
Questa è, fra le tante, una difficoltà per le/i giovani, ma  credo anche che abbiano spalle buoni, sensi acuti e buone disposizione di cuori e menti per affrontare anche questa sfida.


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