Scorze di Adriana Perrotta Rabissi, un libro composto da miei brevi racconti e mie letture critiche di scrittrici amate. Alcuni romanzi mi hanno interpellato emotivamente e affettivamente, mi sono impossessata di temi, sentimenti, emozioni espressi dalle autrici, le ho filtrate attraverso la mia esperienza di vita e pensiero, e le ho restituite ai racconti
lunedì 22 dicembre 2014
Memorie di una femminista non pentita (XI)
Un inizio di femminismo a Milano
Mi sento senza storia.
Parlo della storia della mia famiglia d'origine, del radicamento in una comunità di affetti e destini; molteplici sono le ragioni di questa mancanza, ragioni personali dei miei genitori, ragioni sociali e politiche.
Sono figlia di due genitori emigrati a Milano dalle rispettive città, in rotta con famiglie, delle quali non parlavano volentieri. Entrambi formatisi ai valori fascisti, e, in quanto tali, frustrati per essere dalla parte parte dei "vinti", non parlavano in casa neppure dei fatti storici vissuti, se non per deplorare come erano raccontate le cose da parte dei "vincitori", con una sfumatura rancorosa nei confronti del presente "ingiusto".
Mia madre ha sofferto per la separazione dei suoi genitori, "colpa" di un padre socialista che non solo ha abbandonato la moglie in nome del "libero amore", ma non ha permesso alla figlia di frequentare le superiori per non mandarla a scuola "insieme con i maschi".
Mio padre, di famiglia modesta e allevato con i fratelli dalla madre vedova, è venuto su un po' sbandato, a suo dire aveva davanti a sé solo un 'alternativa: o poliziotto o delinquente, ha scelto la prima opzione.
Conosco poco altro della loro storia, unica eccezione la mia nonna materna, che ha accompagnato mia madre nella fuga, quasi clandestina, a Milano; entrambe avrebbero portato il peso di questo gesto di fronte alle loro famiglie, che le considerarono donne per male. Ma neanche lei ha mai parlato della sua famiglia d'origine.
Non ho frequentato se non sporadicamente, e quando ero molto piccola cugini/e e zii/e, così metto insieme frammenti di notizie che ricordo da osservazioni di mia madre quando ero bambina, o da suoi discorsi con conoscenti.
Mentre scrivo mi chiedo se questi ricordi sono reali o costruiti da me.
E' disorientante non sapere nulla di chi ci ha preceduto, nomi, occupazioni, interessi, paure e speranze.
Per questo forse ho studiato Storia, mi sono laureata in Storia medievale e tra le mie discipline universitarie preferite c'erano archivistica e paleografia.
Forse la conseguenza psicologica più importante di questo mio sentirmi senza storia personale consiste nel fatto che non do mai importanza a quello che ho fatto, ricomincio sempre da capo, trascurando il recente passato.
Così non ho mai accennato nelle mie ricostruzioni scritte e orali ai miei inizi nel femminismo.
Nel 1970, dopo la militanza di qualche anno in uno dei gruppi extraparlamentari di Milano, ho cominciato a interessarmi a quella che allora era chiamata "la questione femminile".
Non avevo mai partecipato alle attività dell'UDI, neppure a nessuna delle commissiono femminile dei partiti, infatti non sono mai stata iscritta ad alcun partito.
Nel 1970 si respirava un'aria nuova tra molte donne, ci incontravamo a casa mia, la sera a parlare di noi, a redigere volantini sul doppio lavoro, domestico e extradomestico da distribuire davanti alle fabbriche.
C'erano donne conosciute durante il lavoro politico svolto precedentemente, alcune studentesse, qualche sindacalista, conosciuta durante il lavoro di volantinaggio.
Alcune delle sindacaliste ottennero il permesso di farci entrare con loro nella mensa della fabbrica durante la pausa pranzo, in una sorta di breve assemblea, per parlare con le operaie dei problemi di quella che si chiamava la "condizione delle donne".
Ricordo anche qualche riunione serale in casa di qualche operaia della Pirelli, in zona Bicocca, su iniziativa di Serena Nozzoli, che stava ultimando la sua tesi di laurea, che sarebbe diventata tre anni dopo il libro Donne si diventa, titolo mutuato da Simone de Beauvoir.
Proprio tra il 1970 e il 1974 nascevano e operavano a Milano circa trenta gruppi di donne, con un nome, una sede, per lo più una casa privata, e una produzione di brevi documenti e volantini.
Tutti quanti in polemica, a volte anche aspra, con l'emancipazionismo portato avanti dai gruppi dalle commissioni femminili dei partiti, e soprattutto dall'UDI.
Ci fu anche un periodo di frequentazione tra gruppi, alcune andavano "in visita" alle riunione di altri gruppi.
Ricordo a casa mia le visite di Elena Medi e Silvia Motta (Il cerchio spezzato di Trento, trasferitosi a Milano), di Daniela Pellegrini (Demau), di alcune di Anabasi (il gruppo fondato da Serena Castaldi, che aveva portato materiale dal movimento di donne negli USA).
Io stessa partecipai un paio di volte alle riunioni in via Brera di Carla Lonzi, sottovalutandone ahimè il discorso, tutta imbevuta com'ero di operaismo.
Quando si costituì finalmente la sede di via Cherubini i collettivi confluirono in una riunione settimanale di tutti i gruppi di Milano, nella quale continuò per qualche tempo il confronto tra le varie posizioni.
Il mio gruppo aveva inizialmente una presenza maschile, un nome che ricordava i collettivi di matrice operaista e marxista che agivano sul territorio, si chiamava Collettivo politico milanese per la liberazione della donna.
La militanza nei gruppi misti ci aveva convinto che non era possibile una politica dei due tempi, che un cambiamento radicale, rivoluzione si diceva allora, del sistema sociale e politico non avrebbe contemporaneamente modificato il rapporto tra donne e uomini, sia nei luoghi di lavoro che all'interno delle case.
Le donne operaie erano individuate nel mio gruppo come tra le più oppresse, a causa del doppio lavoro in fabbrica e a casa.
Anche noi avevamo direttamente sperimentato nei nostri gruppi la situazione di subordinazione ai nostri compagni, in qualità di angeli del ciclostile, pulitrici di sedi, cuoche nelle riunioni, oggetti della loro liberazione sessuale.
Quella a cui davamo vita nelle riunioni a casa mia non poteva chiamarsi ancora autocoscienza, già praticata da qualche collettivo, quanto piuttosto "presa di coscienza", come si diceva allora, di una condizione di subalternità agli uomini, materiale e culturale, che accomunava tutte le donne, indipendentemente dalla loro posizione sociale, secondo la divisione dei compiti prevista dalla codificazione dei ruoli sessuali vigente.
Anche nella presa di coscienza si metteva al centro del discorso la scoperta degli specifici bisogni, desideri, frustrazioni, in casa e nei luoghi di lavoro. Si provava a costruire relazioni di fiducia e solidarietà tra donne, fuori della tradizionale rivalità, la parola d'ordine era "sorellanza", che veniva rinsaldata anche dai momenti esaltanti di feste e cene tra donne, nelle quali si scopriva la libertà di sottrarsi allo sguardo -e conseguente valutazione- maschili.
L'apporto ulteriore dell'autocoscienza sarebbe stato, di lì a poco, la consapevolezza di aver interiorizzato lo sguardo maschile anche noi donne, e di attivarlo, più o meno inconsapevolmente, nelle nostre relazioni.
Un scoperta fondamentale fu la sottrazione del corpo e dei suoi eventi fisiologici alla medicalizzazione, comprese gravidanza e parto, non più considerati malattie e quindi ricondotte al governo delle singole donne, di qui la parola d'ordine dell'autodeterminazione, che comportava l'esigenza di una maternità cosciente, e non imposta e/o subita.
Ma autodeterminazione significava anche poter disporre liberamente degli anticoncezionali, ancora proibiti in Italia a causa dei divieti imposti dalla Chiesa (la pillola si andava a comprare in Svizzera), una delle prime campagne, gestita attraverso volantini, distribuiti davanti alle fabbriche e nei mercati, luoghi frequentati dalle donne, riguardò proprio la richiesta di liberalizzazione degli anticoncezionali.
Quando di lì a poco si pose a livello politico la questione dell'interruzione di gravidanza, partiti e sindacati parlarono di diritto di aborto, ma nessun collettivo femminista adottò questa espressione, che riduceva la questione a un solo aspetto del problema, semplificando il discorso. Anche se diverse furono le posizioni tra i gruppi, tra chi chiedeva la semplice depenalizzazione, per evitare l'ingerenza della legge nelle scelte personali, e chi invece sosteneva la necessità di una regolamentazione, sempre si mise l'accento sulla maternità cosciente, perché il discorso si estendeva contemporaneamente anche alla lotta contro gli aborti bianchi causati dalle condizioni di lavoro e di precarietà, oltre che alla libertà di usare anticoncezionali sicuri.
Il discorso completo riguardava la scelta libera di una donna di avere o no figli, disponendo di tutte le risorse per i controllo delle nascite, avendo la sicurezza di condurre felicemente a termine le gravidanze desiderate.
In questo modo Il "privato", che cosa c'era di più privato del corpo delle donne, si scopriva "politico".
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lunedì 1 dicembre 2014
Memorie di una femminista non pentita (X)
Una valigia di carbone
Valigia di carbone, 3 giorni senza uscire di casa, una poesia, che ricordo si concludeva con un “viva Adriana”.
Tre espressioni che hanno accompagnato, da quando ne ho memoria, i racconti di mia nonna e mia madre a proposito della mia nascita, insieme all’osservazione che raggiungevo a fatica due kili di peso, ma ero ugualmente molto carina, in quanto neonata, mentre mia sorella, che sarebbe nata un anno e mezzo dopo, era invece brutta.
Non so molto altro, mia madre è morta quando avevo vent'anni, non ero ancora interessata agli eventi della gravidanza, del parto, e dell’ allattamento e non ho fatto in tempo a rivolgerle domande in proposito quando ne avrei avuto bisogno. Mi accorgo con stupore, ora che ne scrivo, che non mi sono neanche sognata di chiedere invece notizie a mio padre, morto solo pochi anni fa.
Del resto neanche lui ha mai accennato alla nascita mia o di mia sorella, come se la cosa non l’avesse riguardato per nulla, neanche al tempo delle mie due gravidanze, o dei miei parti.
La divisione dei compiti e la distinzione dei ruoli hanno operato nel profondo della mia psiche, oltre che della sua.
Eppure ricordo che fino all’età di sette /otto anni mi compiacevo di dire a chiunque che mio papà era stato così contento della mia venuta al mondo che non era uscito di casa per tre giorni di seguito.
Questo ritornello, che mi riempiva d’orgoglio quale segno di elezione, mi si chiarì nel suo significato quando appresi, più tardi, dell’abitudine paterna di stare fuori casa la sera, gioco e forse donne (? ) tanto da costringere mia madre a passare lunghe ore seduta sugli scalini davanti alla porta, per la paura di stare in casa da sola, salvo rientrare precipitosamente al suono dell’ascensore.
La valigia piena di carbone, per tenermi al caldo in un inverno molto freddo e la poesia erano regali del mio padrino di battesimo, al quale ho voluto molto bene, che è stato un’assidua presenza nella nostra vita familiare, fino al momento in cui si è sposato, abbastanza avanti negli anni.
Sono nata il 3 febbraio di sabato, verso le dieci di mattina. Nei primi 13 giorni di febbraio 1945 a Milano ci sono stati gli ultimi attacchi aerei, 14; Milano era allo stremo, al freddo e alla fame, con il Comune che organizza mense collettive.
In questo stesso mese Stalin e Roosevelt si incontravano a Yalta, nella storica conferenza, per decidere l’assetto dell’Europa nel dopoguerra, il nuovo ordine mondiale che avrebbe avuto tanta importanza per donne e uomini, già provati da anni di guerra e dittature.
venerdì 3 ottobre 2014
Memorie di una femminista non pentita (IX)
E' dura per una vecchia femminista come me rendersi di come sia difficile liberarsi delle immagini di genere interiorizzate, malgrado anni di femminismo.
Ad esempio, quando mi accorgo che alcune giovani donne con le quali sono in rapporti amicali, affettivi o di lavoro praticano apertamente e con spregiudicatezza un certo utilitarismo nei miei confronti, quasi affermassero un loro diritto, vengo colpita in modo particolare.
Ma non come si viene colpiti normalmente, quando si incontrano comportamenti del genere, in coetanei e coetanee, ma più a fondo, mi scopro improvvisamente senza difese.
Mi trovo allora a vivere in una dimensione oscillante tra un ragionamento giustificatorio - l'emergenza del momento di crisi generale, la pressione degli impegni...- e un sentimento di delusione acuta.
E' dura per molte ragioni, e non parlo solo dei colpi al mio ego, ma per la consapevolezza che, malgrado l'attenzione e i discorsi fatti e ascoltati, la strada verso l'uscita dal patriarcato è ancora lunga, prima di tutto dentro di me.
Se è stata una battaglia femminista affermare la necessità per le donne di dotarsi di autostima, di conquistare indipendenza di giudizio e autonomia di comportamenti, al di fuori di attese sociali e stereotipi di genere, di contrastare insomma le aspettative di oblatività affettiva e pratica, che sono ritenute caratteristiche "naturali" della femminilità compiuta, trovarsi di fronte a atteggiamenti e conseguenti comportamenti improntati ad un'economia di scambio e null'altro, mi spiazza.
Mentre sono preparata ad aspettarmi trattamenti analoghi da parte di uomini, e donne della mia età, qualcosa mi fa velo di fronte a donne più giovani e dalle quali mi aspetto una sorta di "riconoscenza" per le battaglie, anche dolorose, intraprese nel corso della vita.
Ma è proprio questo l'imbroglio, quasi un residuo di fiducia in una sorellanza intesa come "dato di natura", per il solo fatto di essere donne, in aperto contrasto con la convinzione e il desiderio di essere riconosciute come persone complesse, più o meno disponibili verso gli/le altri/e, più o meno concentrate su se stesse, più o meno prepotenti, in altre parole donne valutate per le caratteristiche soggettive, e non per appartenenza di genere.
Ad esempio, quando mi accorgo che alcune giovani donne con le quali sono in rapporti amicali, affettivi o di lavoro praticano apertamente e con spregiudicatezza un certo utilitarismo nei miei confronti, quasi affermassero un loro diritto, vengo colpita in modo particolare.
Ma non come si viene colpiti normalmente, quando si incontrano comportamenti del genere, in coetanei e coetanee, ma più a fondo, mi scopro improvvisamente senza difese.
Mi trovo allora a vivere in una dimensione oscillante tra un ragionamento giustificatorio - l'emergenza del momento di crisi generale, la pressione degli impegni...- e un sentimento di delusione acuta.
E' dura per molte ragioni, e non parlo solo dei colpi al mio ego, ma per la consapevolezza che, malgrado l'attenzione e i discorsi fatti e ascoltati, la strada verso l'uscita dal patriarcato è ancora lunga, prima di tutto dentro di me.
Se è stata una battaglia femminista affermare la necessità per le donne di dotarsi di autostima, di conquistare indipendenza di giudizio e autonomia di comportamenti, al di fuori di attese sociali e stereotipi di genere, di contrastare insomma le aspettative di oblatività affettiva e pratica, che sono ritenute caratteristiche "naturali" della femminilità compiuta, trovarsi di fronte a atteggiamenti e conseguenti comportamenti improntati ad un'economia di scambio e null'altro, mi spiazza.
Mentre sono preparata ad aspettarmi trattamenti analoghi da parte di uomini, e donne della mia età, qualcosa mi fa velo di fronte a donne più giovani e dalle quali mi aspetto una sorta di "riconoscenza" per le battaglie, anche dolorose, intraprese nel corso della vita.
Ma è proprio questo l'imbroglio, quasi un residuo di fiducia in una sorellanza intesa come "dato di natura", per il solo fatto di essere donne, in aperto contrasto con la convinzione e il desiderio di essere riconosciute come persone complesse, più o meno disponibili verso gli/le altri/e, più o meno concentrate su se stesse, più o meno prepotenti, in altre parole donne valutate per le caratteristiche soggettive, e non per appartenenza di genere.
lunedì 29 settembre 2014
Memorie di una femminista non pentita (VIII)
Una delle maggiori difficoltà, e conseguente delusione, per chi come me ha vissuto i primi momenti del neofemmimnismo in Italia -fine anni Sessanta e anni Settanta- è stata il rendersi conto che tutta una serie di comportamenti, attribuiti alle modalità maschili di competere, erano stati interiorizzati da noi donne come utili per conquistare posizioni all'interno di certi ambienti, e erano praticati come "normali".
Le poche che li criticavano rischiavano spesso di essere liquidate con l'accusa di vittimismo.
Certo che l'autocoscienza aveva avuto il primo obiettivo di scovare le immagini di genere e la complicità con l'ordine sociale e culturale interiorizzato anche da noi, ma non tutte le femministe hanno praticato l'autocoscienza, alcune l'hanno considerata un'inutile perdita di tempo, rispetto alle lotte da condurre nel sociale; altre, che pure l'hanno praticata, non l'hanno applicata ai propri comportamenti.
Il contraccolpo si è avvertito nella seconda metà degli anni '80, al tempo che venne chiamato "del riflusso", quando, esauritasi la spinta al cambiamento del decennio precedente, in seguito agli attacchi alle lotte operaie e studentesche, e ai movimenti antagonisti al sistema, ci si è trovat* su una posizione difensiva.
I movimenti femministi hanno dato vita a Centri, Librerie, Archivi, Case delle donne, Riviste e giornali, tutti luoghi dove incontrarsi e riflettere come portare avanti i discorsi, sono stati raccolti documenti, per impedirne la dispersione, sono stati scritti e pubblicati testi, si sono organizzati convegni e seminari, nazionali e internazionali, anche se già da allora i giornali strillavano che il movimento era morto, il femminismo era finito.
Il pensiero critico ha continuato, si è raffinato, ma tutto questo lavorio restava confinato nel circuito dei Centri, Archivi, Librerie e case delle donne, il momento di coordinamento fu costituito dalla Rete Lilith, e dalla sua base dati, consultabile in rete.
Nei luoghi del sapere deputati, l'Accademia, questo lavoro culturale non era tenuto in considerazione, si attingeva al patrimonio elaborato nei vari centri, si utilizzava il consenso delle femministe, che assicurava una buona circolazione ai testi prodotti, ma non si dava il riconoscimento di "maternità" dovuto.
Quello che era stata riflessione collettiva poteva essere saccheggiata impunemente, perché non era proprietà di nessuna.
Parlo delle accademiche che negli anni '80 hanno iniziato la carriera nelle università.
Non tutte, per fortuna, ma la maggior parte di loro ha trascurato di riconoscere il lavoro collettivo dal quale ha avuto origine, o ha preso spunti, la ricerca individuale.
E' pur vero che, data l'arretratezza generale della nostra Accademia, risultava difficile farle accettare fonti considerate poco rigorose e poco scientifiche, ma non mi sembra ci siano state tante battaglie, da parte di donne aspiranti a cattedre universitarie, per cambiare la situazione.
Il risultato è stato spesso la cancellazione, all'interno del fenomeno di marginalizzazione generale del pensiero e delle esperienze femministe, dei nomi di chi non aveva visibilità, non ricopriva posti di potere - grande o piccolo che fosse- nell'Accademia, nella cultura, ma soprattutto nella politica dei partiti.
In altre parole di chi non poteva in qualche modo fare gioco di scambio di favori.
Se in qualche modo si è preparate alla cancellazione da parte di chi è complice consapevole del sistema donna o uomo che sia, non si è mai abbastanza preparate, secondo me, a essere completamente ignorate, quando si sono magari impiegati anni di lavoro comune.
Per molte donne e molti uomini, estern* al femminismo, il maggior contributo alla svalutazione delle pratiche e delle teorie femministe deriva, oltre che dall'opera sistematica dei grandi mezzi di comunicazione, proprio dai comportamenti di femministe di potere, nei vari ambiti di attività
Le poche che li criticavano rischiavano spesso di essere liquidate con l'accusa di vittimismo.
Certo che l'autocoscienza aveva avuto il primo obiettivo di scovare le immagini di genere e la complicità con l'ordine sociale e culturale interiorizzato anche da noi, ma non tutte le femministe hanno praticato l'autocoscienza, alcune l'hanno considerata un'inutile perdita di tempo, rispetto alle lotte da condurre nel sociale; altre, che pure l'hanno praticata, non l'hanno applicata ai propri comportamenti.
Il contraccolpo si è avvertito nella seconda metà degli anni '80, al tempo che venne chiamato "del riflusso", quando, esauritasi la spinta al cambiamento del decennio precedente, in seguito agli attacchi alle lotte operaie e studentesche, e ai movimenti antagonisti al sistema, ci si è trovat* su una posizione difensiva.
I movimenti femministi hanno dato vita a Centri, Librerie, Archivi, Case delle donne, Riviste e giornali, tutti luoghi dove incontrarsi e riflettere come portare avanti i discorsi, sono stati raccolti documenti, per impedirne la dispersione, sono stati scritti e pubblicati testi, si sono organizzati convegni e seminari, nazionali e internazionali, anche se già da allora i giornali strillavano che il movimento era morto, il femminismo era finito.
Il pensiero critico ha continuato, si è raffinato, ma tutto questo lavorio restava confinato nel circuito dei Centri, Archivi, Librerie e case delle donne, il momento di coordinamento fu costituito dalla Rete Lilith, e dalla sua base dati, consultabile in rete.
Nei luoghi del sapere deputati, l'Accademia, questo lavoro culturale non era tenuto in considerazione, si attingeva al patrimonio elaborato nei vari centri, si utilizzava il consenso delle femministe, che assicurava una buona circolazione ai testi prodotti, ma non si dava il riconoscimento di "maternità" dovuto.
Quello che era stata riflessione collettiva poteva essere saccheggiata impunemente, perché non era proprietà di nessuna.
Parlo delle accademiche che negli anni '80 hanno iniziato la carriera nelle università.
Non tutte, per fortuna, ma la maggior parte di loro ha trascurato di riconoscere il lavoro collettivo dal quale ha avuto origine, o ha preso spunti, la ricerca individuale.
E' pur vero che, data l'arretratezza generale della nostra Accademia, risultava difficile farle accettare fonti considerate poco rigorose e poco scientifiche, ma non mi sembra ci siano state tante battaglie, da parte di donne aspiranti a cattedre universitarie, per cambiare la situazione.
Il risultato è stato spesso la cancellazione, all'interno del fenomeno di marginalizzazione generale del pensiero e delle esperienze femministe, dei nomi di chi non aveva visibilità, non ricopriva posti di potere - grande o piccolo che fosse- nell'Accademia, nella cultura, ma soprattutto nella politica dei partiti.
In altre parole di chi non poteva in qualche modo fare gioco di scambio di favori.
Se in qualche modo si è preparate alla cancellazione da parte di chi è complice consapevole del sistema donna o uomo che sia, non si è mai abbastanza preparate, secondo me, a essere completamente ignorate, quando si sono magari impiegati anni di lavoro comune.
Per molte donne e molti uomini, estern* al femminismo, il maggior contributo alla svalutazione delle pratiche e delle teorie femministe deriva, oltre che dall'opera sistematica dei grandi mezzi di comunicazione, proprio dai comportamenti di femministe di potere, nei vari ambiti di attività
martedì 16 settembre 2014
Memorie di una femminista non pentita (VII puntata)
Una socialità nuova tra donne si è in qualche modo costituita, inedita rispetto al periodo pre-femminista, quando le donne si incontravano in luoghi deputati al lavoro di cura (mercati, giardini, scuole) in assenza degli uomini "al lavoro", e parlavano prevalentemente di questioni relative alla cura o alla relazione con i loro partner, oggi molte donne cercano altre donne per studiare, divertirsi, viaggiare, condividere vita e tempo per sé.
Le condizioni generali della società, però, continuano a richiedere alle donne, e anche agli uomini negli ultimi anni, un impegno sempre più intenso nella cura dei/delle nipoti, quando non richiedono anche contributi economici per aiutare situazioni di lavoro precario.
La contraddizione tra le proprie convinzioni, maturate in anni di riflessione individuale e collettiva, e le urgenze del presente si fa stridente, soprattutto per le donne, ma anche qualche uomo, che hanno dato vita e forma al femminismo degli anni Settanta, e ora si ritrovano nonne -e nonni - felici, ma in conflitto con il modello prevalente ereditato dalle proprie madri e nonne.
Quanto la persistenza di certi modelli di organizzazione del lavoro -che sembrano peggiorare sempre più per la crisi- e la permanenza di "soluzioni private" nei confronti della cura dei e delle bambine, nonché delle inabilità temporanee e/o permanenti, è da addebitarsi alla "generosa dedizione di nonni e nonne", che in tal modo contribuiscono a mantenere uno stato di cose funzionale alla divisione patriarcale e capitalistica del lavoro?
E che cosa c'è dietro questa generosa dedizione di donne e uomini, e se se ne volesse superare la costrittività in nome di una libera scelta, come fare?
Si affaccia così il dubbio che, oltre al piacere e alla gioia che procura accudire ai propri nipotini e nipotine, giochi l'interiorizzazione di immagini di genere collegate al destino sociale delle donne e degli uomini non più "produttivi" (cioè in pensione).
Sono stata madre conflittuale con il modello di "oblatività imposta" ereditato da mia madre, e adesso sono nonna in conflitto con quello ereditato da mia nonna, modello ancora attivo per molte donne, e anche uomini, a quanto vedo.
Per ora niente e nessuno può sollevare i singoli e le singole dalla negoziazione continua tra le proprie esigenze e i bisogni di figli, figlie e nipoti, negoziazione che a volte provoca scontenti e fraintendimenti reciproci.
L'unica dimensione collettiva per liberarsi da questo retaggio patriarcale è mettere al centro di ogni collettività, qui e in tutto il pianeta, la cura di persone, ambienti e relazioni quale attività fondamentale di ciascuno e ciascuna, attorno alla quale riorganizzare lavoro e vita.
domenica 29 giugno 2014
Memorie di una femminista non pentita (VI)
Proprio il discorso della complicità di noi donne con l'ordine costituito ha imposto di fatto la pratica dell'autocoscienza, l'unico modo per scoprire, collettivamente, le interiorizzazioni delle immagini di genere prodotte dalla cultura patriarcale trasmesse a donne e uomini con le rispettive educazioni di genere, immagini accettate e riproposte, a volte inconsapevolmente.
I primi anni del femminismo (1969-1973) mi avevano visto animatrice di gruppi di analisi e confronto sui temi dell'oppressione delle donne, della loro marginalità rispetto ai luoghi di potere (il tetto di cristallo), del carico del doppio lavoro, delle difficoltà dell'autodeterninazione rispetto al proprio corpo e alla salute, degli ostacoli e dei vincoli opposti alle donne nei loro tentativi di conquistare indipendenza economica e autonomia dalla norma sociale.
Gli anni dell'autocoscienza mi ammutolirono; non appena mi resi conto di continuare a parlare un linguaggio ancora interno a un'ottica emancipazionista, ispirata al progetto di valorizzazione e promozione delle attitudini, capacità e competenze delle donne in tutti i settori della cultura, della politica e della vita sociale, mi trovai letteralmente senza parole, ma molto interessata a ascoltare chi mi sembrava più esperta nelle analisi delle complicità.
Era veramente disorientante mettere in discussione consapevolezze e certezze acquisite in anni di militanza politica, ritrovarsi quasi senza rete di protezione, senza sapere bene dove si sarebbe andate a parare.
L'unico luogo dove si pensava, e ci si illudeva, di essere al riparo da scossoni affettivi e emotivi sembrava essere il proprio gruppo di autocoscienza, dove si era comprese, perché si parlava una lingua comune, che si allontanava sempre più dagli altri linguaggi, e dove si era sostenute.
Successivamente ci si sarebbe accorte che anche tra donne si potevano riproporre i meccanismi consueti di potere, "l'occhio e la logica maschile" erano state interiorizzate da molte di noi, e non si poteva eliminare semplicemente allontanando gli uomini concreti dalle nostre riunioni, a quel punto molti gruppi di autocoscienza si sciolsero, spesso con lacrime e lacerazioni di relazioni.
Il separatismo, funzionale all'analisi dei meccanismi culturali e sociali determinanti delle identità maschili e femminili tradizionali, sconvolgeva anche equilibri nelle relazioni personali, specie con i propri uomini, equilibri magari raggiunti a fatica precedentemente, scompaginava anche alleanze sentimentali e politiche, fino ad allora coese.
Molte furono le crisi di relazioni in quel tempo, fiorivano battute sulle coppie che scoppiavano alla luce delle nuove consapevolezze maturate dalle donne su se stesse e sui propri desideri; al di là dei drammi che questo processo comportò, ebbe luogo per molte e molti una funzione chiarificatrice in merito alle ambiguità e ambivalenze sottese a molte relazioni d'amore.
I miei problemi con il materno, una certa inesperienza delle relazioni amicali e d'amore, e soprattutto l'ignoranza di quello che avrei voluto io da queste relazioni, provocarono in me una certa confusione, e una deriva ideologica, provocata da una sorta di scissione, lo dico con il senno di poi, che mi impedì di applicare alla mia realtà più profonda le analisi che andavo studiando e sperimentando nel gruppo.
Devo anche dire che erano anni per me molto affollati di impegni, lavoro, figli, ai quali accudire io e mio marito senza alcuna rete parentale di sostegno, riunioni, studi, con poco tempo per riflettere e metabolizzare eventi e discorsi.
Comunque fu un periodo molto ricco e entusiasmante per quanto di nuovo si stava elaborando da parte delle donne dei collettivi e dei gruppi di autocoscienza che costituirono il Movimento, ma anche da parte di studiose di varie discipline che, senza far parte attiva del Movimento, coglievano gli stimoli che provenivano dalle sue pratiche e teorizzazioni.
Divennero sempre più numerose e sofisticate le analisi dei modelli di organizzazione sociale, delle modalità affettive praticate, dei linguaggi disciplinari e scientifici dominanti.
La grande grande vivacità intellettuale di donne di tutte le età si traduceva anche immediatamente in momenti di lotta autorganizzati, creativi, progettuali nelle scuole, nelle fabbriche, nelle case.
Forte era poi il sentimento comune di dar vita a una socialità fino ad allora inedita.
I primi anni del femminismo (1969-1973) mi avevano visto animatrice di gruppi di analisi e confronto sui temi dell'oppressione delle donne, della loro marginalità rispetto ai luoghi di potere (il tetto di cristallo), del carico del doppio lavoro, delle difficoltà dell'autodeterninazione rispetto al proprio corpo e alla salute, degli ostacoli e dei vincoli opposti alle donne nei loro tentativi di conquistare indipendenza economica e autonomia dalla norma sociale.
Gli anni dell'autocoscienza mi ammutolirono; non appena mi resi conto di continuare a parlare un linguaggio ancora interno a un'ottica emancipazionista, ispirata al progetto di valorizzazione e promozione delle attitudini, capacità e competenze delle donne in tutti i settori della cultura, della politica e della vita sociale, mi trovai letteralmente senza parole, ma molto interessata a ascoltare chi mi sembrava più esperta nelle analisi delle complicità.
Era veramente disorientante mettere in discussione consapevolezze e certezze acquisite in anni di militanza politica, ritrovarsi quasi senza rete di protezione, senza sapere bene dove si sarebbe andate a parare.
L'unico luogo dove si pensava, e ci si illudeva, di essere al riparo da scossoni affettivi e emotivi sembrava essere il proprio gruppo di autocoscienza, dove si era comprese, perché si parlava una lingua comune, che si allontanava sempre più dagli altri linguaggi, e dove si era sostenute.
Successivamente ci si sarebbe accorte che anche tra donne si potevano riproporre i meccanismi consueti di potere, "l'occhio e la logica maschile" erano state interiorizzate da molte di noi, e non si poteva eliminare semplicemente allontanando gli uomini concreti dalle nostre riunioni, a quel punto molti gruppi di autocoscienza si sciolsero, spesso con lacrime e lacerazioni di relazioni.
Il separatismo, funzionale all'analisi dei meccanismi culturali e sociali determinanti delle identità maschili e femminili tradizionali, sconvolgeva anche equilibri nelle relazioni personali, specie con i propri uomini, equilibri magari raggiunti a fatica precedentemente, scompaginava anche alleanze sentimentali e politiche, fino ad allora coese.
Molte furono le crisi di relazioni in quel tempo, fiorivano battute sulle coppie che scoppiavano alla luce delle nuove consapevolezze maturate dalle donne su se stesse e sui propri desideri; al di là dei drammi che questo processo comportò, ebbe luogo per molte e molti una funzione chiarificatrice in merito alle ambiguità e ambivalenze sottese a molte relazioni d'amore.
I miei problemi con il materno, una certa inesperienza delle relazioni amicali e d'amore, e soprattutto l'ignoranza di quello che avrei voluto io da queste relazioni, provocarono in me una certa confusione, e una deriva ideologica, provocata da una sorta di scissione, lo dico con il senno di poi, che mi impedì di applicare alla mia realtà più profonda le analisi che andavo studiando e sperimentando nel gruppo.
Devo anche dire che erano anni per me molto affollati di impegni, lavoro, figli, ai quali accudire io e mio marito senza alcuna rete parentale di sostegno, riunioni, studi, con poco tempo per riflettere e metabolizzare eventi e discorsi.
Comunque fu un periodo molto ricco e entusiasmante per quanto di nuovo si stava elaborando da parte delle donne dei collettivi e dei gruppi di autocoscienza che costituirono il Movimento, ma anche da parte di studiose di varie discipline che, senza far parte attiva del Movimento, coglievano gli stimoli che provenivano dalle sue pratiche e teorizzazioni.
Divennero sempre più numerose e sofisticate le analisi dei modelli di organizzazione sociale, delle modalità affettive praticate, dei linguaggi disciplinari e scientifici dominanti.
La grande grande vivacità intellettuale di donne di tutte le età si traduceva anche immediatamente in momenti di lotta autorganizzati, creativi, progettuali nelle scuole, nelle fabbriche, nelle case.
Forte era poi il sentimento comune di dar vita a una socialità fino ad allora inedita.
venerdì 27 giugno 2014
Memorie di una femminista non pentita (V puntata)
Il discorso della complicità delle donne con l'ordine sociale e culturale costruito a dominanza maschile è stato dirimente tra l'emancipazionismo e il femminismo anni Settanta.
Non mi è stato facile abbandonare la dimensione di condanna della posizione di subalternità culturale e sociale delle donne rispetto agli uomini, a suo modo consolatoria perché legittimava ogni comportamento individuale e collettivo come reazione alla situazione, per avviare un'analisi di quanto fossimo anche noi donne responsabili, perché adattate nelle nicchie di contropotere, sicurezze, tutele, costruite nel corso del tempo, e che non volevamo perdere.
Un conto era trovarsi insieme a tante donne, e anche agli uomini sensibili ai temi, a lottare contro le discriminazioni salariali, l'isolamento nelle case a esercitare il lavoro domestico o la costrizione a sobbarcarsi il doppio lavoro, contro la mancanza di asili nido e servizi sociali, contro la medicalizzazione di ogni fase fisiologica, la mancanza di contraccezione sicura e di libertà di scegliere se essere o no madri. Tutte battaglie portate avanti in alleanza con le commissioni femminili dei partiti, con i sindacati e le Associazioni storiche dell' emancipazionismo, un altro conto era affrontare, necessariamente in piccoli gruppi e tra sole donne, l' analisi delle nostre relazioni con donne e uomini, delle complicità e dei compromessi messi in gioco per sopravvivere allo sconforto e ai sentimenti di fallimento individuale.
Fu per molte di noi il passaggio dalla presa di coscienza di una sorellanza nella comune oppressione di genere, quella che veniva chiamata istituzionalmennte la "questione femminile", all'autocoscienza.
Il periodo della sorellanza mi aveva aperto inedite prospettive di rapporti con le donne (più anziane di me o coetanee, della mia stessa condizione sociale e culturale o di condizione totalmente diversa), rapporti improntati alla fiducia, alla comprensione, alla possibilità di divertirsi, conoscere, sperimentare insieme, tra sole donne.
Erano sensazioni nuove e esaltanti per me, stretta com'ero tra l'ingiunzione materna di non fidarmi mai delle eventuali amiche, che prima o poi avrebbero cercato di tradirmi in qualche modo, e la curiosità che invece provavo nei confronti delle altre donne, mista a una forte dose di competitività.
Il rapporto con mia madre aveva rasentato pericolosamente la simbiosi, non ho mai cercato amiche del cuore, con le quali confidarmi, perché mi bastava lei, con la sua oblatività, potevo parlare di tutto, certa della sua comprensione e del suo incoraggiamento.
Giungevo a leggerle e commentare le lettere che qualche amica occasionale o compagna di classe mi scrivevano, durante i mesi estivi, lettere alle quali poi finivo per non rispondere, appagata dal confronto con lei.
Oltre al desiderio di controllo che mia madre ha esercitato fortemente su me, preoccupata della mia integrità psico-fisica, dato che sono stata una ragazzina molto precoce, c'era in lei il desiderio, questa volta dichiarato e programmato, di vivere attraverso di me un'adolescenza serena e "normale", che le sue vicende familiari le avevano impedito (triste vita in uno dei collegi delle sue zie suore dalla separazione dei genitori fino a 14 anni, rifiuto di continuare gli studi, suo grande desiderio, oppostole dal padre socialista con la scusa che non voleva mandarla in una scuola "insieme con i maschi").
Non credo che la mia esperienza sia diversa da quella vissuta da altre adolescenti dei miei tempi, il guaio èche mi è mancato il confronto allora con altre donne e/o ragazze, che mi avrebbero un po' aperto gli occhi, e che la morte di mia madre ha congelato la situazione dentro di me, non ho avuto sufficiente accortezza e intelligenza per analizzarla, anche se proprio il femminismo a un certo punto mi ha messo a disposizione gli strumenti di di analisi per farlo.
L'esperienza della nuova socialità tra donne si confuse ben presto nella mia storia personale con la mia ricerca di madre accogliente e consolatoria, quale era l'immagine che mi portavo dentro della mia madre reale.
Non mi è stato facile abbandonare la dimensione di condanna della posizione di subalternità culturale e sociale delle donne rispetto agli uomini, a suo modo consolatoria perché legittimava ogni comportamento individuale e collettivo come reazione alla situazione, per avviare un'analisi di quanto fossimo anche noi donne responsabili, perché adattate nelle nicchie di contropotere, sicurezze, tutele, costruite nel corso del tempo, e che non volevamo perdere.
Un conto era trovarsi insieme a tante donne, e anche agli uomini sensibili ai temi, a lottare contro le discriminazioni salariali, l'isolamento nelle case a esercitare il lavoro domestico o la costrizione a sobbarcarsi il doppio lavoro, contro la mancanza di asili nido e servizi sociali, contro la medicalizzazione di ogni fase fisiologica, la mancanza di contraccezione sicura e di libertà di scegliere se essere o no madri. Tutte battaglie portate avanti in alleanza con le commissioni femminili dei partiti, con i sindacati e le Associazioni storiche dell' emancipazionismo, un altro conto era affrontare, necessariamente in piccoli gruppi e tra sole donne, l' analisi delle nostre relazioni con donne e uomini, delle complicità e dei compromessi messi in gioco per sopravvivere allo sconforto e ai sentimenti di fallimento individuale.
Fu per molte di noi il passaggio dalla presa di coscienza di una sorellanza nella comune oppressione di genere, quella che veniva chiamata istituzionalmennte la "questione femminile", all'autocoscienza.
Il periodo della sorellanza mi aveva aperto inedite prospettive di rapporti con le donne (più anziane di me o coetanee, della mia stessa condizione sociale e culturale o di condizione totalmente diversa), rapporti improntati alla fiducia, alla comprensione, alla possibilità di divertirsi, conoscere, sperimentare insieme, tra sole donne.
Erano sensazioni nuove e esaltanti per me, stretta com'ero tra l'ingiunzione materna di non fidarmi mai delle eventuali amiche, che prima o poi avrebbero cercato di tradirmi in qualche modo, e la curiosità che invece provavo nei confronti delle altre donne, mista a una forte dose di competitività.
Il rapporto con mia madre aveva rasentato pericolosamente la simbiosi, non ho mai cercato amiche del cuore, con le quali confidarmi, perché mi bastava lei, con la sua oblatività, potevo parlare di tutto, certa della sua comprensione e del suo incoraggiamento.
Giungevo a leggerle e commentare le lettere che qualche amica occasionale o compagna di classe mi scrivevano, durante i mesi estivi, lettere alle quali poi finivo per non rispondere, appagata dal confronto con lei.
Oltre al desiderio di controllo che mia madre ha esercitato fortemente su me, preoccupata della mia integrità psico-fisica, dato che sono stata una ragazzina molto precoce, c'era in lei il desiderio, questa volta dichiarato e programmato, di vivere attraverso di me un'adolescenza serena e "normale", che le sue vicende familiari le avevano impedito (triste vita in uno dei collegi delle sue zie suore dalla separazione dei genitori fino a 14 anni, rifiuto di continuare gli studi, suo grande desiderio, oppostole dal padre socialista con la scusa che non voleva mandarla in una scuola "insieme con i maschi").
Non credo che la mia esperienza sia diversa da quella vissuta da altre adolescenti dei miei tempi, il guaio èche mi è mancato il confronto allora con altre donne e/o ragazze, che mi avrebbero un po' aperto gli occhi, e che la morte di mia madre ha congelato la situazione dentro di me, non ho avuto sufficiente accortezza e intelligenza per analizzarla, anche se proprio il femminismo a un certo punto mi ha messo a disposizione gli strumenti di di analisi per farlo.
L'esperienza della nuova socialità tra donne si confuse ben presto nella mia storia personale con la mia ricerca di madre accogliente e consolatoria, quale era l'immagine che mi portavo dentro della mia madre reale.
giovedì 26 giugno 2014
Memorie di una femminista non pentita (IV puntata)
Non so se mi fa bene andare a risvegliare certi ricordi, da un lato è la prima volta che li analizzo senza l'incalzare di una emozione contingente, in una dimensione più conoscitiva che compensatoria, come è la scrittura per me. Dall'altro però mi accorgo di procurarmi un'agitazione imprevista e un sotterraneo disorientamento, pericoloso per la mia fragilità emotiva di donna "anziana".
Non è neppure del tutto vero che abbia cominciato questa riflessione in una dimensione di atarassia -stato al quale aspiro da una vita, che non raggiungo mai, e nemmeno mi ci avvicino- in realtà sono spinta dal desiderio di capire una buona volta, arrivata a questo punto della mia vita, qualcosa del mio rapporto con le donne, passato, presente e futuro.
Non posso che partire da due eventi: il rapporto interrotto bruscamente con mia madre, l'esperienza di vita e di pensiero del femminismo.
Il nodo è apparso da subito stretto quando, dopo qualche tempo di pratica di autocoscienza condotta con il mio collettivo ininterrottamente per cinque anni (1973-1978), ho fatto un sogno ancora vivido nella mia memoria e alquanto terrorizzante, ho sognato mia madre, in figura di morta, che mi inseguiva in un corridoio con un pugnale in mano per colpirmi alle spalle.
Non ho mai fatto analisi o colloqui psicologici, non ho mai molto indagato la mia interiorità, neanche nell'età canonica dell'adolescenza, nella quale peraltro ho sofferto di un eccesso di fantasia compensativa, pari all'impotenza della quale mi sentivo preda. Un'attività fantastico-ossessiva che mi faceva preferire l'isolamento alla dimensione collettiva amicale, eccesso che mi si è puntualmente ripresentato altre volte nel corso della vita in situazioni di forte frustrazione emotiva.
Gli unici momenti di riflessione sul mio mondo interiore sono stati quelli dell'autocoscienza, in quegli incontri confrontavamo il nostro vissuto nelle relazioni, nella sessualità, nel lavoro, nella rappresentazione del mondo e nella autorappresentazione, mai però, nel mio gruppo, scendevamo a considerare qualcosa di più profondo, sia perché, consapevoli della nostra inesperienza nel campo psicologico, temevamo i possibili disastri derivanti da arbitrarie interpretazioni, sia perché volevamo evitare momenti di "sfogo emotivo", pratica largamente agita nelle tradizionali situazioni amicali tra donne, consuetudine che serviva senz'altro a a sollevare il morale al momento, ma non incrementava per niente la conoscenza delle responsabilità personali, individuali e collettive nel mantenere l'ordine simbolico vigente e rischiava di incrementare il vittimismo comune, accettato come dato ineluttabile, smorzando ogni volontà di modificazione all'interno di sé e all'esterno.
La pratica dell'autocoscienza ha significato molto per me in termini di comprensione del mondo e di me, mi ha aiutato a uscire dalla dimensione claustrofobica nella quale ero stata -e mi ero- rinchiusa, ma la mancanza di abitudine ad una pacata autoriflessione (sostituita da fantasie compensative esasperate che hanno agito da barriera difensiva) ha inciso in qualche modo sulla deriva ideologica che a un certo punto del percorso ha preso il mio femminismo.
Non è neppure del tutto vero che abbia cominciato questa riflessione in una dimensione di atarassia -stato al quale aspiro da una vita, che non raggiungo mai, e nemmeno mi ci avvicino- in realtà sono spinta dal desiderio di capire una buona volta, arrivata a questo punto della mia vita, qualcosa del mio rapporto con le donne, passato, presente e futuro.
Non posso che partire da due eventi: il rapporto interrotto bruscamente con mia madre, l'esperienza di vita e di pensiero del femminismo.
Il nodo è apparso da subito stretto quando, dopo qualche tempo di pratica di autocoscienza condotta con il mio collettivo ininterrottamente per cinque anni (1973-1978), ho fatto un sogno ancora vivido nella mia memoria e alquanto terrorizzante, ho sognato mia madre, in figura di morta, che mi inseguiva in un corridoio con un pugnale in mano per colpirmi alle spalle.
Non ho mai fatto analisi o colloqui psicologici, non ho mai molto indagato la mia interiorità, neanche nell'età canonica dell'adolescenza, nella quale peraltro ho sofferto di un eccesso di fantasia compensativa, pari all'impotenza della quale mi sentivo preda. Un'attività fantastico-ossessiva che mi faceva preferire l'isolamento alla dimensione collettiva amicale, eccesso che mi si è puntualmente ripresentato altre volte nel corso della vita in situazioni di forte frustrazione emotiva.
Gli unici momenti di riflessione sul mio mondo interiore sono stati quelli dell'autocoscienza, in quegli incontri confrontavamo il nostro vissuto nelle relazioni, nella sessualità, nel lavoro, nella rappresentazione del mondo e nella autorappresentazione, mai però, nel mio gruppo, scendevamo a considerare qualcosa di più profondo, sia perché, consapevoli della nostra inesperienza nel campo psicologico, temevamo i possibili disastri derivanti da arbitrarie interpretazioni, sia perché volevamo evitare momenti di "sfogo emotivo", pratica largamente agita nelle tradizionali situazioni amicali tra donne, consuetudine che serviva senz'altro a a sollevare il morale al momento, ma non incrementava per niente la conoscenza delle responsabilità personali, individuali e collettive nel mantenere l'ordine simbolico vigente e rischiava di incrementare il vittimismo comune, accettato come dato ineluttabile, smorzando ogni volontà di modificazione all'interno di sé e all'esterno.
La pratica dell'autocoscienza ha significato molto per me in termini di comprensione del mondo e di me, mi ha aiutato a uscire dalla dimensione claustrofobica nella quale ero stata -e mi ero- rinchiusa, ma la mancanza di abitudine ad una pacata autoriflessione (sostituita da fantasie compensative esasperate che hanno agito da barriera difensiva) ha inciso in qualche modo sulla deriva ideologica che a un certo punto del percorso ha preso il mio femminismo.
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mercoledì 25 giugno 2014
Memorie di una femminista non pentita (III puntata)
Forse ci fu un affollarsi troppo repentino di eventi personali, idee, scoperte di dimensioni diverse da quelle un po' claustrofobiche nelle quali ero vissuta fino ad allora, ne avrei scontato anni dopo la precipitosità e la mancanza di assimilazione emotiva e intellettiva, però furono tempi caotici anche per molti e molte della mia generazione.
La mia adolescenza era trascorsa nel chiuso di un piccolo nucleo familiare, i miei genitori erano entrambi emigrati a Milano, rompendo in modo più o meno definitivo con la propria famiglia d'origine, non ho frequentato né zie/i, né cugine/i, se non per brevi incontri occasionali, tranne che la mia nonna materna, "fuggita" a Milano con la figlia poco più che ventenne e per questo messa al bando dalla propria famiglia d'origine.
Ricordo vagamente che mia madre mi parlò di un discorso tra uomini, tra mio padre e mio nonno materno, che non ho mai conosciuto e che non era neanche intervenuto al matrimonio dei miei, discorso nel quale sembra che mio padre si sia fatto un dovere di avvertire il suocero che aveva trovato mia madre "a posto".
Questo ricordo mi affiora per la prima volta alla memoria, non so più neppure se l'ho costruito io o se è reale, fatto sta che mia madre e mia nonna, scappate a Milano da Genova, da sole, furono considerate dai e dalle loro parenti (famiglia patriarcale, infarcita di suore e preti) alla stregua di puttane.
D'altronde mio nonno era socialista e antifascista -il più giovane di di undici tra fratelli e sorelle, a sua volta pecora nera della famiglia benestante, ultracattolica e clericale- mio padre era un proletario, poliziotto e fascista, non si potevano vedere. Pur essendo socialista poi, mio nonno era anche razzista dato che sembra su sia scandalizzato all'idea che sua figlia sposasse un poliziotto per di più meridionale! (dai pochi accenni che mia madre ha fatto alla mia storia familiare quando avevo quindici o sedici anni).
Gli eventi fondamentali per me nel giro di un paio d'anni, dai venti ai ventuno, furono la morte di mia madre, l'innamoramento e l'impegno politico-sociale.
Tre episodi che fecero cambiare completamente la direzione del mio futuro, provocando rotture drastiche con il percorso personale e professionale che mi ero prefigurata fino a quel momento.
Matrimonio a ventitré anni, addirittura prima di discutere la tesi di laurea; l'ultima concessione al mio cattolicesimo, velato da una sfumatura di misticismo, fu proprio il matrimonio, che volli celebrare in chiesa (fedeltà al messaggio materno, dato che mia madre era morta?) di lì a poco avrei perso la fede, in maniera molto tranquilla, da un giorno all'altro mi parve tutto una bella favola (la struttura della chiesa l'avevo già messa in discussione da anni), non ho più creduto nella divinità di Gesù, mio eroe, fratello maggiore fin da quando ero bambina; mi è crollato tutto, anche se ho continuato per decenni a sognarmi il giudizio universale.
Abbandono dell'Istituto di Storia dell'Università, frequentato fin dal secondo anno con la prospettiva di intraprendere la carriera universitaria, situazione che mi aveva anche dato un piccolo stipendio mensile per un lavoro nell'ambito del CNR; erano sorte in me divergenze politiche con il mio professore di riferimento, avevo cambiato opinione io, non lui, alla sua richiesta di continuare opposi un gentile e netto rifiuto.
Di lì a poco scoppiò dentro e fuori di me il femminismo a sovvertire gli ultimi residui delle mie convinzioni e credenze e a rimescolare le mie carte..
La mia adolescenza era trascorsa nel chiuso di un piccolo nucleo familiare, i miei genitori erano entrambi emigrati a Milano, rompendo in modo più o meno definitivo con la propria famiglia d'origine, non ho frequentato né zie/i, né cugine/i, se non per brevi incontri occasionali, tranne che la mia nonna materna, "fuggita" a Milano con la figlia poco più che ventenne e per questo messa al bando dalla propria famiglia d'origine.
Ricordo vagamente che mia madre mi parlò di un discorso tra uomini, tra mio padre e mio nonno materno, che non ho mai conosciuto e che non era neanche intervenuto al matrimonio dei miei, discorso nel quale sembra che mio padre si sia fatto un dovere di avvertire il suocero che aveva trovato mia madre "a posto".
Questo ricordo mi affiora per la prima volta alla memoria, non so più neppure se l'ho costruito io o se è reale, fatto sta che mia madre e mia nonna, scappate a Milano da Genova, da sole, furono considerate dai e dalle loro parenti (famiglia patriarcale, infarcita di suore e preti) alla stregua di puttane.
D'altronde mio nonno era socialista e antifascista -il più giovane di di undici tra fratelli e sorelle, a sua volta pecora nera della famiglia benestante, ultracattolica e clericale- mio padre era un proletario, poliziotto e fascista, non si potevano vedere. Pur essendo socialista poi, mio nonno era anche razzista dato che sembra su sia scandalizzato all'idea che sua figlia sposasse un poliziotto per di più meridionale! (dai pochi accenni che mia madre ha fatto alla mia storia familiare quando avevo quindici o sedici anni).
Gli eventi fondamentali per me nel giro di un paio d'anni, dai venti ai ventuno, furono la morte di mia madre, l'innamoramento e l'impegno politico-sociale.
Tre episodi che fecero cambiare completamente la direzione del mio futuro, provocando rotture drastiche con il percorso personale e professionale che mi ero prefigurata fino a quel momento.
Matrimonio a ventitré anni, addirittura prima di discutere la tesi di laurea; l'ultima concessione al mio cattolicesimo, velato da una sfumatura di misticismo, fu proprio il matrimonio, che volli celebrare in chiesa (fedeltà al messaggio materno, dato che mia madre era morta?) di lì a poco avrei perso la fede, in maniera molto tranquilla, da un giorno all'altro mi parve tutto una bella favola (la struttura della chiesa l'avevo già messa in discussione da anni), non ho più creduto nella divinità di Gesù, mio eroe, fratello maggiore fin da quando ero bambina; mi è crollato tutto, anche se ho continuato per decenni a sognarmi il giudizio universale.
Abbandono dell'Istituto di Storia dell'Università, frequentato fin dal secondo anno con la prospettiva di intraprendere la carriera universitaria, situazione che mi aveva anche dato un piccolo stipendio mensile per un lavoro nell'ambito del CNR; erano sorte in me divergenze politiche con il mio professore di riferimento, avevo cambiato opinione io, non lui, alla sua richiesta di continuare opposi un gentile e netto rifiuto.
Di lì a poco scoppiò dentro e fuori di me il femminismo a sovvertire gli ultimi residui delle mie convinzioni e credenze e a rimescolare le mie carte..
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martedì 24 giugno 2014
Memorie di una femminista non pentita (II puntata)
Sono stata cattolica convinta, a quindici anni insegnavo catechismo alle bambine del mio oratorio, sono cresciuta in una famiglia nostalgica del fascismo e tradizionalista nei costumi e nelle relazioni, ma con una madre che cercava di motivare fortemente le sue figlie all'emancipazione economica, anche e soprattutto da un eventuale marito, un' emancipazione che a lei era mancata.
In questo senso si è battuta perché continuassimo gli studi, evitandoci il corso per "segretaria d'azienda" che, sosteneva mio padre, era il più adatto alla nostra situazione economico-familiare.
La storia imparata al liceo, la filosofia, i classici greci e latini mi aprirono orizzonti sconosciuti nel mio ambiente familiare, nel quale mio padre si vantava di non aver mai letto un libro in vita sua (ma leggeva regolarmente tutti giorni il Corriere dalla prima all'ultima pagina) e gli unici libri in casa erano la collezione di mia madre dei libri di Delly, che comunque ho letto anch' io, insieme a quelli che prendevo numerosi, divorandoli, nelle biblioteche scolastiche.
Le spese per i libri non erano contemplate nel ménage familiare; a nove anni, al tempo della cresima, chiesi come regalo alla mia madrina I promessi sposi. Mi regalò il romanzo in edizione Salani, con la copertina di cartone rosso, lo lessi tutto d'un fiato e lo rilessi più volte, era l'unico "classico" che allora possedevo.
Quando andai in IV ginnasio la professoressa di Italiano, Latino, Greco, Storia e Geografia (allora l'ordinamento scolastico prevedeva questo) chiese se avessimo in casa un'edizione dei Promessi sposi, io orgogliosamente mostrai la mia e fui irrisa e presa in giro perché era un'edizione di romanzetti rosa, imparai da allora a riconoscere il sadismo di certi insegnanti e la loro impreparazione pedagogica.
Gli studi universitari, mi occupai da subito di Storia, continuarono ad alimentare la mia cultura iniziale così modesta, e mi portarono a posizioni e a sensibilità politiche e sociali ben lontane dai valori coltivati in famiglia, ma fu il femminismo che diede una svolta radicale, perché la sua critica rovesciava il presupposto su cui si fondava l'ordine simbolico dominante, la "naturalità" dei ruoli sociali basati sull'appartenenza di sesso.
Questo presupposto, dal quale conseguono la divisione del lavoro, l'organizzazione delle famiglie, del mondo produttivo, della società e degli Stati, non era mai stato messo in dubbio, né dalla sinistra, né dall'emancipazionismo, tanto meno dalla religione, che poneva l'accento sulla complementarità dei due ruoli.
Io personalmente provavo una allora inspiegabile insofferenza nei confronti del mio destino biologico-sociale tradizionale. Anche se avevo davanti agli occhi esempi di matrimoni riusciti e famigliole felici, a cominciare dalla mia, mi sembrava che con il matrimonio sarebbe finita "la mia vita" libera e avventurosa, allora ricorsi a uno stratagemma fin dalla prima adolescenza: fantasticavo sul fatto che non mi sarei mai sposata perché il mio grande amore moriva in un incidente, in seguito all'evento drammatico avrei maturato la decisione di restare fedele alla sua memoria, date le mie convinzioni religiose non si poneva neppure il discorso di relazioni extraconiugali!
In un solo colpo mi liberavo di una "gabbia" verso la quale mi sentivo destinata dalla mia formazione familiar-religiosa, ma mi mettevo a posto la coscienza con la mia dimensione di "vera donna" che metteva l'amore davanti a tutto, anche alla realizzazione personale.
Così potevo contemporaneamente continuare a coltivare il mio romanticismo, un po' esagerato, leggendo e commovendomi davanti a storie d'amore -era il tempo di Guerra e pace e Anna Karenina-, senza rischiare di caderci di persona.
Allo scadere del ventesimo anno di età mi sono innamorata -colpo di fulmine- di un mio compagno di Università, e mi si è rivoluzionata la vita.
In questo senso si è battuta perché continuassimo gli studi, evitandoci il corso per "segretaria d'azienda" che, sosteneva mio padre, era il più adatto alla nostra situazione economico-familiare.
La storia imparata al liceo, la filosofia, i classici greci e latini mi aprirono orizzonti sconosciuti nel mio ambiente familiare, nel quale mio padre si vantava di non aver mai letto un libro in vita sua (ma leggeva regolarmente tutti giorni il Corriere dalla prima all'ultima pagina) e gli unici libri in casa erano la collezione di mia madre dei libri di Delly, che comunque ho letto anch' io, insieme a quelli che prendevo numerosi, divorandoli, nelle biblioteche scolastiche.
Le spese per i libri non erano contemplate nel ménage familiare; a nove anni, al tempo della cresima, chiesi come regalo alla mia madrina I promessi sposi. Mi regalò il romanzo in edizione Salani, con la copertina di cartone rosso, lo lessi tutto d'un fiato e lo rilessi più volte, era l'unico "classico" che allora possedevo.
Quando andai in IV ginnasio la professoressa di Italiano, Latino, Greco, Storia e Geografia (allora l'ordinamento scolastico prevedeva questo) chiese se avessimo in casa un'edizione dei Promessi sposi, io orgogliosamente mostrai la mia e fui irrisa e presa in giro perché era un'edizione di romanzetti rosa, imparai da allora a riconoscere il sadismo di certi insegnanti e la loro impreparazione pedagogica.
Gli studi universitari, mi occupai da subito di Storia, continuarono ad alimentare la mia cultura iniziale così modesta, e mi portarono a posizioni e a sensibilità politiche e sociali ben lontane dai valori coltivati in famiglia, ma fu il femminismo che diede una svolta radicale, perché la sua critica rovesciava il presupposto su cui si fondava l'ordine simbolico dominante, la "naturalità" dei ruoli sociali basati sull'appartenenza di sesso.
Questo presupposto, dal quale conseguono la divisione del lavoro, l'organizzazione delle famiglie, del mondo produttivo, della società e degli Stati, non era mai stato messo in dubbio, né dalla sinistra, né dall'emancipazionismo, tanto meno dalla religione, che poneva l'accento sulla complementarità dei due ruoli.
Io personalmente provavo una allora inspiegabile insofferenza nei confronti del mio destino biologico-sociale tradizionale. Anche se avevo davanti agli occhi esempi di matrimoni riusciti e famigliole felici, a cominciare dalla mia, mi sembrava che con il matrimonio sarebbe finita "la mia vita" libera e avventurosa, allora ricorsi a uno stratagemma fin dalla prima adolescenza: fantasticavo sul fatto che non mi sarei mai sposata perché il mio grande amore moriva in un incidente, in seguito all'evento drammatico avrei maturato la decisione di restare fedele alla sua memoria, date le mie convinzioni religiose non si poneva neppure il discorso di relazioni extraconiugali!
In un solo colpo mi liberavo di una "gabbia" verso la quale mi sentivo destinata dalla mia formazione familiar-religiosa, ma mi mettevo a posto la coscienza con la mia dimensione di "vera donna" che metteva l'amore davanti a tutto, anche alla realizzazione personale.
Così potevo contemporaneamente continuare a coltivare il mio romanticismo, un po' esagerato, leggendo e commovendomi davanti a storie d'amore -era il tempo di Guerra e pace e Anna Karenina-, senza rischiare di caderci di persona.
Allo scadere del ventesimo anno di età mi sono innamorata -colpo di fulmine- di un mio compagno di Università, e mi si è rivoluzionata la vita.
lunedì 23 giugno 2014
Memorie di una femminista non pentita (I puntata)
Negli anni Sessanta del '900 il benessere che cominciava a interessare anche l'Italia ha permesso a generazioni di ragazzi e soprattutto ragazze di origini modeste di studiare e progettare un futuro lavorativo migliore rispetto a quello dei propri genitori, bastavano l'ambizione e molto impegno nello studio.
Certo non era ancora diffusa come oggi la mentalità di fare sacrifici per investire sugli studi dei figli, specie delle figlie -ancora si sosteneva che il destino delle ragazze fosse di trovare un buon partito e sistemarsi, io stessa ho incontrato compagne all'Università di Milano che confessavano candidamente di non sapere se avrebbero concluso gli studi nel caso si fossero sposate- comunque anche se le condizioni economiche non permettevano di essere mantenute agli studi, si poteva contare su strumenti che aiutavano, borse di studio, presalario, e lavoretti saltuari assegnati dai professori agli/alle studenti volonterosi/e e con ottimi voti agli esami.
Iniziava il processo che avrebbe condotto alla scuola di massa di lì a un decennio, con i suoi lati positivi (accesso all'istruzione e quindi possibilità di promozione sociale di fasce della popolazione fino ad allora escluse) negativi (dequalificazione politicamente perseguita della scuola pubblica in Italia).
Alla fine del decennio gli avvenimenti politici che hanno scosso l'Occidente e non solo hanno mutato il quadro di riferimento e impresso un'accelerazione a trasformazioni culturali che forse avrebbero richiesto un tempo maggiore per essere metabolizzate.
Per quanto riguarda il femminismo il primo esito del conflitto con l'identità femminile tradizionale fu la rottura dell'universo simbolico di riferimento, in altre parole con quello che era stato inteso fino ad allora come destino biologico-sociale inevitabile per una donna: realizzarsi prioritariamente nell'ambito familiare e semmai in quello lavorativo, a patto di assolvere la sua funzione "naturale" e quindi primaria, secondo quanto anche recita la nostra Costituzione all'articolo 37, comma I :
"La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione" .
Il neo-femminismo, come si chiamò per distinguerlo da movimenti storici precedenti, si caratterizzò per la messa in discussione dell'emancipazionismo, inteso come processo di promozione delle donne al mondo maschile del lavoro, delle professioni, della cultura e della politica, fatte salve le prerogative della "femminilità", necessarie al mantenimento dell'ordine sociale.
Non che non ci siano stati casi di donne che si sono ribellate a questo destino, nel passato recente e remoto, ma si è sempre trattato appunto di casi individuali, spesso pagati con sofferenze e patimenti di varia natura, frutto di soggettività eccezionali per coraggio e determinazione.
In fondo la scelta di Franca Viola, che nel 1965 a soli diciassette anni, d'accordo con i familiari, rifiutò il matrimonio riparatore propostole dal fidanzato dopo il rapimento e lo stupro, scelta fatta individualmente, senza il conforto di reti sociali di consenso, prefigurava in qualche modo quello che di lì a pochi anni sarebbe stato teorizzato dai movimenti delle donne.
Ricordo ancora l'ammirazione che provai a quel tempo per il suo coraggio.
Sembrano cose lontanissime, e infatti appartengono al secolo scorso.
Rompere con l'identità femminile tradizionale significava mettere in crisi la codificazione vigente dei ruoli sociali, assegnati in base al sesso, quindi la divisione del lavoro considerata naturale -quello di produzione agli uomini e quello di riproduzione alle donne- con lei tutta una serie di vantaggi che le donne si erano ritagliate nella situazione, così come di contropoteri reali e/o immaginari nell'ambito degli affetti familiari.
Mi riferisco a un senso di onnipotenza affettiva, esercitata prevalentemente su figli e figlie, che pareva compensare per molte donne l'insignificanza reale, sentimento quello dell'onnipotenza derivante dall'esaltazione della figura materna, condotta in accoppiata da religione e senso comune.
Esaltazione accentuata fino alla santificazione dal cattolicesimo, con la proposta della madonna come modello (giustamente inarrivabile come tutti i modelli) e dalla cultura popolare della madre, centro degli affetti e unica detentrice dell'unità familiare, come documentato -e opportunamente criticato- in Rocco e i suoi fratelli (1960).
Mettere in discussione tutto questo però per alcune giovani donne non ha significato solo affacciarsi sulla scena pubblica senza più certezze e consolidate nicchie protettive, ma anche sovente mettere in crisi le scelte delle proprie madri, amate, odiate, ma comunque interiorizzate come modello, da imitare, da combattere, da modificare, ma pur sempre modello.
Quelle più fortunate poterono aprire direttamente conflitti e discussioni, a volte con esiti positivi, pur dopo contrasti e lacerazioni.
Chi non aveva più la madre reale dovette accontentarsi di confliggere con la figura interiorizzata, rischiando anche cantonate, senza possibilità di smentita.
Credo che questa sia stata una delle battaglie più dure per molte donne di vent'anni che parteciparono ai momenti di presa di coscienza, e in seguito di autocoscienza, agli inizi degli anni Settanta.
Certo non era ancora diffusa come oggi la mentalità di fare sacrifici per investire sugli studi dei figli, specie delle figlie -ancora si sosteneva che il destino delle ragazze fosse di trovare un buon partito e sistemarsi, io stessa ho incontrato compagne all'Università di Milano che confessavano candidamente di non sapere se avrebbero concluso gli studi nel caso si fossero sposate- comunque anche se le condizioni economiche non permettevano di essere mantenute agli studi, si poteva contare su strumenti che aiutavano, borse di studio, presalario, e lavoretti saltuari assegnati dai professori agli/alle studenti volonterosi/e e con ottimi voti agli esami.
Iniziava il processo che avrebbe condotto alla scuola di massa di lì a un decennio, con i suoi lati positivi (accesso all'istruzione e quindi possibilità di promozione sociale di fasce della popolazione fino ad allora escluse) negativi (dequalificazione politicamente perseguita della scuola pubblica in Italia).
Alla fine del decennio gli avvenimenti politici che hanno scosso l'Occidente e non solo hanno mutato il quadro di riferimento e impresso un'accelerazione a trasformazioni culturali che forse avrebbero richiesto un tempo maggiore per essere metabolizzate.
Per quanto riguarda il femminismo il primo esito del conflitto con l'identità femminile tradizionale fu la rottura dell'universo simbolico di riferimento, in altre parole con quello che era stato inteso fino ad allora come destino biologico-sociale inevitabile per una donna: realizzarsi prioritariamente nell'ambito familiare e semmai in quello lavorativo, a patto di assolvere la sua funzione "naturale" e quindi primaria, secondo quanto anche recita la nostra Costituzione all'articolo 37, comma I :
"La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione" .
Il neo-femminismo, come si chiamò per distinguerlo da movimenti storici precedenti, si caratterizzò per la messa in discussione dell'emancipazionismo, inteso come processo di promozione delle donne al mondo maschile del lavoro, delle professioni, della cultura e della politica, fatte salve le prerogative della "femminilità", necessarie al mantenimento dell'ordine sociale.
Non che non ci siano stati casi di donne che si sono ribellate a questo destino, nel passato recente e remoto, ma si è sempre trattato appunto di casi individuali, spesso pagati con sofferenze e patimenti di varia natura, frutto di soggettività eccezionali per coraggio e determinazione.
In fondo la scelta di Franca Viola, che nel 1965 a soli diciassette anni, d'accordo con i familiari, rifiutò il matrimonio riparatore propostole dal fidanzato dopo il rapimento e lo stupro, scelta fatta individualmente, senza il conforto di reti sociali di consenso, prefigurava in qualche modo quello che di lì a pochi anni sarebbe stato teorizzato dai movimenti delle donne.
Ricordo ancora l'ammirazione che provai a quel tempo per il suo coraggio.
Sembrano cose lontanissime, e infatti appartengono al secolo scorso.
Rompere con l'identità femminile tradizionale significava mettere in crisi la codificazione vigente dei ruoli sociali, assegnati in base al sesso, quindi la divisione del lavoro considerata naturale -quello di produzione agli uomini e quello di riproduzione alle donne- con lei tutta una serie di vantaggi che le donne si erano ritagliate nella situazione, così come di contropoteri reali e/o immaginari nell'ambito degli affetti familiari.
Mi riferisco a un senso di onnipotenza affettiva, esercitata prevalentemente su figli e figlie, che pareva compensare per molte donne l'insignificanza reale, sentimento quello dell'onnipotenza derivante dall'esaltazione della figura materna, condotta in accoppiata da religione e senso comune.
Esaltazione accentuata fino alla santificazione dal cattolicesimo, con la proposta della madonna come modello (giustamente inarrivabile come tutti i modelli) e dalla cultura popolare della madre, centro degli affetti e unica detentrice dell'unità familiare, come documentato -e opportunamente criticato- in Rocco e i suoi fratelli (1960).
Mettere in discussione tutto questo però per alcune giovani donne non ha significato solo affacciarsi sulla scena pubblica senza più certezze e consolidate nicchie protettive, ma anche sovente mettere in crisi le scelte delle proprie madri, amate, odiate, ma comunque interiorizzate come modello, da imitare, da combattere, da modificare, ma pur sempre modello.
Quelle più fortunate poterono aprire direttamente conflitti e discussioni, a volte con esiti positivi, pur dopo contrasti e lacerazioni.
Chi non aveva più la madre reale dovette accontentarsi di confliggere con la figura interiorizzata, rischiando anche cantonate, senza possibilità di smentita.
Credo che questa sia stata una delle battaglie più dure per molte donne di vent'anni che parteciparono ai momenti di presa di coscienza, e in seguito di autocoscienza, agli inizi degli anni Settanta.
mercoledì 7 maggio 2014
Moralismi e autoritarismi di destra e di sinistra
Sessualità femminile, storia personale e collettiva Thesaurus
lunedì 5 maggio 2014
Riappropriazione del corpo
Eccoci qui a leggere alternativamente di moralismo femminista, suorismo, atteggiamenti censori, o di autodeterminazione delle donne, libertà di espressione, gestione libera del proprio corpo...
E' da un po', almeno da qualche anno, che si affrontano nel dibattito pubblico due schieramenti trasversali, costituiti sia da donne che da uomini, l'uno che stigmatizza l'esibizione del corpo delle donne per fini commerciali e pubblicitari, l'altro che rivendica la libertà di scelta di una donna, quando sia una scelta consapevole e compiuta in prima persona, all'insegna dell'espressione "il corpo è mio e lo gestisco io".
A corollario di queste due posizioni fioriscono analisi, giustificazioni, sdegni e condanne, e soprattutto contrapposizioni, anche tra uomini, ma prevalentemente tra donne.
Nel calderone mediatico entra di tutto: le trasmissioni cretine della televisione, le proteste delle femen, le pubblicità sessiste sulla carta stampata e sui cartelloni stradali, le interviste a chi ha affrontato il tema, il tutto condito con giudizi decisi e incontrovertibili.
Dopo un articolo, in parte condivisibile, di una brava giornalista che condanna quello che chiama un certo femminismo moralista e giustizialista, "sintomo di una cultura autoritaria che finge di battersi per la libertà delle donne" (Angela Azzaro, Belen e la caccia alle streghe, 3-5-2014), ecco la decisione di Paola Bacchiddu, capo della comunicazione nazionale della lista L'altra Europa con Tsipras, di ricorrere alla propria foto in costume per rompere la cortina di silenzio calata sulla lista ad opera dei mezzi di comunicazione di massa.
L'obiettivo è stato raggiunto, ne hanno scritto i giornali.
In questa situazione misuro tutta la mia distanza anagrafica e culturale da certi comportamenti, non mi convince in questo caso la giustificazione di ironia, per me c'è ironia quando si rovescia parodicamente una dimensione, non la colgo qui poiché si tratta di fare pubblicità a qualche cosa secondo gli standard pubblicitari premianti da noi, tette e culi.
Ma non mi piacciono neppure le accuse alla persona, i toni scandalizzati e i giudizi sommari.
Non approvo né chi presenta la cosa trionfalmente come prova dell'avvenuta riappropriazione del corpo da parte delle donne, né chi stigmatizza parlando di "mancanza di serietà", narcisismo, e similia.
Ho detto distanza anagrafica e culturale perché ripenso proprio all'espressione riappropriazione del corpo, che tanta importanza ha avuto nel femminismo degli anni Settanta, correlata ai concetti di autodeterminazione, maternità cosciente, consapevolezza del corpo, sessualità femminile.
Si trattava allora di combattere contro un sistema che impediva la pubblicità degli anticoncezionali, condannando le donne a rischiare la vita per interrompere una gravidanza non voluta; contro un'idea di sessualità femminile modellata sul piacere maschile; contro una pratica di medicalizzazione delle fasi e dei cicli naturali delle donne -menarca, gravidanza, menopausa- che affidava agli e alle esperte la conoscenza della fisiologia femminile; contro l'idea che essere donne volesse dire condividere l'immagine della femminilità elaborata dalla comunità degli uomini, e di conseguenza la gerarchia di valori connessa: priorità della sfera sessuo-affettiva -come madre e/o seduttrice e/o puttana e/o vergine- rispetto ad ogni altra dimensione.
Cose dell'altro mondo, cose del secolo scorso.
Per fortuna ora, almeno da noi, non è più così, anche grazie alle nostre lotte e battaglie.
Un dubbio però mi coglie sempre davanti a episodi del genere, che la raggiunta autonomia delle donne, conseguente alla riappropriazione del proprio corpo, non si discosti poi molto da un'immagine del femminile molto più aggiornata, moderna, finalmente libera dagli atteggiamenti pruriginosi e censori di moralisti e moraliste, che però non sovverte la codificazione patriarcale dei ruoli sessuali, ma vi si accomoda, secondo la felice espressione di "Un altro genere di comunicazione" : "si tratta di un classico esempio di "Patriarchal bargain", ovvero quel Contratto col patriarcato che punta a manipolare il sistema vigente (il patriarcato appunto), per trarne il massimo del vantaggio, ma senza sovvertirne le regole.
E' da un po', almeno da qualche anno, che si affrontano nel dibattito pubblico due schieramenti trasversali, costituiti sia da donne che da uomini, l'uno che stigmatizza l'esibizione del corpo delle donne per fini commerciali e pubblicitari, l'altro che rivendica la libertà di scelta di una donna, quando sia una scelta consapevole e compiuta in prima persona, all'insegna dell'espressione "il corpo è mio e lo gestisco io".
A corollario di queste due posizioni fioriscono analisi, giustificazioni, sdegni e condanne, e soprattutto contrapposizioni, anche tra uomini, ma prevalentemente tra donne.
Nel calderone mediatico entra di tutto: le trasmissioni cretine della televisione, le proteste delle femen, le pubblicità sessiste sulla carta stampata e sui cartelloni stradali, le interviste a chi ha affrontato il tema, il tutto condito con giudizi decisi e incontrovertibili.
Dopo un articolo, in parte condivisibile, di una brava giornalista che condanna quello che chiama un certo femminismo moralista e giustizialista, "sintomo di una cultura autoritaria che finge di battersi per la libertà delle donne" (Angela Azzaro, Belen e la caccia alle streghe, 3-5-2014), ecco la decisione di Paola Bacchiddu, capo della comunicazione nazionale della lista L'altra Europa con Tsipras, di ricorrere alla propria foto in costume per rompere la cortina di silenzio calata sulla lista ad opera dei mezzi di comunicazione di massa.
L'obiettivo è stato raggiunto, ne hanno scritto i giornali.
In questa situazione misuro tutta la mia distanza anagrafica e culturale da certi comportamenti, non mi convince in questo caso la giustificazione di ironia, per me c'è ironia quando si rovescia parodicamente una dimensione, non la colgo qui poiché si tratta di fare pubblicità a qualche cosa secondo gli standard pubblicitari premianti da noi, tette e culi.
Ma non mi piacciono neppure le accuse alla persona, i toni scandalizzati e i giudizi sommari.
Non approvo né chi presenta la cosa trionfalmente come prova dell'avvenuta riappropriazione del corpo da parte delle donne, né chi stigmatizza parlando di "mancanza di serietà", narcisismo, e similia.
Ho detto distanza anagrafica e culturale perché ripenso proprio all'espressione riappropriazione del corpo, che tanta importanza ha avuto nel femminismo degli anni Settanta, correlata ai concetti di autodeterminazione, maternità cosciente, consapevolezza del corpo, sessualità femminile.
Si trattava allora di combattere contro un sistema che impediva la pubblicità degli anticoncezionali, condannando le donne a rischiare la vita per interrompere una gravidanza non voluta; contro un'idea di sessualità femminile modellata sul piacere maschile; contro una pratica di medicalizzazione delle fasi e dei cicli naturali delle donne -menarca, gravidanza, menopausa- che affidava agli e alle esperte la conoscenza della fisiologia femminile; contro l'idea che essere donne volesse dire condividere l'immagine della femminilità elaborata dalla comunità degli uomini, e di conseguenza la gerarchia di valori connessa: priorità della sfera sessuo-affettiva -come madre e/o seduttrice e/o puttana e/o vergine- rispetto ad ogni altra dimensione.
Cose dell'altro mondo, cose del secolo scorso.
Per fortuna ora, almeno da noi, non è più così, anche grazie alle nostre lotte e battaglie.
Un dubbio però mi coglie sempre davanti a episodi del genere, che la raggiunta autonomia delle donne, conseguente alla riappropriazione del proprio corpo, non si discosti poi molto da un'immagine del femminile molto più aggiornata, moderna, finalmente libera dagli atteggiamenti pruriginosi e censori di moralisti e moraliste, che però non sovverte la codificazione patriarcale dei ruoli sessuali, ma vi si accomoda, secondo la felice espressione di "Un altro genere di comunicazione" : "si tratta di un classico esempio di "Patriarchal bargain", ovvero quel Contratto col patriarcato che punta a manipolare il sistema vigente (il patriarcato appunto), per trarne il massimo del vantaggio, ma senza sovvertirne le regole.
giovedì 6 marzo 2014
Tra delusione e speranza, appoggiando la lista Tsipras
Ora che si entra nel vivo della campagna elettorale per le elezioni europee di maggio, si è fatta concreta la possibilità che vi partecipi una lista che si chiama L'altra Europa con Tsipras.
Secondo me ci sono aspetti interessanti e altri più discutibili.
Comincio dagli elementi per me positivi, prima di tutto dalla dimensione realmente europea che connota questa lista, poiché in presenza di una crisi culturale-sociale-economica che coinvolge più o meno gravemente tutta l'Europa, ci si fa rappresentare da una figura greca, e la Grecia è la nazione che ha più risentito delle conseguenze disastrose determinate dalle politiche europee ed è, al contempo, la base storico-culturale dell'Europa.
Immagino già le voci di avversarie e avversari politici che ricorreranno all'identitarismo più rozzo, tanto in voga oggi, chiedendo quali interessi potrà nutrire un politico greco per noi italiani/e.
Sarà facile rispondere che la prospettiva di queste elezioni non è nazionale, si intende infatti dar vita a un parlamento europeo che si prenda cura dei cittadini e delle cittadine europee, e non delle banche, delle multinazionali e dei ceti politici nazionali.
Questo significa fondare un'altra Europa, perché questa non ci piace e distrugge persone, ambiente, risorse.
Le candidature espresse dalla lista sono secondo me apprezzabili, ci sono persone di diversa età, esperienza, cultura, che si sono impegnate nella lotta per l'acqua bene pubblico, per i beni comuni, per la riconversione ecologica del sistema di produzione e circolazione delle merci, contro ogni discriminazione e esclusione, contro l'impiego delle armi per risolvere i conflitti, contro le speculazioni finanziarie, edilizie, e delle grandi opere devastanti suolo e territorio, se non inutili.
I temi enunciati sono quindi quelli del lavoro, dei diritti sociali, della democrazia, della giustizia sociale, della lotta al neoliberalismo, all'austerity, ai populismi di ogni colore, alla mafia e a ogni forma di corruzione.
Forse questa è una delle ultime occasioni (qualcuno sostiene l'ultima) per contrastare il piano mondiale di comando sulle persone, sulle piante, sugli animali, sugli oggetti, portato avanti da decenni dai cosiddetti poteri forti nella guerra condotta dalle multinazionali, dalle banche, dai centri di potere economico-finanziario contro popolazioni di tutti i continenti.
Basti pensare agli accordi commerciali transatlantici che si stanno preparando tra USA e Europa, secondo i quali le corporations potranno intentare cause e chiedere indennizzi per azioni che intacchino i loro profitti, sia nei confronti di singoli Stati, che di gruppi, di singole persone (rifiutare gli OGM, scioperare, adottare leggi e provvedimenti che le ostacolino...).
Questi processi non si possono più combattere a livello nazionale, gli Stati sono e saranno sempre più fragili e soccombenti ai rapporti di forza in atto, solo a livello di Europa contrastare, e con grande fatica..
Detto questo, sono convinta che molto ci sia da fare per modificare l'ottica del programma esposto nel Manifesto in dieci punti.
Non si tratta di aggiungere temi, ma di riorientarne la prospettiva, alla luce della relazione donne uomini, in tutte le sue sfaccettature economiche, culturali, sociali, affettive.
Io so per certo che alcune/i dei/delle estensori del programma i hanno ben chiari i termini del problema, so anche che la mancanza di accenno ai temi in questione nel Manifesto-programma della lista Tsipras non è dovuta a trascuratezza, ma a una scelta precisa, perché non appena vi si accenna si nota un clima di insofferenza, sia tra gli uomini che tra le donne, si temono divisioni, d'altronde questi temi sono veramente troppo "sovversivi" dell'attuale ordine culturale, politico, sociale e questo spaventa molt*, ma non possono essere elusi e soprattutto non si risolvono con una semplice operazione di parità tra donne e uomini nella composizione dei vari organismi, oppure in un miglioramento delle politiche di welfare, abbiamo sperimentato nel corso del Novecento modelli di welfare e di diritti più o meno includenti che non hanno minimamente scalfito la tradizionale divisione del lavoro e codificazione dei ruoli imposta dal sistema capitalistico-patriarcale.
Una politica paritaria improntata al numero di donne promosse, accolte, cooptate in un universo simbolico e materiale ancora tutto declinato al maschile nei termini di valori, atteggiamenti e comportamenti non smuove di un millimetro la relazione tra donne e uomini in ordine alle attese, speranze, fantasie, immagini interiorizzate di maschile e femminile, compiti e funzioni regolate dalla codificazione dei ruoli sessuali. Semplicemente le aggiorna alle trasformazioni dei costumi in atto nella società.
Spero vivamente allora che si dia vita ai previsti "tavoli tematici" per affrontare le questioni più complesse rispetto ai dieci punti del Manifesto, che per ora sono di natura prevalentemente economica.
Penso infatti che non si possa parlare di economia, di riconversione della produzione, di ecologia, senza tirare in campo il sistema di riproduzione che sostiene tutta la produzione di merci e beni, senza prendere in considerazione la relazione tra donne e uomini in tutti gli aspetti della vita collettiva e individuale.
Anche questa mi pare una delle ultime occasioni per evitare la sottrazione sistematica di molte donne alle battaglie politico-sociali dei movimenti e delle realtà di sinistra.
lunedì 3 marzo 2014
emancipazione liberazione, l'eterno dualismo
Il governo Renzi ha iniziato una "modernizzazione" del costume politico italiano, presentando un numero di ministre pari a quello dei ministri, modernizzazione subito interrotta dalla nomina dei sottosegretari, per la quale hanno trionfato ragioni di convenienze politiche secondo le modalità consuete, in barba alle tanto sbandierate dichiarazioni di innovazione.
La parità di numero è stata da molt* salutata con entusiasmo, subito cancellato dal silenzio calato sulla lista dei sottosegretari, quasi tutti uomini. Dall'altro canto si sono levate molte voci che avvertivano di non considerare l'evento un successo, ma di vederlo nella sua ottica di fiore all'occhiello e al contempo espediente per eliminare la necessità di una rivisitazione radicale della relazione donne e uomini in epoca di patriarcato, ancora vivo e vegeto, anche se apparentemente mitigato da soluzioni numericamente paritarie.
Una politica paritaria, improntata al numero di donne promosse, accolte, cooptate in un universo simbolico e materiale ancora tutto declinato al maschile come valori, atteggiamenti, comportamenti non smuove di un millimetro la relazione tra donne e uomini in ordine alle attese, speranze, fantasie, immagini interiorizzate di maschile e femminile, compiti e funzioni regolate dalla codificazione dei ruoli sessuali. Semplicemente le aggiorna alle trasformazioni dei costumi in atto nella società. Infatti le donne giunte ai vertici di comando nel sociale e in politica sono costrette -in qualche caso, o convinte -nella maggioranza dei casi- a comportarsi secondo le regole stabilite dalla comunità degli uomini, sono tollerate trasgressioni, poche, che confermano la regola.
Detto questo mi sembra di scorgere spesso una profonda opposizione tra chi considera ogni fenomeno di emancipazionismo comunque una vittoria, foriera di trasformazioni radicali in futuro, e chi nega qualsiasi valore positivo, anzi lo considera nefasto e tale da bloccare processi di cambiamento radicali.
Già negli anni Settanta, al tempo dell'approvazione della 194 sull'interruzione di gravidanza, si stabilì una divisione all'interno dei movimenti femministi, tra chi sosteneva l'opportunità di una legge, anche se significava regolamentazione, e chi osservava che l'unica opzione non penalizzante per le donne era la depenalizzazione del reato di aborto.
Io penso che le due strade possano procedere parallele, nel senso che tutto quanto può significare un miglioramento, in concreto, anche piccolo, della situazione sociale, personale e politica delle donne è benvenuto, a patto che non offuschi il vero obiettivo, secondo me, che non consiste nel migliorare questo mondo e lo stato di cose presenti per rafforzarlo, ma nell'accumulare sempre maggiore energia e consapevolezze per ribaltarlo.
La parità di numero è stata da molt* salutata con entusiasmo, subito cancellato dal silenzio calato sulla lista dei sottosegretari, quasi tutti uomini. Dall'altro canto si sono levate molte voci che avvertivano di non considerare l'evento un successo, ma di vederlo nella sua ottica di fiore all'occhiello e al contempo espediente per eliminare la necessità di una rivisitazione radicale della relazione donne e uomini in epoca di patriarcato, ancora vivo e vegeto, anche se apparentemente mitigato da soluzioni numericamente paritarie.
Una politica paritaria, improntata al numero di donne promosse, accolte, cooptate in un universo simbolico e materiale ancora tutto declinato al maschile come valori, atteggiamenti, comportamenti non smuove di un millimetro la relazione tra donne e uomini in ordine alle attese, speranze, fantasie, immagini interiorizzate di maschile e femminile, compiti e funzioni regolate dalla codificazione dei ruoli sessuali. Semplicemente le aggiorna alle trasformazioni dei costumi in atto nella società. Infatti le donne giunte ai vertici di comando nel sociale e in politica sono costrette -in qualche caso, o convinte -nella maggioranza dei casi- a comportarsi secondo le regole stabilite dalla comunità degli uomini, sono tollerate trasgressioni, poche, che confermano la regola.
Detto questo mi sembra di scorgere spesso una profonda opposizione tra chi considera ogni fenomeno di emancipazionismo comunque una vittoria, foriera di trasformazioni radicali in futuro, e chi nega qualsiasi valore positivo, anzi lo considera nefasto e tale da bloccare processi di cambiamento radicali.
Già negli anni Settanta, al tempo dell'approvazione della 194 sull'interruzione di gravidanza, si stabilì una divisione all'interno dei movimenti femministi, tra chi sosteneva l'opportunità di una legge, anche se significava regolamentazione, e chi osservava che l'unica opzione non penalizzante per le donne era la depenalizzazione del reato di aborto.
Io penso che le due strade possano procedere parallele, nel senso che tutto quanto può significare un miglioramento, in concreto, anche piccolo, della situazione sociale, personale e politica delle donne è benvenuto, a patto che non offuschi il vero obiettivo, secondo me, che non consiste nel migliorare questo mondo e lo stato di cose presenti per rafforzarlo, ma nell'accumulare sempre maggiore energia e consapevolezze per ribaltarlo.
domenica 2 marzo 2014
Appelli al cambiamento e modificazioni reali
Date le condizioni in cui versa questo nostro pianeta, a causa dello spreco e del consumo sfrenato di risorse da una parte minoritaria della popolazione mondiale, che affama e impoverisce la maggioranza di donne, uomini e bambini/e, ben vengano gli appelli -sempre più numerosi-a mutare il nostro sistema di produzione e di consumo di cibi.
Gli inviti a consumare meno, o a eliminare del tutto carne, latticini, salumi rispondono a istanze di salute per noi, di etica nei confronti degli animali, rispondono alla necessità di un rovesciamento radicale di abitudini contratte nel corso di martellanti campagne pubblicitarie, tutto bene, ma
nella situazione attuale di produzione-consumo, in un sistema come il nostro, patriarcale capitalistico, rischia di tradursi in
un accumulo di lavoro per le donne, innanzitutto, e anche per uomini dediti a condividere la cura con le loro donne.
Mia nonna cucinava, quasi prevalentemente minestre,
minestroni, verdure ripiene, torte salate, polpettone di verdure, tutte cose
buonissime (data anche la verdura di allora, molto più saporita dell'attuale), ma dedicava alla spesa e alla cottura l'intera mattina, mentre il resto del lavoro domestico era svolto da mia mamma.
Non appena non fu più tra noi cambiò anche quel sistema di alimentazione in casa nostra, purtroppo, perché da allora su mia madre gravò tutto il lavoro, si ricorse di più a bistecca, formaggio, pasta al pomodoro, tranne le domenica, dedicata alla cucina.
Vivere di verdure, cereali, legumi è possibile e anche molto piacevole, ma richiede molto tempo per la preparazione e energie, se poi ci si orienta al biologico, i costi diventano insostenibili, e solo per persone benestanti..
Nella mia esperienza di adulta tra lavoro, allevamento figli, interessi politici, pur amando io molto cucinare, il tempo dedicato alla cucina fu molto ridotto, tranne che la domenica mattina e in occasione di inviti a cena di amic*.
Tutto questo malgrado la totale condivisione di compiti e mansioni relative al lavoro domestico e all'accudimento dei bambini con mio marito. Tra l'altro eravamo entrambi insegnanti.
So benissimo che cosa significa oggi, per le giovani donne e i giovani uomini, dover dedicare tempo alla preparazione di cibo, gravat* come sono anche dalla cura di noi vecchi, oltre che dei loro figli, quando ci sono, e dai ritmi di lavoro.
Il risultato di questi articoli un po' terrorizzanti sulle conseguenze delle scelte alimentari più comuni temo possano avere effetti contrari a quelli sperati, nel senso che vengano bellamente ignorati per evitare sensi di colpa.
Concordo con il fatto che occorre iniziare dal basso a modificare i consumi, ma occorre anche tenere conto delle situazioni concrete nelle quali si vive, ad esempio comprare a
chilometro zero va bene, ma se si è in pensione, o comunque si dispone di tempo, altrimenti è più veloce il super,
d’accordo con il boicottare case di produzione, ma se non si cambia
l’organizzazione produttiva e distributiva, volta al profitto e non al bene comune, non si potrà mai cambiare radicalmente comportamenti a livello di grandi numeri.
Infine si legge di congressi internazionali e seminari scientifici che scoprono che una vita serena, con scelte
appropriate alle singole soggettività, senza
frustrazioni e preoccupazioni è più lunga e sana.
Alle analisi sulle condizioni di lavoro, di reddito, di vita, dei diritti civili e sociali, dell'inquinamento e della distruzione di risorse, continuano a restare estranee le analisi sulle attività relative al lavoro domestico, vale a dire manutenzione degli ambienti, preparazione di cibo, allevamento delle piccoli/e, cura delle inabilità temporanee o permanenti, ristorazione psicofisica, affettiva, sessuale, rivolta soprattutto da donne a uomini adulti.
Attività che sostengono, in tutto il mondo, l'attuale sistema di produzione e distribuzione di beni e merci; attività gratuite, mal retribuite, disprezzate, che comunque hanno come protagoniste in maggioranza le donne, sia nei paesi arricchiti che nei paesi impoveriti, e negli ultimi anni anche i migranti uomini.
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